“Atti persecutori” e Stalking” [*]
Alcuni problemi interpretativi (in the books) del nuovo art. 612-bis c.p.
di Giuseppe Losappio
Professore associato di diritto penale
I Facoltà di Giurisprudenza – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”


1. – «Il comportamento dello stalking – si legge nell’introduzione dell’accuratissima ricerca svolta in US dal Civil Research Institute – è sempre esistito nella storia [1] ma solo di recente ricercatori, legislatori di paesi diversi, professionisti della salute mentale e giuristi hanno cominciato a studiare l’argomento» [2]. Le prime cronache risalgono agli anni settanta. Le prime indagini sono degli anni ottanta. Le une e le altre hanno riguardato prevalentemente il c.d. star-stalking. È solo a partire dagli anni novanta che le ricerche sullo stalking hanno conosciuto un vigoroso sviluppo. Sono dello stesso decennio anche le prime leggi anti-stalking, a cominciare dal § 646.9 del Californian Penal Code (1990), il prototipo della legislazione statunitense, legislazione-battistrada, a sua volta, per quelle degli altri paesi.


Nonostante l’ormai pluridecennale elaborazione, i diversi saperi faticano a formulare una definizione dello stalking. Il successo riscosso dal lemma, anche in ambito scientifico, non sembra tuttavia corrispondere ad un’adeguata consolidazione del relativo statuto semantico [3].


La “tipizzazione” è resa difficile perché il fenomeno descrive «una costellazione comportamentale» [4] complessa che può avere motivazioni psicologiche, in parte anche psico-patologiche o psichiatriche, suscettibile di ulteriore esame da un punto di vista sociologico, psico-sociologico, criminologico, vittimologico e medico-legale.


Né la difficoltà è attenuata dalla pretesa evidenza del concetto. Sarà pur vero che lo stalking è come la great art. «Il pubblico non è in grado di definirla ma sa riconoscerla quando la vede» [5]. È appena il caso di ricordare, tuttavia, che una funzione basilare della tipicità penale è proprio quella di sottrarre la conoscenza del fatto vietato alle intuizioni del giudice e di porre il giudizio penale al riparo delle pre-comprensioni, anche quelle davvero insidiose fondate sull’evidenza.


Il problema dunque resta perché la parola stalking indica un fenomeno piuttosto che un fatto, un comportamento piuttosto che una condotta precisamente identificabile, fenomeno e comportamento che possono comprendere fatti e condotte molto differenti, fatti e condotte che, a loro volta, non sempre hanno una chiara vocazione finalistica oppure un’altrettanto definita proiezione offensiva nei confronti della vittima.


Per converso, si può osservare che le situazioni in cui lo stalking si esprime anche mediante comportamenti incontrovertibilmente suscettibili di qualificazione penalistica non agevolano la soluzione del problema. Si pensi al caso – descritto da un quotidiano tedesco [6] – di una donna alla quale lo stalker aveva infettato il computer con un virus (“Trojan Horse”), in modo da poter leggere le sue mail. Questa condotta, in Italia, integrerebbe senza dubbio un “reato informatico” (art. 615 quinquies ovvero art. 617 quarter c.p.) ma è del tutto evidente che il phishing dei dati relativi alla corrispondenza elettronica non rappresenta affatto la cifra della vicenda in esame, mentre le difficoltà di prova relative alla provenienza del virus potrebbero dirottare le indagini verso un binario morto e comunque distante dalla principale direttrici degli eventi.


2. – La risposta del legislatore alle difficoltà definitorie è stata la formulazione di un reato apparentemente modellato seguendo il tradizionale framework azione-nezzo di causalità-evento-dolo generico.


L’art. 612-bis pretende di collegare alle «condotte reiterate» tre conseguenze: «un perdurante e grave stato di ansia o di paura», «un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva», un’alterazione delle «abitudini di vita».


Sennonché, la confusa e ridondate descrizione dell’azione, l’improprio utilizzo della terminologia della causalità naturalistica e l’individuazione di pseudo-eventi/situazioni finali sfumati, molto eterogenei tra loro anche in termini di intensità offensiva e, comunque, privi di adeguata consistenza empirica concorrono nel delineare un quadro di tipicità empiricamente scorretto, impreciso e indeterminato.


3. – Il reato di atti persecutori è “comune”. «Chiunque» può esserne autore. Nel delitto in esame, l’esistenza di una relazione con la vittima – un presupposto cangiante ma pressoché indefettibile del fenomeno secondo le descrizioni extrapenalistiche – assume specifico rilievo solo nell’aggravante del secondo capoverso laddove è appunto previsto un aumento della pena «se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa».


