Corte Costituzionale – Sentenza n.  425 – Anno 2005

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

  • Annibale MARINI Presidente
  • Franco BILE  Giudice
  • Giovanni Maria FLICK
  • Francesco  AMIRANTE
  • Ugo DE SIERVO
  • Romano  VACCARELLA
  • Paolo MADDALENA
  • AlfioFINOCCHIARO
  • AlfonsoQuaranta
  • FrancoGALLO
  • Luigi MAZZELLA
  • GaetanoSILVESTRI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento del minore), sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), promosso con ordinanza del 21 luglio 2004 dal Tribunale per i minorenni di Firenze sul ricorso proposto da G. E., iscritta al n. 1039 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2005.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 ottobre 2005 il Giudice relatore Franco Bile.

 Ritenuto in fatto

    1. – Con ordinanza del 21 luglio 2004, il Tribunale per i minorenni di Firenze, nel corso di un procedimento civile introdotto da G.E. ai sensi dell’art. 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo già sostituito – al momento dell’instaurazione del procedimento – dall’art. 24 della legge 28 marzo 2001, n. 149 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento del minore», nonché al titolo VIII del Libro primo del codice civile) e, quindi, ulteriormente sostituito nel corso del procedimento – a decorrere dal 1° gennaio 2004 – dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del comma 7 del citato art. 28 nel testo da ultimo vigente «nella parte  in  cui  esclude  la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominato (recte: nominata) da parte della madre biologica».

    In tal modo il rimettente ha espressamente riproposto una questione che aveva già sollevato con l’ordinanza del 21 febbraio 2002, relativamente al testo del comma 7, vigente ratione temporis al momento della sua pronuncia, e riguardo alla quale questa Corte, con l’ordinanza n. 184 del 2004, dispose la restituzione degli atti, in ragione della sopravvenienza del citato art. 177, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003.

    2. – Riproponendo il testo della precedente ordinanza, il rimettente riferisce che il ricorrente ha esposto di essere stato adottato all’età di pochi mesi dai coniugi S.E. e M.T.L. e che la recente paternità di una bambina avrebbe riacceso in lui un grande desiderio di conoscere le proprie origini, desiderio del quale non voleva, peraltro, venissero a conoscenza i suoi genitori adottivi, ai quali non intendeva cagionare dolore, provando per essi un grande affetto.  Nel corso della successiva audizione il ricorrente ha riferito di essere a conoscenza che la sua madre biologica aveva dichiarato, al momento del parto, di non voler essere nominata e, deducendo di chiedersi se, a distanza di trentadue anni, non abbia cambiato idea, ha domandato che la stessa fosse interpellata in proposito.

    Ciò premesso, il rimettente:

    a) rileva [riportandone il testo vigente al momento della pronuncia dell’ordinanza] che l’art. 28, comma 5, della legge n. 184 del 1983 consente all’adottato che abbia compiuto 25 anni di accedere alle informazioni riguardanti la propria origine e l’identità dei genitori biologici, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni, ma che, tuttavia, il successivo comma 7, dispone che «l’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo», mentre il comma 8 dispone che «fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti, l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età quando i genitori sono deceduti o divenuti irreperibili»;

    b) enuncia, quindi, le ragioni della non manifesta infondatezza della questione, iniziando con il rilevare che studi psicologici e sociologici hanno evidenziato che «nelle persone adottate, insorge il bisogno di conoscere non solo la storia precedente all’adozione, ma anche l’identità dei propri genitori, al fine di ricostruire la propria storia personale e di giungere ad una più completa conoscenza di sé»;

    c) osserva che la conoscenza delle radici costituirebbe «presupposto indefettibile per l’identità personale dell’adottato», giacché la sua mancanza porterebbe spesso a costruire un’immagine idealizzata dei genitori biologici, cosa che sarebbe d’ostacolo al raggiungimento di quella identità e rileva che l’interesse dell’individuo a preservare la propria identità personale è una posizione di diritto soggettivo, espressiva della rappresentazione che l’individuo ha di se stesso come singolo e all’interno della comunità in cui vive e, quindi, della valutazione complessiva della persona;

