IL CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI TRANI


Esaminata la richiesta dell’Avv. Xxx Yyy (Prot. A499/15 del 6.3.2015) contenente una “richiesta di parere tecnico su questione deontologica” con la quale l’istante si chiede se:


a)- Sia consentito o censurabile il comportamento dell’Avvocato che riporti in un atto giudiziario (nella specie comparsa di costituzione e risposta) la proposta transattiva (non trasformata in accordo transattivo) proveniente dal Collega nell’interesse della controparte e formulata mediante missiva con dicitura espressa “riservata personale – non producibile in giudizio”);


b)- Sia consentito o censurabile il comportamento dell’Avvocato che, nell’interesse del proprio assistito, deferisca alla controparte interrogatorio formale vertente esclusivamente sul contenuto della proposta transattiva (non trasformata in accordo transattivo) proveniente dal Collega e formulata mediante missiva con dicitura espressa “riservata personale – non producibile in giudizio”;


c)- Quale sia, infine, lo strumento giudiziale ritenuto più idoneo al fine di contrastare i predetti comportamenti, ove ritenuti censurabili e non consentiti.


PRECISATO PRELIMINARMENTE


Che il Consiglio dell’Ordine non è deputato a fornire pareri su questioni specifiche la cui risoluzione è demandata, nell’ambito delle rispettive competenze, al Consiglio Distrettuale di disciplina e al Giudice della causa,


IN LINEA GENERALE EVIDENZIA CHE


La produzione in giudizio di corrispondenza del collega, qualificata “riservata personale” è espressamente vietata dal codice deontologico forense.


L’art. 48 del NCDF pubblicato in GU 16.10.2014 al primo comma sanziona specificamente i comportamenti descritti dall’Avv. Yyy nei quesiti a)- e b):


Art. 48 – Divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega


1. L’avvocato non deve produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa esclusivamente tra colleghi qualificata come riservata, nonché quella contenente proposte transattive e relative risposte.


2. L’avvocato può produrre la corrispondenza intercorsa tra colleghi quando la stessa: a) costituisca perfezionamento e prova di un accordo; b) assicuri l’adempimento delle prestazioni richieste.


3. L’avvocato non deve consegnare al cliente e alla parte assistita la corrispondenza riservata tra colleghi; può, qualora venga meno il mandato professionale, consegnarla al collega che gli succede, a sua volta tenuto ad osservare il medesimo dovere di riservatezza.


4. L’abuso della clausola di riservatezza costituisce autonomo illecito disciplinare.


5. La violazione dei divieti di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.    


Tale articolo recepisce la giurisprudenza del CNF sul codice previgente dove la produzione di corrispondenza riservata era sanzionato dall’art. 28:


Art. 28 – Divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega.


Non possono essere prodotte o riferite in giudizio le lettere qualificate riservate e comunque la corrispondenza contenente proposte transattive scambiate con i colleghi.


I.   E’ producibile la corrispondenza intercorsa tra colleghi quando sia stato perfezionato un accordo, di cui la stessa corrispondenza costituisca attuazione.


II. E’ producibile la corrispondenza dell’avvocato che assicuri l’adempimento delle prestazioni richieste.


III.                  L’avvocato non deve consegnare all’assistito la corrispondenza riservata tra colleghi, ma può, qualora venga meno il mandato professionale, consegnarla al professionista che gli succede, il quale è tenuto ad osservare i medesimi criteri di riservatezza.


Il CNF, infatti, aveva sempre interpretato tale articolo nel senso che doveva ritenersi vietata ai sensi dell’art. 28 sia la produzione di corrispondenza dichiarata riservata personale sia “di riferirne in giudizio il contenuto, sussistendo riservatezza sia nell’ipotesi in cui la missiva contenga proposte transattive sia in quelle in cui venga espressamente definita come riservata dal mittente (cfr. CNF 23.7.2013 n. 135).


La norma, infatti, secondo il CNF,  “mira a salvaguardare il corretto svolgimento dell’attività professionale, con il fine di non consentire che leali rapporti tra colleghi possano dar luogo a conseguenze negative nello svolgimento della funzione defensionale, specie allorché le comunicazioni ovvero le missive contengano ammissioni o consapevolezze di torti ovvero proposte transattive. Il precetto non soffre eccezione alcuna, men che meno in vista del pur commendevole scopo di offrire il massimo della tutela nell’interesse del proprio cliente” (cfr. CNF 2.3.2012 n. 33 conf. CNF 27.10.2010 n. 159 e CNF 20.6.2005 n. 91).