La formula non è chiara; o meglio è chiara ma difettosa. L’aggravante opera senz’altro dopo la separazione ovvero il divorzio. È dubbio, invece, se sia applicabile nei confronti dei coniugi che non vivono più insieme, ovvero, delle persone che hanno convissuto, senza essere mai state sposate, laddove, in entrambi i casi, la loro relazione affettiva non sia ancora terminata.


Il problema è che la disposizione non combina con coerenza il consortium vitae, l’affectio maritalis o tra i conviventi.


Nel caso delle persone coniugate parrebbe rilevare solo l’accertamento giudiziale – costitutivo o ricognitivo – della separazione o dello scioglimento del matrimonio. Nei confronti dei coniugi, pertanto, l’aggravante non dovrebbe operare durante la separazione di fatto.


Questa conclusione vanta la coerenza con il dato testuale ma risulta in palese contrasto con la realtà. La separazione di fatto è una fase del matrimonio nella quale il fenomeno dello stalking si manifesta con particolare virulenza [7].


Cercare di ovviare al problema, valorizzando l’approccio sostanzialistico che caratterizza la seconda parte della disposizione non è, peraltro, agevole. Nella formula dell’art. 612-bis cpv il riferimento alla precedente relazione affettiva riguarda un soggetto diverso dal coniuge. Questo può essere un convivente ma anche un amante, più o meno “stabile”, un parente e persino un amico. È appena il caso di osservare, infatti, che l’esistenza di una relazione affettiva non richiede l’esistenza tra i soggetti del rapporto di un consortium vitae, riconosciuto o meno dal diritto. Nulla esclude, peraltro, che una relazione affettiva corra in parallelo con il matrimonio o la convivenza con altri soggetti.


Il risultato è paradossale o comunque incongruo. La tutela che l’art. 612-bis allestisce nei confronti dei coniugi è inferiore rispetto a quella dei soggetti legati da una qualsivoglia affectio. Per i coniugi, l’aggravante opera solo dopo la separazione legale, mentre per tutti gli altri soggetti non appena si dissolve la trama degli affetti.


L’interpretazione restrittiva-correttiva può porre rimedio alla imprecisione della seconda parte della formula restituendo un significato di relazione affettiva corrispondente ai contenuti del rapporto che – secondo la legge civile – corre tra il marito e la moglie. Così forzato il testo dell’art. 612-bis cpv si potrebbe persino “tradurre” il concetto di relazione affettiva con quello di convivenza tendenzialmente permanente ed esclusiva tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso, riducendo, pertanto il presupposto dell’aggravante alla rottura di un precedente consortium omnium vitae. In nessun modo, però, senza approdare ad un’applicazione analogica, il significato dell’aggravante potrebbe essere tornito in modo da porre sullo stesso piano le persone sposate e quelle che non lo sono.


L’insuperata e insuperabile incongruenza dell’art. 612-bis secondo comma è la spia di un primo aspetto di scorrettezza empirica del nuovo reato di stalking. Il legislatore, equiparando un carattere del fenomeno – l’esistenza di una relazione tra stalker e vittima – con un ambito di manifestazione degli atti persecutori assai comune ma non essenziale ed esclusivo – le vicissitudini spesso travagliate di coniugi separati o divorziati –, per una parte, ha trasformato un elemento essenziale delle tipizzazioni extrapenalistiche in un elemento accessorio del reato, per l’altra, ha livellato la risposta punitiva di situazioni oggettivamente differenti, generando, per converso, altri dislivelli sanzionatori.


L’esistenza di una pregressa relazione – un elemento costitutivo e non una circostanza dello stalking – determina un aumento di pena alla stessa stregua di quanto è previsto per gli atti persecutori tra i coniugi legalmente separati o divorziati – circostanza eventuale e non essenziale del fenomeno-comportamento in esame. Al culmine dell’irragionevolezza per le persone non sposate basta il venire meno della convivenza per l’applicazione dell’aggravante, mentre solo per i coniugi la separazione di fatto è insufficiente.


La somma di tutte queste incongruenze è davvero sorprendente. La scorrettezza empirica dell’aggravante appena esaminata implica che gli atti persecutori potrebbero manifestarsi quasi sempre nella forma aggravata, salvo che l’autore e la vittima dello stalking siano coniugi non legalmente separati o divorziati, caso, in cui come si è cercato di dimostrare, la disposizione appena illustrata non è applicabile se non dopo la separazione legale, anche se la convivenza è terminata.


4. – « … con condotte reiterate, minaccia o molesta … ». Questa locuzione, strutturalmente molto semplice, è fonte, tuttavia, di numerosi problemi interpretativi.


La principale difficoltà riguarda il rapporto tra minacce e molestie, da un lato, reiterazione delle condotte, dall’altro. Non è affatto chiaro se l’art. 612-bis richiede semplicemente una reiterazione di minacce o molestie oppure una reiterazione di altre condotte causa di minaccia e molestie, sub-eventi, a loro volta, delle tre situazioni finali alle quali si è già accennato.