    d) assume ancora che il diritto all’identità personale ed alla ricerca delle proprie radici è tutelato da disposizioni del diritto internazionale pattizio ed in particolare dagli articoli 7 e 8 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 ratificata con la legge 27 maggio 1991, n. 176 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989) e dall’art. 30 della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993, ratificata con la legge 31 dicembre 1998, n. 476 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozione di minori stranieri);

    e) sostiene infine che, quale aspetto del più ampio diritto all’identità personale anche il diritto a conoscere le proprie vere origini, in quanto contribuisce in maniera determinante a delineare la personalità di un essere umano, trova tutela nei principi fissati dall’art. 2 della Costituzione.

    2.1. – Inquadrata in tale contesto normativo, la negazione a priori dell’autorizzazione all’accesso alle notizie sulla propria famiglia biologica per il solo fatto che il genitore abbia dichiarato di non voler essere nominato costituirebbe – ad avviso del rimettente – una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e dunque del diritto all’identità personale dell’adottato, mentre l’esigenza di tutelare in modo assoluto il diritto alla riservatezza della madre biologica dovrebbe rispondere soprattutto all’interesse pubblico di disincentivare il ricorso a metodi di interruzione della gravidanza o, nei casi peggiori, di evitare l’infanticidio ed era funzionale – tuttavia nel quadro culturale e sociale di qualche decennio fa, in cui un figlio illegittimo era considerato un’onta – a tutelare la madre da un passato da dimenticare perché disonorevole o doloroso.

    Questi interessi non sarebbero posti, però, in pericolo dal «semplice prevedere la possibilità di confermare, su istanza del figlio, la decisione presa molti anni prima in ordine alla scelta di rimanere nell’anonimato», posto che la madre potrebbe sempre ribadirla e dunque decidere di restare anonima.

    Si dovrebbe, dunque, concludere – secondo il rimettente – che la preclusione stabilita dalla norma impugnata  non appaia giustificata dall’esigenza di tutelare un interesse prevalente. Lo confermerebbe il fatto che nella nostra società un figlio nato fuori dal matrimonio non è più concepito come un disonore, come dimostrerebbe la crescita continua delle famiglie di fatto, delle madri non coniugate e non conviventi, del ricorso ai metodi di inseminazione artificiale, ecc.

    D’altro canto, il superamento di quella preclusione, dal punto di vista della tutela della famiglia adottiva, non potrebbe comportare alcun pericolo in più rispetto a quelli cui non sia già tuttora esposta a seguito della possibilità concessa all’adottato dai nuovi commi 5 e 6.

    In definitiva, ad avviso del rimettente, nel riformare l’art. 28 della legge n. 184 del 1983 in ordine all’accesso alle informazioni circa le proprie origini da parte dell’adottato, il legislatore avrebbe recepito i suggerimenti pervenuti dalle scienze giuridiche, psicologiche e sociali e concernenti l’importanza del diritto dell’adottato alla conoscenza dei propri dati biologici quale esplicazione del diritto alla costruzione della propria identità personale, ma, del tutto irragionevolmente, proprio con la previsione del comma 7, avrebbe determinato il rischio di precludere nella maggior parte dei casi ciò che voleva consentire.

    In riferimento alla censura di violazione dell’art. 32 della Costituzione, il rimettente sostiene che la norma impugnata sarebbe lesiva del diritto alla salute ed all’integrità psico-fisica, dovendosi considerare che anteriormente ad essa la giurisprudenza minorile aveva ritenuto che, con la prudente mediazione ed il supporto operativo discreto ed oculato del servizio sociale, potesse «consentirsi all’adottato maggiorenne di riallacciare i rapporti con la propria famiglia di sangue, pur nutrendo il maggior affetto ed un profondo attaccamento per la famiglia adottiva, qualora il soddisfacimento di un desiderio siffatto, nutrito da assai lungo tempo ed esternato pacatamente ma insistentemente ai familiari adottivi, abbia ad eliminare il costante, grave travaglio psicologico ed esistenziale, fonte di inquietudini tormentose e di assai pericolose ansie, che affligge l’adottato, contribuendo così in maniera determinante al suo benessere psico-fisico; e ciò tanto più quando i congiunti di sangue e di affetto hanno manifestato al giudice un incondizionato consenso a che un sì rilevante desiderio dell’adottato venga esaudito».