Ne consegue che deve ritenersi assolutamente vietata non solo la produzione in giudizio della corrispondenza e il riferimento di essa in atti giudiziari (quesito a)-) ma anche di acquisire in giudizio tale elemento con altri mezzi – interrogatorio formale della controparte –quesito b-).


Il quesito c)- invece investe una problematica di enorme portata.


Prende le mosse dalla ricostruzione della natura delle norme deontologiche che devono ritenersi sicuramente norme giuridiche (cfr. Danovi Commentario del codice deontologico forense, Giuffrè;  e,in giurisprudenza, Cass. Sez. Unite 8.6.2002 n. 8225), tanto più che, come statuito dalla nuova legge professionale (art. 3, comma 3),  nel nuovo codice deontologico forense comportamenti e sanzioni  sono tipizzati.


Sul punto, deve poi ritenersi che le norme deontologiche siano integrative delle norme processual-civilistiche e conseguentemente che il Giudice non possa tener conto ai fini della decisione di un documento la cui produzione sia vietata dal Codice Deontologico Forense,  né possa ammettere l’interrogatorio formale su circostanze la cui acquisizione al processo sia vietata dal medesimo codice.


Importanti argomenti, a sostegno di tale tesi possono ricavarsi dalla giurisprudenza della Suprema Corte in ambito disciplinare.


Infatti, la Suprema Corte ha da tempo affermato il principio per il quale Nell’ambito della violazione di legge – in relazione alla quale (oltre che per incompetenza ed eccesso di potere) le decisioni del Consiglio nazionale forense sono ricorribili per cassazione (art. 56 del regio decreto legge 27 novembre 1993, n. 1578 e art. 111 Cost.) – va compresa anche la violazione delle norme del codice deontologico dell’Ordine professionale, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo degli avvocati che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare.” (Cass. Sez. Unite 23.03.2004, n. 5776, in Giur. it., 2005, 249).


Successivamente le SS.UU. della Corte di Cassazione hanno affermato che “Le norme del codice deontologico forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al consiglio nazionale forense il potere disciplinare con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, e come tali sono interpretabili direttamente dalla corte di legittimità (nella specie, la cassazione ha ritenuto che violi l’art. 49 del codice deontologico l’avvocato che intimi, senza necessità, più atti di precetto, aggravando così la posizione debitoria della controparte)” (Cass. Sezioni Unite  20.12.2007, n. 26810, in Foro it., 2009, I, 3167, con nota di Scarselli, La responsabilità civile del difensore per l’infrazione della norma deontologica).


Dalle chiare affermazioni della giurisprudenza emerge come principio ricevuto e condivisibile che i precetti deontologici sono fonti normative e non soltanto regole interne della categoria, e/o espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini. Cosicché, se la loro violazione è la violazione di una «fonte normativa», e non solo  violazione di una sola «regola interna della categoria», è evidente che ogni loro infrazione è sempre anche l’infrazione di un precetto giuridico, e quindi sempre anche un illecito civile” (così, testualmente, Scarselli, La responsabilità civile del difensore per l’infrazione della norma deontologica, cit., col. 3169).


Ne consegue che l’infrazione deontologica determina da un lato violazione delle regole processuali e dall’altro può essere fonte di responsabilità extracontrattuale nei confronti della controparte e dell’Avvocato che la rappresenta.


Infatti, appare chiaro che l’illecito conseguente alla violazione della norma deontologica possa e debba qualificarsi, anzitutto, come fonte di una responsabilità contrattuale dell’avvocato nei confronti del cliente alla luce del principio di esecuzione del contratto (d’opera professionale) secondo buona fede ex art. 1375 cod. civ.


In questa prospettiva è stato efficacemente affermato che la “norma deontologica” mostra una “spiccata attitudine […] a riempire di contenuto quelle clausole generali presenti nel codice civile” (cfr. Perfetti, La responsabilità deontologica, in Rass. forense, 2006, 961 ss.), tra le quali primeggia, sul piano sostanziale, proprio la clausola generale di buona fede di cui all’art. 1375 cod. civ.