Ancora. Cosa debba intendersi per minacce o molestie nel contesto della disposizione in esame non è affatto scontato. Le alternative possibile sono tre:



  • – l’art. 612-bis è un reato complesso, nel senso che ingloba nella fattispecie i due reati degli artt. 612 e 660 c.p.;

  • – l’art. 612-bis implementa solo alcuni – ma quali ? – elementi dei reati di minacce e molestie;

  • – l’art. 612-bis opera un’autonoma ri-descrizione del concetto di minaccia o molestia.

Resta infine da precisare la portata della reiterazione. Qual è il numero di atti intrusivi necessario e sufficiente, per l’esistenza dell’omonimo reato ? Due, come suggerisce la legislazione inglese ? Di più ? Qual è l’intervallo di tempo minimo e quale quello massimo perché possa distinguersi la reiterazione dal singolo atto ?               


5. – La soluzione del primo problema evidenziato nel paragrafo precedente non trova nella “lettera” dell’art. 612-bis un riscontro risolutivo.


Il dato testuale, interpretato alla luce della conoscenza empirica, tuttavia, gioca a favore di una lettura tripartita del nuovo delitto di stalking: condotte reiterate (azione) che provocano una molestia o una minaccia (sub-evento) che causano l’evento (finale) del delitto.   


L’art. 612-bis giustappone la reiterazione delle condotte alle molestie e alle minacce, laddove se il legislatore avesse voluto conferire al delitto una struttura più semplice, bipolare (minacce e molestie che causano l’evento), avrebbe utilizzato un’espressione diversa del tipo «reiterate molestie o minacce». La soluzione appena proposta, peraltro, è, almeno in parte, più coerente con le conoscenze empiriche illustrate in precedenza, registrando che nelle tipizzazioni extrapenalistiche del fenomeno le condotte dello stalker sfuggono a qualsiasi tentativo di predeterminazione. Ogni stalker ha una sua piattaforma operativa, una “strategia” o perlomeno una tattica che sovente muta in funzione delle circostanze, la reazione della vittima, in primo luogo.


Un’interpretazione diversa sarebbe, quindi, praeter se non contra facta.


Non per questo, tuttavia, bisogna credere, che la sintonia tra fatto e diritto, realizzata attribuendo al primo segmento del nuovo delitto di atti persecutori la massima ampiezza possibile, valga da sola a garantire che il quadro di vita descritto con la locuzione in esame sia in effetti secundum facta.


Non denota simpatia tra fatto e diritto l’interposizione tra l’azione e l’evento “finale” dei sub-eventi di minaccia e molestie. La ragione per la quale è stata operata questa scelta è abbastanza agevolmente riconoscibile nella preoccupazione di assicurare al nuovo delitto livelli di precisione e determinatezza adeguati. Forse nella mens legislatoris si è persino affacciato il funesto fantasma del plagio. Se così fosse minacce e molestie sarebbero state inserite nel testo dell’art. 612-bis per assicurare al reato di «atti persecutori» l’avallo di elementi/concetti di lungo corso, collaudati e in qualche misura affidabili. Sennonché il risultato finale è contraddittorio e insoddisfacente, sotto un triplice profilo.


In primo luogo, bisogna considerare l’eventualità, invero molto concreta, che le condotte reiterate consistano in minacce e molestie. In questo caso, la distinzione tra condotta e sub-evento si dissolverebbe e la formula del nuovo art. 612-bis assumerebbe un timbro iterativo e ridondante.


Per converso, non è affatto scontato che le condotte, persino quelle minacciose o moleste, sfocino, seppur medio tempore, nei sub-eventi di minacce o molestie.


Bisogna osservare infine che in the facts le situazioni finali descritte dall’art. 612-bis non sempre sono riferibili ai due sub-eventi cui la disposizione in esame attribuisce indiscriminatamente discriminante rilievo.


Certo, queste obiezioni sono condizionate dal significato che si attribuisce alle minacce e alle molestie. Se si accorda credito alla voluntas legislatoris di contenere il rischio dell’imprecisione  è persino ovvio che solo un’interpretazione restrittiva/selettiva sarà funzionale all’esigenza appena indicata. In ogni caso, minacce e molestie autonomamente ri-descritte in termini vaghi sarebbero semplicemente inutili, perché, se non altro, finirebbero per confondersi con il requisito della reiterazione (delle condotte) contenuto nell’incipit della formula in esame. Minacce inidonee, inconsistenti ( … lo stalker che giura eterno amore alla vittima), irrealizzabili, non dovranno comunque trovare accesso nel delitto di stalking.  Lo stesso vale per le molestie. Assumano o meno un significato inedito rispetto a quello degli omonimi reati del codice, i due sub-eventi dovranno essere letti in termini non troppo ampli.


L’eventuale ri-descrizione delle molestie e delle minacce dovrà fungere da filtro. Dovrà trattarsi – giova ribadire – di nozioni selettive, anche se nulla impone di fare riferimento alle nozioni di minaccia e molestia degli artt. 612 e 666 c.p.. Nulla impone che nello stalking la molestia effettuata con un mezzo diverso dal telefono debba avvenire «in luogo pubblico o aperto al pubblico, per petulanza o per altro biasimevole motivo»; del pari, nulla impedisce di attribuire rilievo anche alle molestie effettuate per posta, tramite il web o in qualsiasi altro modo, in qualsiasi luogo, privato o meno e per qualsiasi ragione. Allo stessa stregua si potrebbe osservare che la minaccia dell’art. 612-bis non deve essere diretta a far sorgere il timore di un danno ingiusto, come richiede invece l’omonimo delitto ma una lettura così impostata rischia di non essere funzionale alle esigenze di precisione e di determinatezza al cui servizio il legislatore ha posto i due sub-eventi.


Sotto questo profilo, il testo dell’art. 612-bis chiude l’interprete in un vicolo cieco: l’interpretazione restrittiva seleziona irrazionalmente la realtà; l’interpretazione che cerca la sintonia con la realtà consegna un fatto tipico carente sotto il profilo assiologico.


Il terzo e ultimo problema interpretativo è allo stesso tempo il più complesso dal punto di vista teorico.


Un esame compiuto della locuzione «condotte reiterate» richiederebbe, infatti, un duplice set di riflessioni:



  • – il primo sul concetto di azione, sul rapporto tra azione e condotta, tra questa e quello di atti, diretto a porre le basi per decifrare il significato dell’inedita espressione che compare nel nuovo reato;

  • – il secondo volto alla classificazione più corretta dello stalking nelle categorie del reato complesso, del reato abituale, del reato permanente e del reato progressivo.

Sarebbe – è appena il caso di osservare – un impegno mastodontico, che non può essere svolto in questa sede, dove basta svolgere qualche osservazione della “condizione spirituale” dell’esperienza giuridico-penale italiana sull’azione – sulla «funzione limitativa» [8]  in special modo.


Sotto questo specifico aspetto, giova, in particolare, porre in rilievo che la teoria e la prassi, dopo la riforma dell’art. 81 c.p. [9], hanno pressoché completamente dismesso la ricerca dei confini. Da allora, invero, unità e pluralità di azioni, non rappresentano più i termini di una relazione dialettica “dogmatica” e soprattutto applicativa. Il confine dell’azione unitaria, ovvero l’alternativa azione unitaria-pluralità di azioni, la distinzione tra il reato e le forme della pluralità di reati [10], per effetto della disciplina contenuta nell’art. 81 c.p., rilevano pressoché esclusivamente sul piano della commisurazione della pena e sono recessive rispetto ai criteri dell’art. 133 c.p., come dimostra emblematicamente il c.d. patteggiamento, nelle c.d. situazioni standard, nelle quali il rilievo del concorso formale o della continuazione è in the facts assorbito nel giudizio relativo alla «congruità della pena».


Con la riforma, il concetto di  « … azione (unitaria) diviene solo un nome, e la relativa definizione una mera regola di linguaggio, che … si palesa … priva di idoneo e sufficiente grado di verificabilità»[11] e, quindi, incapace di contrapporsi selettivamente alla pluralità di azioni. Come le altre manifestazioni di preter-effettività [12] della regolamentazione codicistica, l’art. 81 c.p., lungi dal poggiare su basi di qualche consistenza concettuale, opera in quello che nella prassi viene percepito (o si vuole far passare) come uno spazio opportunamente libero da stringenti  elaborazioni teoriche e da influenze politico criminali. Emancipata dai laccioli del “culturame” dogmatico, la disciplina dell’art. 81 c.p. avrebbe il pregio di permettere al giudice di livellare la pena alla pre-comprensione della colpevolezza, anche mediante un’accorta gestione delle qualificazioni multiple e dei relativi rapporti normativi [13].


Questa duttilità operativa, quando non è in gioco la dosimetria della pena ma – come accade nell’art. 612-bis – l’an della responsabilità indica che la descrizione legislativa del fatto potrebbe non corrispondere al minimum standard del corollario di precisione. Il dislivello tra lo slancio applicativo e la pigrizia gnoseologica ed euristica dell’esperienza giuridico-penalistica italiana sugli ambiti di materia regolati dall’art. 81 c.p. dà ulteriormente corpo a questi timori. Desta preoccupazione, in particolare, la complementarietà tra la funzionalizzazione della unità e pluralità di azioni/reati alle esigenze del management  giudiziario e l’«etereità» [14] della relativa dimensione concettuale. Un “fatto” è certo. Le conoscenze scaturenti dalla riflessione teorica e dall’applicazione dell’art. 81 c.p. non forniscono alcuna risposta alle domande dalle quali avevamo preso le mosse. Sono tutti interrogativi cui dovrà essere allestita una risposta senza la guida della parte generale; anzi, lo stalking potrebbe persino assurgere a reato-esempio [15], tributando alla parte generale l’elaborazione che si formerà sui requisiti della condotta e della reiterazione.


Nella lettera dell’art. 612-bis, invero, tracce seppur minime in questa direzione non mancano. L’art. 612-bis, chiarisce, innanzitutto che la reiterazione dovrà riguardare condotte e non meri atti.


Distinguere, tuttavia, tra questi due termini, di per sé, non è affatto agevole. In altri reati (che sembrerebbero) plurisussistenti (si pensi ai c.d. reati che puniscono l’esercizio abusivo di un’attività imprenditoriale), peraltro, non è raro che la giurisprudenza identifichi la condotta nel compimento di un solo atto. È difficile prevedere se l’espressione «condotte reiterate» – espressione tutt’altro che tecnicamente ineccepibile (e contraddetta, peraltro, dalla rubrica dell’art. 612-bis) – valga ad orientare l’interpretazione giudiziale nel senso di richiedere una certa abitualità, finalisticamente diretta, del comportamento intrusivo [16].


6. – La formula dell’art. 612-bis indica tre output del comportamento persecutorio:



  • – perdurante e grave stato di ansia o di paura;

  • – fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva;

  • – alterazione delle proprie abitudini di vita.

Sono quadri di vita molto «viziosi» che presentano difetti in parte opposti, in parte speculari.


L’alterazione delle abitudini di vita è una formula troppo generica, poco e maldestramente selettiva che per un verso potrebbe trovare applicazione anche in presenza di variazioni insignificanti dei comportamenti quotidiani, per l’altro potrebbe non intercettare le sequele dello stalking corrispondenti a modifiche in negativo del comportamento estranee al concetto di condotte abitudinarie: si pensi ai disturbi del sonno o all’inappetenza che non esiti in una vera e propria sindrome anoressica, ovvero in un’altra malattia psichica [17].


Maldestramente selettivo è anche il «perdurante e grave stato di ansia o di paura», un quadro psicologico, che potrebbe porre considerevoli difficoltà di accertamento e che, in ogni caso, non comprende lo stress e la depressione, conseguenze assai comuni dello stalking cui, nel doveroso rispetto del principi di tassatività, il giudice non dovrà applicare l’art. 612-bis.


Ancora più gravemente e radicalmente maldestra appare, infine, la scelta di configurare le situazioni finali poco prima richiamate come eventi-conseguenza della condotta di stalking e dei relativi sub-eventi.


Simile opzione introduce un significativo elemento di discontinuità rispetto alla impostazione codicistica dei reati di minacce e molestie. L’art. 612 c.p., infatti, non richiede che la minaccia incuta nella vittima il fondato timore del danno ingiusto. Basta che la condotta minacciosa sia idonea ad intimorire una reasonable person. Del pari, l’art. 660 c.p. se la molestia è oggettivamente tale non esige nemmeno che la vittima del comportamento sgradito abbia percepito il disturbo. Basta appunto l’idoneità della condotta. Secondo la giurisprudenza occorre la molestia-evento quando la molestia-condotta non sia oggettivamente apprezzabile con riferimento alla psicologia normale e media delle persone, in relazione cioè al modo comune di vivere delle stesse. L’evento-molestia, anche in questo caso, tuttavia, non assume i caratteri dell’evento materiale fisicamente e cronologicamente separato rispetto alla condotta. È in realtà, la stessa condotta-molesta, colta nella sua dimensione lesiva, «così come … appare alla valutazione di un osservatore esterno, cioè a parte obiecti» [18].


L’art. 612-bis, invece, non si limita a richiedere l’idoneità della condotta. L’art. 612-bis esige, piuttosto, che la reiterazione delle condotte intrusive/intimidatorie, innescando le minacce o le molestie, produca, attraverso questo mezzo, le tre situazioni finali più volte richiamate. L’uso del verbo «cagionare» sembrerebbe esplicito in tal senso ma, a dispetto del tenore letterale apparentemente inequivoco, la relazione trifasica atti persecutori – sub-eventi – eventi potrebbe non corrispondere al requisito causale disciplinato dagli artt. 40 e 41 del codice.


La causalità tra le minacce e molestie e il perdurante e grave stato di ansia o di paura, il fondato timore di danni ingiusti per se o i propri cari o l’alterazione delle proprie abitudini di vita non è materiale ma, almeno in parte, psichica perché, a differenza della prima, non collega la condotta umana ad un evento di tipo naturalistico ma si esprime nella correlazione tra esperienze di vita, ovvero tra «la condotta dell’autore e la risposta reattiva di un altro soggetto» [19]. Per tale ragione, la sequenza causale del reato potrebbe non essere «condizionale», sfuggendo, come le altre forme di causalità psichica, alla sfera di applicazione delle leggi generali di copertura [20]. Nell’ordito in cui si svolgono le relazioni umane – input/output autore/vittima, con riguardo allo specifico dello stalking – il modello nomologico-deduttivo potrebbe non essere congruente vuoi perché limiterebbe «in guisa eccessiva la possibilità di utilizzare le regole di esperienza tratte dalla vita ordinaria», vuoi perché offuscherebbe «la singolarità e particolarità delle situazioni concrete di comunicazione interpersonale» [21]


È appena il caso di avvertire che non spetta certo ad una riflessione sullo stalking di risolvere questioni che attanagliano la filosofia e, quasi di riflesso, il diritto penale da secoli (se non da sempre). Piuttosto mette conto di svolgere due puntualizzazioni, evidenziare una potenziale contraddizione e, quindi, isolarne i cascami.


Gli eventi dell’art. 612-bis non sono omogenei. Occorre dunque precisare quali sono le differenze e se e (se sì) in che modo queste incidono sulla natura della causalità del reato in esame. L’alterazione delle proprie abitudini di vita è, senz’altro, l’evento che meglio corrisponde all’epicentro del dibattito sulla causalità psichica, ovverosia l’influenza di una condotta umana, cosciente e volontaria, sulla decisione di un altro soggetto. Sottoposta agli stimoli dello stalker è la vittima che “decide” suo malgrado di adottare una risposta, nella speranza di sottrarsi all’intrusione in atto. Per ricostruire in termini di sine qua non il nesso tra input e output è necessario che la relazione tra l’autore e la vittima possa essere spiegata e universalizzata, id est, trasformata nella X relazione tra la X condotta e l’X evento-condotta. All’uopo, secondo il più esigente modello del paradigma condizionalistico, occorrerebbe conoscere la legge statistica di copertura tra i due termini della relazione causale e, sulla base di tale conoscenza, si dovrà potere affermare con un grado di probabilità prossimo alla certezza che data la X condotta si verificherà l’X evento. Occorrerà, in altri termini, dimostrare non solo che – ma anche perché alla X condotta quasi sempre seguirà l’X evento. Solo così, infatti, il giudizio che la condotta Y (conforme alla X condotta) è stata causa/condizione dell’evento-condotta Y (conforme all’X evento-condotta) risulterà compatibile con le istanze di garanzia ordite nella tipicità penale, che sottendono a questa elaborazione teorica [22].


Le stesse conclusioni valgono per tutte le «situazioni finali» dell’art. 612-bis anche se, a ben vedere, sia il perdurante e grave stato di ansia o di paura sia il fondato timore di danni ingiusti per se o i propri cari non costituiscono eventi/condotta, ma eventi/reazione, esiti che colgono status psicologici nei quali sembrerebbe mancare la decisione di fare alcunché. Non si decide, infatti, di essere preda dell’ansia, di soffrire la paura o di temere qualcosa. L’assenza dell’elemento volitivo colloca questi due output dell’art. 612-bis in una zona grigia al confine tra causalità materiale e psichica, dove il tasso di problematicità del rapporto tra le due categorie appare più sfumato.


È con riferimento alla capacità di pensare, di prendere decisioni e di assumere volontariamente i comportamenti conseguenti che si è opposto al concetto di causa/condizione psichica l’isomorfismo tra il mondo del pensiero e la fisica delle micro-particelle. Secondo un’ardita e affascinante lettura, entrambi sarebbero soggetti al principio di indeterminazione. Come nel campo della microfisica non è possibile formulare previsioni di verosimiglianza statistica, perché l’osservazione stessa incide sull’oggetto osservato modificandolo, così «Ogni esperimento … modifica l’uomo come oggetto dell’esperimento, perché la capacità individuale di pensare e reagire diversamente rispetto allo stimolo comunicativo esclude in radice la riproducibilità delle situazioni nonché la stessa formulazione delle leggi di verosimiglianza» [23]. Quando sono in gioco l’Io e il Superio parlare di causalità psichica potrebbe essere persino ontologicamente scorretto, posto che la causalità psichica non esiste nel senso di una stretta causalità [24]. Il cambiamento delle abitudini non sarebbe quindi in nessun caso riconducibile nei termini sopra descritti della condicio sine qua non ai sub-eventi e alle condotte reiterate. Per la paura e il fondato timore, quali espressioni sub-coscienti dell’Es, le generalizzazioni statistiche potrebbero essere configurabili. 


È un fatto, però, che simile affermazione, nella misura in cui presuppone la dottrina secondo cui la causalità psichica soggiace agli stessi standard di quella materiale, proprio con riferimento al reato dell’art. 612-bis incontra uno specifico ostacolo di ordine logico.


Lo snodo argomentativo è legato al significato che l’opzione teorica in esame assume nel dibattito sul determinismo.


Sembra difficile negare che «il tentativo di ricondurre la problematica dell’influenza reciproca tra le volontà al dominio della regolarità secondo legge» [25] (sia pure statistica, com’è stato suggerito) non involva questo problema.


Come è stato incisivamente osservato, «ciò che il non determinista (cioè il sostenitore di uno spazio di libertà nella decisione umana) vuole affermare non è che le azioni non abbiano una causa (rectius: una ragione). Il non determinista intende contestare che esse abbiano una causa che possa essere descritta attraverso una legge di carattere generale. Che il non determinista sostituisca un legame empirico al legame secondo legge non è differenza da poco rispetto al determinista: individuare un legame “empirico” non descrivibile secondo una legge di carattere generale, significa infatti affermare (positivamente) che la ragione dell’azione sta nella libertà del soggetto, che attua l’intenzione delibata come per sé valida dal giudizio interiore, inclinando verso la scelta di un motivo piuttosto che di un altro. Significa altresì tener conto (negativamente) che la ragione dell’azione particolare non è predeterminata dalla sequenzialità invariabile predetta da una legge di carattere generale, e affermare, conseguentemente, in consonanza con il giudizio che affiora dall’esperienza comune, che le azioni umane future non sono prevedibili con caratteri di certezza. Sostenere, invece, che il mondo psichico è retto dalla causalità della condizione secondo legge significa predicare l’assoluta necessità, nonché la conseguente assoluta prevedibilità e predittibilità delle azioni umane» [26].


Se questo è l’ineludibile approdo del preteso isomorfismo tra causalità psichica e causalità materiale, assumere il collegamento tra il comportamento dello stalker e le conseguenze descritte dall’art. 612-bis sotto il governo della prima categoria, implicherebbe che la tutela della “libertà morale” alla quale il delitto di atti persecutori è deputato potrebbe persino essere impossibile.


Se l’accertamento del nesso causale tra atti intrusivi/persecutori e conseguenze imponesse di riconoscere «l’assoluta necessità», l’«assoluta prevedibilità» e l’assoluta «predittibilità delle azioni umane», si dovrebbe concludere che l’uomo non è libero e quindi che la libertà morale non è offendibile perché semplicemente non esiste.


Prof. Avv. Giuseppe Losappio


Note



[*] Trani, Sporting Club, 9 maggio 2009, Convegno “ Nuove norme in materia di violenza sessuale ed atti persecutori: Stalking. Prime riflessioni sul D. L. 23 febbraio 2009 n. 11”, organizzato dall’Unione Giuristi Cattolici, sez. di Trani “R. Dell’Andro”. Testo della relazione con l’aggiunta delle note




  1. Cfr. per tutti la recente ricognizione di B. Nicol, Stalking, Reaktion Books, 2006. Il volume è interamente dedicato alla dimostrazione dell’assunto che lo stalking è «both a new and an hold phenomenon».
    Non per nulla, come osserva lo stesso Nicol (ivi, p. 15), la parola “stalking” non è affatto un neologismo. «Le radici del termine ‘to stalk’ derivano dalla evoluzione della forma frequentativa della Old English word ‘-stelcian’, in bestelcian, ‘camminare furtivamente’ (to steal along). Come ‘to talk’ significa dire ripetutamente, così ‘to stalk’ significa ‘camminare furtivamente’ e ripetutamente. Il modo in cui il termine è usato oggi per denotare ‘harassment’ è quindi metaforico: dobbiamo immaginare una persona che insegue un’altra nella stessa maniera in cui il predatore con pazienza e determinazione caccia un animale per ucciderlo e procurarsi il cibo o la sua pelle». L’uso metaforico del verbo ‘to stalk’, riferito alla caccia di un uomo ad un altro uomo – secondo Nicol (ivi, p. 17) – risale alla meta del XIX secolo. Nella novella di Willian Thackeray, The Newcomes: Memoirs of a Most Respectable Family si legge «As he was pursuing the deer, she stalked his lordship».


  2. Stalking, Phychology, Risk Factors, Interventios, a cura di M.P. Brewster, Civil Research Institute, Kingston, New Jersey, 2003, p. IX.


  3. L. De Fazio – G.M. Galeazzi, Stalking: Phenomenon and Research, in Female Victims of Stalking. Recognition and Intervention Models: a European Study, a cura del Modena Group of Stalking, p. 16 ( www.antiviolenzadonna.it/menu_servizio/documenti/studi/id18IT.pdf).


  4. B. Nicol, op. cit., p. 15. La citazione è ripresa anche R. Giorgi – R. Mininno, Stalking, p. 2 (in www.retenuovedipendenze.it/approfondimenti/2007%20Giorgi,%20Mininno%20-%20Stalking.pdf).


  5. B. Nicol, Stalking, cit., p. 15. 


  6. Badische Zeitung, 6 novembre 2000. La citazione è tratta da U. Smartt, The Stalking Phenomenon: Trends in European and International Stalking and Harassment Legislation, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, n. 9, 2001 (3),  p. 222.


  7. Cfr. D.Chindemi – V.Cardile, Molestie morali: tutela giuridica e rimedi terapeutici, in Resp. civ.  prev., 2007, p. 197.


  8. Cfr. per tutti G.Marinucci, Il reato come ‘azione’. Critica di un dogma, Milano, Giuffrè, 1971, p. 3.


  9. Art.8, l. 7 giugno 1974, n. 220.


  10. Il concorso formale omogeneo, il concorso formale eterogeneo, il reato continuato (omogeneo ed eterogeneo).


  11. V.B. Muscatiello, Pluralità e unità di reati. Per una microfisica del molteplice, Padova, Cedam, 2002, p. 126..


  12. M. Papa,  Le qualificazioni giuridiche multiple nel diritto penale. Contributo alla studio del concorso apparente di norme, Torino, Giappichelli, 1997, p. 105.


  13. M. Papa, op. loc. ult. cit..


  14. V.B. Muscatiello, Pluralità e unità di reati, cit., p. 113.


  15. Parafrasando G.Marinucci, op. ult. cit., p. 98.


  16. La variabile natura dei tre eventi del nuovo delitto di stalking non agevola il compito dell’interprete. A seconda delle diverse «situazioni finali», l’art. 612-bis – che rivisto dalla prospettiva della condotta sembrerebbe appunto un reato abituale – pare oscillare tra la categoria del reato istantaneo con effetti permanenti e quella del reato tout court permanente. Certo non si intende affermare che la natura dell’output risolva la questione interpretativo/classificatoria degli input. Quando, come nel caso, in esame la descrizione della fattispecie a monte dell’evento è piuttosto liquida sarebbe, però, persino azzardato negare un’influenza, o meglio una funzione orientativa o peggio pluri-orientativa (considerate le differenze appena accennate) della «situazione finale». È più che plausibile, in altri termini, che nel caso – il fondato timore – in cui il delitto di stalking presenta i tratti di un reato istantaneo (sia pure ad effetti eventualmente permanenti), la durata e l’intensità della condotta assumano un tratto recessivo, laddove quando a venire in rilievo sono gli altri due eventi, la natura stessa dell’output potrebbe riflettersi sull’interpretazione dell’input attribuendo, viceversa, un tratto prevalente alla ripetizione degli atti intrusivi/persecutori.


  17. A.W. Newman – K.L. Appelbaum, Stalking: Perspectives on Victims and Management, in Stalking. Psychiatric Perspectives and Practical Approaches, a cura di D. A. Pinals, Oxford University Press, 2007, p.116.


  18. G. Contento, Corso di diritto penale, cit., vol. II, p. 32.


  19. M. Ronco, Le interazioni psichiche nel diritto penale: in particolare sul concorso psichico, in Ind. Pen., 2004, pp. 817-819.


  20. Cfr. L. Risicato, La causalità psichica tra partecipazione e determinazione, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 21-23.


  21. M. Ronco, Le interazioni psichiche nel diritto penale: in particolare sul concorso psichico, cit., pp. 820-821.


  22. Cfr. per tutti F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, Giuffrè, III ed., 2003, passim. Con riferimento alla istigazione cfr. V. Mormando, L’istigazione. I problemi generali ed i rapporti con il tentativo, Padova, Cedam, 1995, pp. 103-108.


  23. La citazione è tratta da M. Ronco (op. cit., p. 840) che riferisce pressoché testualmente il pensiero espresso da S.A. Osnabrügge, Die Beihilfe und ihr Erfolg. Zur objektiven Beziehung zwischen Hilfeleistung und Haupttat in § 27 StGB, Berlin, Duncker & Humblot, 2002, p. 164.


  24. Cfr. S.A. Osnabrügge, Die Beihilfe und ihr Erfolg. Zur objektiven Beziehung zwischen Hilfeleistung und Haupttat in § 27 StGB, cit., p. 159.


  25. M. Ronco, op. cit., p. 834.


  26. M. Ronco, op. cit., p. 835.