    Circa il contrasto con l’art. 3 della Costituzione, sostiene il rimettente che la rigida preclusione di cui all’art. 28, comma 7, viola anche il principio di eguaglianza per disparità di trattamento, in quanto sottopone ad una diversa disciplina due soggetti che si trovano nella medesima condizione, quella di adottato, cioè l’adottato la cui madre non abbia dichiarato alcunché – riguardo al quale è richiesta solo l’autorizzazione del tribunale per i minorenni, che, peraltro, cessa d’essere  necessaria nel caso di morte o irreperibilità dei genitori adottivi – e quello la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, senza tenere in alcuna considerazione l’eventualità che possa aver cambiato idea.

    Viceversa, l’art. 28, comma 7, avrebbe ritenuto prevalente su tutti gli interessi in conflitto quello del genitore biologico all’anonimato, in base alla dichiarazione fatta al momento della nascita dell’adottato, così attribuendo una valenza assoluta ed incontrovertibile alla scelta operata allora, senza farsi carico di verificare se essa conservi la sua validità nel tempo.

    Ma in tal modo la norma avrebbe sacrificato sempre e comunque l’interesse dell’adottato e ciò anche a fronte di gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica.

    2.2. – Dopo avere riportato il testo dell’ordinanza del 21 febbraio 2002, innanzi riassunto, il rimettente, in relazione alla restituzione degli atti per jus superveniens  disposta dall’ordinanza n. 184 del 2004 della Corte, richiama il testo dell’art. 28, comma 7, novellato dalla legge n. 149 del 2001 e quello novellato dall’art. 177, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003 e, quindi, quello dell’art. 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), richiamato dal nuovo testo dell’art. 28, comma 7, e disciplinante la dichiarazione di nascita, con espresso riferimento alla volontà della madre di non essere nominata. Osserva, quindi, che nel caso di specie risulterebbe che l’ostetrica incaricata dell’assistenza  al parto da cui nacque l’istante G.E., nella dichiarazione raccolta dall’Ufficiale di stato civile, menzionò unicamente la presenza di una donna che non consente di essere nominata, che il 26 dicembre 1970 aveva partorito un bambino di sesso “mascolino” e che, come previsto dalla legge, lo stesso Ufficiale di stato civile ebbe ad imporre al bambino il nome.

    Poiché la dichiarazione della madre di non consentire di essere nominata, a suo tempo raccolta dall’ostetrica, impedisce tuttora l’accesso alle informazioni sulle origini anche in base al nuovo testo del comma 7 dell’art. 28, la questione, per come a suo tempo motivata in punto di non manifesta infondatezza, sarebbe rilevante anche in relazione a tale testo.

    3. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato memoria, nella quale – dopo avere richiamato lo svolgimento della vicenda conclusasi con la restituzione degli atti da parte dell’ordinanza n. 184 del 2004 – ha sostenuto l’inammissibilità ed in subordine l’infondatezza della questione.

  Considerato in diritto

    1. – Il Tribunale per i minorenni di Firenze propone – in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata da parte della madre biologica».

    La questione era già stata sollevata dal medesimo Tribunale sulla stessa norma, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 196 del 2003, e la Corte, con ordinanza n. 184 del 2004, aveva disposto la restituzione degli atti al giudice rimettente per un nuovo esame alla luce della norma sopravvenuta; con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale ha poi riproposto la questione sul nuovo testo dell’art. 28.

    2. – La norma impugnata rappresenta il punto di arrivo dell’evoluzione legislativa sul tema dei rapporti tra il minore adottato con adozione legittimante e la sua famiglia di origine.