Ora, se per effetto del richiamo all’art. 1375 cod. civ. il contratto d’opera professionale deve  essere eseguito dall’avvocato con buona fede, appare evidente che la violazione della norma deontologica può ben integrare violazione del parametro della buona fede, dal momento che la norma deontologica altro non fa che riempire di contenuto la disposizione (clausola generale) di cui all’art. 1375 cod. civ. (cfr., Scarselli, cit., col. 3170; Perfetti, cit., ).


L’illecito civile conseguente alla violazione di un precetto deontologico può anche configurarsi – e questo è il punto che maggiormente interessa l’Avv. Yyy – come illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ., con conseguente obbligo risarcitorio a favore della controparte e dell’avvocato che la rappresenta. Si è addirittura sostenuto che sarebbero legittimati passivi all’azione risarcitoria non solo l’Avvocato che ha commesso l’illecito deontologico ma “addirittura il giudice, il c.t.u., il teste” (così testualmente, Scarselli, cit., col. 3170).


In questo caso la norma deontologica violata integra la fonte normativa dell’art. 2043 cod. civ. e della clausola generale dell’ingiustizia del danno ivi indicata.


Detta attitudine della norma deontologica ad integrare le clausole generali sembra dover operare anche sul piano processuale con riferimento alle norme processuali contenenti, per l’appunto, clausole generali, tra le quali si segnalano l’art. 88 c.p.c. che reca il dovere di lealtà e probità e gli artt. 92 e 96 c.p.c. che sanzionano la mala fede processuale.


Si è in proposito, poi, sostenuto che l’idoneità della violazione deontologica “a porsi quale causa efficiente di una responsabilità aquiliana è desumibile da due precedenti giurisprudenziali


Cass. 15.2.1999 n. 1259  che, a proposito del codice di autodisciplina pubblicitaria, ha ritenuto non interessasse verificare se esso poneva norme meramente deontologiche, o giuridiche in senso stretto e dunque se fosse stato recepito nell’ordinamento generale con sua immediata applicabilità da parte del giudice; interessante essendo, invece, accertare se le relative norme potessero essere utilizzate quali parametri di riferimento del principio di correttezza professionale; pervenendo alla conclusione per cui “(…) quand’anche si ritenesse che il codice di autodisciplina pubblicitaria contenga mere regole deontologiche, non se ne potrebbe comunque escludere l’incidenza nell’interpretazione ed applicazione dell’art. 2598, n. 3 c.c.; se per un verso infatti la stessa norma facendo riferimento ai principi di correttezza professionale, opera sostanzialmente un rinvio anche a parametri extralegislativi, per altro verso le regole del codice di autodisciplina esprimono, per loro stessa natura e formazione quel dover essere dei comportamenti che forma oggetto (…) della tutela stabilita dal n. 3 dell’art. 2598 c.c.”. Questa idoneità della norma deontologica ad integrare il contenuto della clausola generale ex art. 2043 c.c. corrisponde ad opinione che trova consensi anche in dottrina, ove si segnala la prospettiva particolarmente significativa offerta dall’attività giornalistica e dalla disciplina deontologica di cui all’art. 25 della legge 675/1996(così, testualmente, Perfetti, cit., 8).


Inoltre, maggiormente illuminante in proposito è Tribunale di Udine del 23.2.1998 secondo cui  “(…) una condotta illecita sotto il profilo deontologico che comporti un danno per un professionista concorrente trova sanzione in sede civile secondo i principi generali dell’atto illecito, atteso che la violazione delle norme interne della categoria professionale è sufficiente per qualificare il fatto compiuto come ingiusto”(cfr., Perfetti, ibid.).


In definitiva, a parere di questo Consiglio dell’Ordine, se la norma deontologica è norma giuridica la violazione di tali norma da parte dell’Avvocato determina effetti analoghi alla violazione di qualsiasi altra norma, conferendo anzitutto alla produzione documentale e alla richiesta di interrogatorio formale un carattere di illiceità che dovrebbe imporne la declaratoria di inammissibilità da parte del Giudice.


Inoltre la stessa violazione, oltre a costituire illecito deontologico, dovrebbe essere fonte di responsabilità aquiliana  del professionista nei confronti del Collega e della controparte.


Trani 21 aprile 2015.


 


Il Consigliere Segretario e relatore                         Il Presidente


       Avv. Sabino Palmieri                                Avv. Tullio Bertolino