    L’opzione di fondo della disciplina originaria era la loro totale cessazione, salvi i soli impedimenti matrimoniali, come effetto dell’attribuzione all’adottato dello stato di figlio legittimo dei genitori adottivi (art. 314/26 del codice civile, introdotto dall’art. 4 della legge 5 giugno 1967, n. 431, e poi sostituito dall’art. 27 della legge 4 maggio 1983, n. 184).

    La legislazione successiva è intervenuta a tutelare l’interesse dell’adottato a conoscere le proprie origini, tenendo peraltro conto della relazione conflittuale tra tale interesse e quello dei genitori naturali e adottivi. Così la legge 28 marzo 2001, n. 149, ampiamente modificando la disciplina della ricordata legge del 1983, ha, con l’art. 24, introdotto un nuovo testo dell’art. 28 di tale legge: esso al comma 1 impone ai genitori adottivi di informare il minore adottato della sua condizione, nei modi e termini ritenuti più opportuni, e nei commi 5 e 6 assoggetta l’accesso dell’adottato alle informazioni sulle proprie origini ad una serie di cautele variamente commisurate alla sua età e alle ragioni della ricerca.

    Come norma di chiusura di tale sistema il comma 7 del nuovo art. 28 vietava comunque l’accesso alle informazioni «se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non volere essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo».

    In seguito l’art. 177, comma 2, del d. lgs. n. 196 del 2003, ha nuovamente modificato il comma 7 dell’art. 28, restringendo il divieto di accesso dell’adottato alle informazioni sulle origini al solo caso di manifestazione, da parte della madre naturale, della volontà di non essere nominata nella dichiarazione di nascita, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. Ed è questa la norma oggi impugnata, riguardo alla quale il rimettente ha motivato non implausibilmente la rilevanza ed ha espresso la valutazione di non manifesta infondatezza.

    3. – La questione non è fondata.

    4. – La violazione dell’art. 2 della Costituzione è prospettata dal rimettente sotto il profilo che la norma impugnata farebbe prevalere in ogni caso l’interesse della madre naturale all’anonimato sul diritto inviolabile del figlio all’identità personale. Censurando particolarmente tale assolutezza, il rimettente chiede alla Corte una sentenza additiva che dichiari la norma costituzionalmente illegittima nella parte in cui, ove la madre naturale abbia manifestato la volontà di non essere nominata, non condiziona il divieto per l’adottato di accedere alle informazioni sulle origini alla previa verifica, da parte del giudice, dell’attuale persistenza di quella volontà.

    A prescindere da ogni altra considerazione sulla portata di una tale pronuncia, la tesi del rimettente è infondata.

    La norma impugnata mira evidentemente a tutelare la gestante che – in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale – abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi.

    L’esigenza di perseguire efficacemente questa duplice finalità spiega perché la norma non preveda per la tutela dell’anonimato della madre nessun tipo di limitazione, neanche temporale. Invero la scelta della gestante in difficoltà che la legge vuole favorire – per proteggere tanto lei quanto il nascituro – sarebbe resa oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà.

    Pertanto la norma impugnata, in quanto espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda, non si pone in contrasto con l’art. 2 della Costituzione.

    5. – La violazione dell’art. 32 della Costituzione, sotto il profilo del pregiudizio del diritto dell’adottato alla salute e all’integrità psico-fisica, è prospettata come conseguenza della lesione del suo diritto all’identità personale, garantito dall’art. 2 della Costituzione. La censura è quindi infondata per le ragioni sopra esposte.

    6. – La violazione dell’art. 3 della Costituzione è dedotta sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subìto l’adozione. Il rimettente ritiene irragionevole la scelta legislativa di vietare al primo l’accesso alle informazioni sulle proprie origini e consentirla invece al secondo, mentre l’equilibrio dell’adottato e quello dei genitori adottivi può essere esposto nell’ultimo caso ad insidie maggiori che non nel primo, nel quale il genitore biologico a distanza di anni potrebbe avere elaborato la condotta passata.

    La censura è infondata, perché la diversità di disciplina fra le due ipotesi non è ingiustificata. Solo la prima, infatti, e non anche la seconda, è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato.

per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo modificato dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il   16 novembre 2005.

F.to:

Annibale MARINI, Presidente

Franco BILE, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2005.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA