Opposizione allo stato passivo: natura giuridica e contributo unificato.
di Giulio BRUNO

Antiche dispute circa la natura impugnatoria o meno dell’opposizione allo stato passivo – che ha registrato ulteriori riflessioni dopo le innovazioni portate dalla riforma del processo fallimentare anche con riguardo alla fase della verifica dei crediti e alla fase eventuale dell’opposizione – e la norma introdotta nell’ordinamento dall’art. 28, comma 1, lett. a) della legge n. 183 del 12.11.2011 (il comma 1 bis dell’art. 13 del T.U. 1154/2002: “Il contributo è aumentato della metà per i giudizi di impugnazione ed è raddoppiato per i processi dinanzi alla Corte di Cassazione”) hanno generato molte incertezze, e conseguenti soluzioni diversificate, in ordine al contributo unificato cui va assoggettato il procedimento per l’opposizione allo stato passivo.
La questione, come è evidente, presenta un duplice aspetto (e rende pertanto necessario un duplice ordine di considerazioni):
– individuazione dell’importo – base di riferimento per la quantificazione del contributo unificato dovuto per l’opposizione allo stato passivo;
– configurazione dell’opposizione allo stato passivo in termini di giudizio di impugnazione, oppure quale semplice prosecuzione, a cognizione piena, della fase della verifica dei crediti.

1) Importo – base di riferimento per la determinazione del contributo unificato dovuto per l’opposizione allo stato passivo.
La riforma della legge fallimentare ha unificato in un unico modello procedimentale, delineato dall’art. 99, l’opposizione allo stato passivo del creditore totalmente o parzialmente escluso, l’impugnazione per l’esclusione di altro credito, la revocazione del provvedimento di ammissione.
L’art. 99 prevede una minuziosa articolazione delle attività del giudice e delle parti, disegnando un rito che, assicurando le garanzie essenziali in ordine al contraddittorio in un quadro di maggiore snellezza della procedura, costituisce sicura innovazione rispetto al rito contenzioso ordinario, cui si richiamava la legge originaria del 1942, ma risulta strutturalmente distante anche dal modello camerale puro disciplinato dagli artt. 737-742 c.p.c..
I tratti salienti di tale modello sono: introduzione del giudizio con ricorso (che prescinde dalla notifica dell’atto); forma di decreto motivato del provvedimento conclusivo; contraddittorio limitato; ampi poteri istruttori del giudice; revocabilità e modificabilità in ogni tempo dei provvedimenti emanati.
Il distacco dallo schema camerale puro si registra sin dal decreto 5/2006 e si consolida con il decreto 169/2007, nel quale scompare invero anche l’esplicito riferimento alla “camera di consiglio”, contenuto nel terzo comma dell’art. 99 come riformato dal primo decreto. Soppressione giustificata dal fatto che tale previsione sarebbe stata “giudicata inutile dal legislatore, verosimilmente perché apparsa meramente definitoria, al cospetto della articolata ritualizzazione delle attività delle parti e del giudice, che lo hanno fatto avvicinare, ad esclusione della forma che assume la decisione finale, al procedimento ordinario di cognizione contenziosa della cui natura, peraltro, non si era dubitato neanche vigente il r.d. 267/1942 […]” [1]. .
Va ricordato che la vicenda dei procedimenti camerali speciali, strutturalmente “arricchiti” rispetto allo schema tipico, trae origine dalla introduzione, nel 1950, dell’art. 742 bis c.p.c., che aprì una breccia larghissima all’applicazione della disciplina dettata dagli artt- 737-742 c.p.c., generando molteplici interventi legislativi, i quali hanno esteso, con taluni opportuni adattamenti, la scarna disciplina in discorso al campo dei diritti soggettivi. Sono stati così introdotti, in modo disordinato, svariati e distinti procedimenti camerali speciali (c.d. cameralizzazione dei diritti).
La proliferazione dei procedimenti camerali speciali ha prodotto la configurazione in termini di contenitore unico – comprendente procedimenti volontari e contenziosi – del procedimento camerale. In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione a S.U. con la nota sentenza n. 5629 del 1996, con la quale la Suprema Corte ha affermato che il legislatore è libero di scegliere il rito attraverso il quale attuare la tutela giurisdizionale, purché siano garantiti il diritto di difesa e il contraddittorio, ove siano in gioco diritti o status.
Nel contenitore unico, molti sono i moduli procedimentali che si collocano, in uno spazio intermedio dai contorni non ben definiti, tra il modello generale di procedimento disegnato dagli artt. 737 e segg. e il procedimento di cognizione ordinario, e che uniscono il richiamo implicito o esplicito alla trattazione anche parziale in camera di consiglio a previsioni del tutto difformi rispetto allo schema tipico delineato dalla richiamata disciplina.
Si tratta di “procedimenti di varia natura e struttura, in una sfumata gamma di ipotesi normative[2]. Dottrina e giurisprudenza hanno costantemente sottolineato che le disposizioni di cui agli artt. 737 – 742 c.p.c. “costituiscono il nucleo di disciplina generale del rito camerale, per le quali vale il principio secondo cui lex specialis derogat legi generali”; in particolare, “le norme di carattere processuale della legge fallimentare prevalgono sulle norme procedimentali[3]di cui al predetto gruppo di norme, come sancito da Cass., sez. I, 25.11.21998, n. 11944, in tema di “autonomo sistema di impugnazione” della sentenza dichiarativa di fallimento.
Tornando al procedimento speciale delineato dall’art. 99 l. f. vigente, va detto che le sue peculiarità rispetto al modello generale di cui agli artt. 737-742 c.p.c. sono particolarmente apprezzabili su tre versanti: istruzione probatoria, attuazione del contraddittorio, stabilità del provvedimento decisorio.
Per quanto riguarda la fase istruttoria, a fronte della attribuzione al giudice di ampi poteri istruttori di ufficio e alla atipicità dei meccanismi di conoscenza del fatto (la cui determinazione in concreto è rimessa alla discrezionalità del giudice) proprie dello schema tipico [4], la riforma fallimentare operata dal decreto 5/2006 prevede, al 2° comma dell’art.99, che il ricorso debba contenere, tra l’altro, “l’indicazione specifica, a pena di decadenza, dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti”; mentre, con il decreto correttivo 169/2007, scompare ogni potere di iniziativa ufficiosa del tribunale, che non può più “assumere informazioni” né “autorizzare la produzione di ulteriori documenti”, come già previsto dalla formulazione del comma 9 dell’art. 99 ad opera del decreto 5/2006.
Il contraddittorio è assicurato, sin dal primo decreto, da una minuziosa ritualizzazione delle attività del giudice e delle parti, scandita dalla previsione di una sequenza ravvicinata di adempimenti, in armonia, al tempo stesso, con le esigenze di celerità e con quelle di garanzia del contraddittorio [5].
Quanto alla stabilità del provvedimento, rammentato che il rito camerale generale è caratterizzato dalla revocabilità e modificabilità in ogni tempo dei decreti adottati (art. 742) e rilevato che la previsione della ricorribilità in cassazione (ultimo comma dell’art. 99) è per se stessa incompatibile con la modificabilità del provvedimento oggetto d’impugnativa, occorre dire che il legislatore della riforma fallimentare ha scelto, sin dal decreto 5/2006, la attitudine ad un giudicato solo endofallimentare, per espressa limitazione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 96 [6].
La riconduzione del procedimento ex art. 99 legge fall. allo schema camerale è affermata dalla stessa relazione al d. lgs. 169/2007: “l’articolo 6, comma 4 sostituisce l’art. 99 del r.d., omologando il procedimento per le impugnazioni contro il decreto di esecutività dello stato passivo ad uno schema uniforme di rito camerale fallimentare, con gli opportuni adattamenti richiesti dalla specificità delle controversie trattate.”.
L’inquadramento del procedimento ex art. 99 legge fall. nel contenitore dei procedimenti camerali speciali è quasi unanimemente confermato sia in giurisprudenza, che in dottrina. Così, ad esempio, Trib. Novara, 27.12.2009: “[…] anche nei procedimenti camerali di natura contenziosa quale è il procedimento di opposizione allo stato passivo, di cui agli artt. 98 e 99 l. fall., introdotto con la legge di riforma della procedura fallimentare, la parte non può stare in giudizio senza il ministero di un difensore.” E’ una decisione che rileva in questa sede anche perché, dopo aver ribadito che il procedimento camerale è un contenitore neutro, precisa che “il legislatore ha minuziosamente regolato tutte le fasi del sub procedimento […]; non si può dubitare che la natura del procedimento regolato dai citati artt. 98 e 99 1. fall. sia quella di un giudizio speciale avente natura contenziosa e a cognizione piena, essendo esplicitamente prevista la tutela del principio del contraddittorio e del giusto processo, con emissione di un provvedimento che pur avendo forma di decreto, appare avere natura sostanziale di giudicato e valenza decisoria, seppur nei limiti endofallimentari di partecipazione al concorso; [..]”. Anche per Trib. Udine, 26.6.2008, il procedimento in discorso è un “procedimento camerale di natura contenziosa” (conformi: Trib. Venezia, 26.7.2012, Trib. Reggio Emilia, 23.2.2012).
Con riguardo alla dottrina, è stato osservato che “il legislatore ha adottato un procedimento camerale a contraddittorio sostanzialmente pieno[7]; che “il modello scelto è un modello ad hoc: ispirato a quello camerale, ma in cui non mancano aspetti mutuati da alcuni riti speciali di cognizione. In particolare, il legislatore introduce una scansione puntuale di forme e termini, che sottopone ad un rigido regime di preclusioni.” [8], e che “il contenuto dell’art. 99 risulta opportunamente riscritto sulla base di uno schema uniforme di rito camerale fallimentare che disciplina tutte le impugnazioni e di specifici strumenti che seguono la falsariga del rito del lavoro, pur non mancando gli adattamenti alla specificità delle controversie trattate[9].
Tenuto conto dell’inquadramento del procedimento ex art. 99 l. f. nella categoria dei procedimenti camerali speciali, l’importo – base del contributo unificato non può essere tratto dal valore del processo secondo il criterio di cui all’art. 13, c. 1, T.U. 115/2002, ma è quello fisso di cui alla lett. b) del comma 1 del citato testo unico, che fa riferimento agli artt. 737-742 (“per i processi speciali di cui al libro IV, titolo II, capo I e capo IV, del codice di procedura civile”). Del resto, affiancando a tale richiamo il riferimento ai processi di volontaria giurisdizione, detta norma conferma che, nella ratio delle previsioni del citato T.U. 115, il riferimento al rito camerale deve intendersi comprensivo dei procedimenti camerali speciali: diversamente opinando, la previsione relativa ai procedimenti disciplinati dagli artt. 737-742 si risolverebbe in una duplicazione della previsione relativa ai procedimenti di volontaria giurisdizione, e resterebbe, quindi, priva di qualsiasi efficacia.
Invero, durante la vigenza della vecchia legge fallimentare, la stessa circolare ministeriale n.3 del 13.5.2002 precisava che “Per tutti i procedimenti in camera di consiglio del tribunale fallimentare opererà lo scaglione di contributo indicato alla lett. b) del comma 1 della Tabella 1, ai sensi del comma 4 bis della medesima Tabella, che ha richiamato i procedimenti del Libro IV, Titolo II, Capo VI del codice di procedura civile (contributo unificato pari a euro 62).”: nel 2002, i procedimenti camerali fallimentari possedevano già una struttura speciale rispetto allo schema tipico delineato dal codice di rito, soprattutto per effetto dell’opera integratrice e sanante della giurisprudenza.

2) L’opposizione allo stato passivo: giudizio di impugnazione o prosecuzione, a cognizione piena, della fase della verifica dei crediti?
Il riferimento ai giudizi di impugnazione (e ai processi dinanzi alla Corte di Cassazione) contenuto nel nuovo comma 1 bis dell’art. 13 del T.U. n. 115/2002, deve essere raccordato con la previsione dell’art. 9 dello stesso T.U., in base alla quale il contributo unificato è dovuto per “ciascun grado di giudizio, nel processo civile, compresa la procedura concorsuale e di volontaria giurisdizione … ”.
La contiguità semantica dei concetti di impugnazione e di ulteriore grado di giudizio spiega perché i primi commenti sulla nuova disciplina del contributo unificato, nell’individuare le fattispecie interessate dall’aumento del 50% del contributo predetto, abbiano fatto riferimento, talvolta in via esclusiva, all’appello, “il primo e più ampio mezzo appartenente alla categoria delle impugnazioni ordinarie[10].
Sempre secondo la appena citata relazione, l’appello é “inquadrato dall’ordinamento come il mezzo ordinario di impugnazione avverso la sentenza di primo grado, diretto, nella sua funzione essenziale, a provocare un riesame della causa nel merito. ( … ) La sua principale caratteristica è costituita dal c.d. “effetto devolutivo” (secondo il noto principio del tantum devolutum quantum appellatum) che si realizza nel passaggio della cognizione della causa dal giudice di primo grado al giudice superiore ( … ). In quest’ottica si afferma che l’espressione “grado” implica la configurazione di un’ulteriore cognizione della controversia destinata a sfociare in una pronuncia sostitutiva di quella adottata in prima istanza, nel mentre l’espletamento di un diverso mezzo di impugnazione ordinario (come, ad es., il regolamento di competenza) determina l’apertura di una “fase” ulteriore del processo. Diversamente, ancora, le impugnazioni straordinarie danno vita addirittura ad un nuovo e diverso procedimento che viene ad instaurarsi in seguito al passaggio in giudicato della sentenza gravata.
Dal suo canto, l’impugnazione, in senso lato, è un rimedio contro gli atti giuridici in generale. Tra questi ultimi, è il provvedimento del giudice, in particolare, a poter costituire oggetto di impugnazione. In questo caso, l’impugnazione può essere rivolta o all’eliminazione del provvedimento medesimo o alla sua sostituzione. Il codice di procedura civile contiene una norma – l’art. 323 (“I mezzi per impugnare le sentenze, oltre al regolamento di competenza nei casi previsti dalla legge, sono: l'appello, il ricorso per cassazione, la revocazione e l'opposizione di terzo.”) – che individua i mezzi classici d’impugnazione delle sentenze. Ma, al di fuori di tale articolo, e al di fuori dello stesso codice, esistono moltissime disposizioni che prevedono la possibilità di “attaccare” un provvedimento del giudice, attraverso atti che ricevono denominazioni ulteriori, rispetto a quelle di cui all’art. 323 c.p.c., dal sistema normativo.
Il concetto d’impugnazione si sottrae alle maglie più ristrette entro le quali restano confinati i connotati propri dell’appello, consistenti nel riesame della causa nel merito ad opera di un giudice superiore, e si articola in termini più sfumati e generali in relazione a: qualificazione del provvedimento oggetto di impugnazione, che può essere una sentenza, un decreto o un’ordinanza; qualificazione del rimedio operata dalla legge; rapporto tra il giudizio di impugnazione e il processo, potendo il primo consistere in una fase (come accade per il regolamento di competenza) o in un grado interni al processo, o in un nuovo processo distinto dal primo e successivo al giudicato (come per le c.d. impugnazioni straordinarie); oggetto e ampiezza del riesame operato dal giudice dell’impugnazione.
L’interpretazione della normativa vigente in materia di contributo unificato porta, in definitiva, a ritenere che per giudizi d’impugnazione debbano intendersi i giudizi che, avviati su richiesta di una parte processuale, producono la conferma, la eliminazione o la modificazione di una decisione, resa da un primo giudice, ad opera di un diverso giudice.
Che i giudizi d’impugnazione, rilevanti ai fini dell’aumento della metà del contributo unificato, non sono soltanto quelli di cui all’art. 323 c.p.c. è stato sostenuto dalla ministeriale 11.5.2012: “Secondo la dottrina prevalente si parla di impugnazione con riferimento alla richiesta formulata da una delle parti processuali per eliminare o modificare un provvedimento giurisdizionale. Di conseguenza, oltre alle ipotesi previste dall'art. 323 del codice di procedura civile, deve ritenersi impugnazione, ad esempio, il reclamo promosso ai sensi dell'art. 669 terdecies del c.p.c. avverso il provvedimento cautelare. In questo caso, infatti, la competenza a decidere sulla controversia è riservata al collegio che è chiamato a rivedere nella sua interezza il provvedimento cautelare emesso con possibilità di confermarlo, revocarlo o modificarlo. […]”.
Sussistono ragionevoli motivi per sostenere che l’opposizione allo stato passivo sia un giudizio di impugnazione.
Ammessa prevalentemente (con il contrario avviso della Consulta) già sotto la vigenza della legge originaria del 1942 la natura impugnatoria dei tre rimedi di cui all’art. 99 l. fall. – soprattutto in via di logica derivazione dal riconoscimento della piena valenza giurisdizionale della fase di verifica dei crediti – oggi l’intitolazione dell’art. 98 (“impugnazioni”); la soppressione della previsione relativa alla appellabilità della decisione finale (che è soltanto ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 99, ult. c. .) e l’accentuazione della terzietà del giudice, e, al tempo stesso, del contraddittorio tra le parti nella nuova disciplina del procedimento di verifica dei crediti di cui agli artt. 92 e segg.; la circostanza che “Il giudice delegato al fallimento non può far parte del collegio.” (art. 98, c. 9), appaiono determinare il consolidamento definitivo della tesi della natura impugnatoria. Tesi che trova ampio riscontro in giurisprudenza e in dottrina.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, favorevole alla tesi della natura impugnatoria anche nel periodo di vigenza della vecchia legge fallimentare, non s’interroga, normalmente, sulla natura di impugnazione o meno dell’opposizione in discorso, non mette in discussione tale natura, ma parte dal presupposto che di giudizio di impugnazione, pur dissimile dall’appello, si tratti, per trarne puntuali conclusioni sul piano della disciplina processuale applicabile. Così, per esempio, si esprime Cass., sezione I civile, sentenza 4 aprile 2013, n. 8246: “L'art. 99 L. fall., nel testo novellato dapprima dal d.lgs. n. 5 del 2006, e successivamente dal d.lgs. n. 169 del 2007, configura il giudizio di opposizione allo stato passivo in senso inequivocabilmente impugnatorio e quindi non ammette né domande nuove da parte dell'opponente (Cass. 8 giugno 2012, n. 9341; Cass. 22 marzo 2010, n. 6900) né domande riconvenzionali del curatore, non previste dal comma quinto della disposizione. Il reclamo avverso lo stato passivo del fallimento non è, tuttavia, un giudizio d'appello (Cass. 25 febbraio 2011 n. 4708; Cass. ord. 22 febbraio 2012 n. 2677) poiché mira a rimuovere un provvedimento emesso sulla base di una cognizione sommaria ed all'esito di un procedimento che non prevede la formalizzazione della posizione del curatore come parte processuale contrapposta al creditore.[…]”. Anche per Cassazione, sezione I civile, sentenza 9 maggio 2013, n. 11026, “il giudizio di opposizione, pur essendo certamente un giudizio di impugnazione non è, tuttavia, un giudizio d'appello […]. Si deve, pertanto, ritenere che la disciplina applicabile al giudizio di opposizione in tema di eccezioni e documenti deve essere ricercata nello stesso L. Fall., art. 99.”.
Una più ampia disamina della questione, con un’analisi che tende ad estendersi significativamente, per le conclusioni che sembrano potersi trarre circa la natura del procedimento in questione, alla fase antecedente della verifica è rintracciabile nella sentenza Cass. Sez. I Civile, 22 marzo 2010, n. 6900, richiamata nella nota 2.2.2012, di particolare rilevanza ai fini del nostro discorso. Osserva la Suprema Corte: “Occorre pero’ aggiungere che la questione deve oggi essere esaminata sotto la diversa prospettiva imposta dalla riforma del procedimento di accertamento del passivo nel fallimento, nella fase necessaria che precede l’eventuale opposizione, e nel successivo ed eventuale giudizio di opposizione. Prima di tale riforma, infatti, il procedimento in questione (il procedimento di accertamento del passivo nel fallimento) era regolato bensì come procedimento giurisdizionale, ma senza contraddittorio, essendo il contraddittorio posticipato alla fase successiva ed eventuale dell’opposizione. Sulla domanda di ammissione al passivo, pertanto, il giudice si pronunciava direttamente, ancorché con l’assistenza del curatore, ammettendo in tutto o in parte i crediti […]. La posizione delle parti, nel successivo giudizio di opposizione, era pertanto genericamente paragonabile a quello che esse assumono nell’opposizione ad un provvedimento assunto inaudita altera parte, in cui deve assicurarsi – per la prima vola – la pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa. In tale quadro, anche l’ammissibilita’ della domanda riconvenzionale della curatela doveva tener conto del fatto che l’opposizione introduceva un giudizio a tutti gli effetti di primo grado; e i rimedi impugnatori previsti contro il provvedimento conclusivo del giudizio di opposizione erano quelli tipici della sentenza di primo grado, comprendendo in particolare l’appello, ed escludendo quindi di regola il ricorso diretto per Cassazione. Il quadro appena descritto e’ stato radicalmente modificato con la novella n. 5 del 2006. In essa [la novella n. 5/2006], l’opposizione del creditore o del titolare di beni mobili o immobili per le domande respinte […] e’ regolata in modo dettagliato con una disciplina autonoma, e non potrebbe essere assimilata ad altri giudizi di opposizione che si propongono davanti allo stesso giudice (significativo, in questo senso, e’ l’espresso divieto di partecipazione al collegio da parte del giudice delegato al fallimento). La configurazione di tali giudizi in senso inequivocabilmente impugnatorio appare incompatibile con l’ammissibilita’ di domande nuove, non proposte nel grado precedente, quali le domande riconvenzionali.”.
L’evoluzione delle due fasi finalizzate all’accertamento del passivo mostra il mutamento radicale della fase necessaria della verifica dei crediti, che, prima della riforma, era un procedimento a carattere inquisitorio. Con la riforma del 2006-2007, detta fase registra “l’accentuazione del principio dispositivo” (art. 95, c. 3 l. fall.); in essa “il curatore è collocato a pieno diritto nella posizione formale e sostanziale di contraddittore, parte passiva del procedimento […]” [11].
E’ importante, allora, soffermarsi sulle attuali caratteristiche del procedimento volto all’accertamento del passivo. In dottrina, si è precisato che: “[…] è un modello di cognizione sommaria camerale, creato ad hoc, un modello […] di cognizione arricchita rispetto a quello del tipico rito camerale definito dal c.p.c.. Un modello […] egualmente rispettoso [come il processo a cognizione piena] delle garanzie che sono proprie della giurisdizione, in primis del diritto ad un contraddittorio pieno ed effettivo. Un procedimento che si instaura all’interno appunto di un procedimento comune a tutte le domande di ammissione […]. In coerenza con la natura di procedimento giurisdizionale, anche quello di accertamento del passivo soggiace al principio della domanda […]; il diritto di concorrere al riparto […] deve essere fatto valere dal creditore con specifico atto – la domanda di ammissione che, come ogni altro atto introduttivo di un giudizio, deve contenere gli elementi costitutivi del diritto azionato.” [12].
In termini analoghi si esprime U. Apice nella sua pubblicazione “L’accertamento dello stato passivo[13]. Riportiamo di seguito alcuni passi di particolare rilevanza: “Il procedimento di accertamento del passivo, in sintesi, identifica una espressione di giurisdizione contenziosa cognitoria, scandita in due fasi: una davanti al giudice delegato e l’altra (eventuale) davanti al tribunale. La prima fase è caratterizzata da spiccati caratteri sommari, per poi eventualmente recuperare la cognizione piena in caso di impugnazione. […] Con la riforma il giudice delegato ed il curatore da organi della procedura, con sorveglianza del primo organo sull’operato del secondo, “cambiano l’abito” e divengono nel procedimento di verifica rispettivamente giudice della decisione e parte processuale. […] Il curatore deve eccepire direttamente i fatti estintivi, modificativi e impeditivi del diritto azionato, nonché l’inefficacia del titolo su cui si fondano il credito o la prelazione. […] Nella normativa si ravvisa, quindi, uno spostamento della formazione del passivo dal giudice delegato al curatore che, se da un lato obbedisce all’esigenza di recuperare i primari valori di terzietà e di imparzialità del giudice, dall’altro attribuisce al curatore un gravoso compito di autentica parte processuale e non più di “assistente” dell’autorità giudiziaria. […] Oggi il contraddittorio si cristallizzerà all’udienza di verifica innanzi al giudice delegato, ove in primis (ed in verbale di udienza) il curatore prenderà definitivamente posizione sulla domanda di cui sia stata eventualmente integrata una documentazione probatoria. Questo nuovo meccanismo rende l’udienza di accertamento del passivo il momento centrale del procedimento di verifica; […] Nella considerazione che il curatore è divenuto parte formale del procedimento di verifica con potere di eccepire fatti estintivi, modificativi e impeditivi del diritto azionato, nonché di eccepire l’inefficacia del titolo su cui si fondano il credito o la prelazione, ne consegue che il giudice delegato può decidere solo sulle domande ed eccezioni formalmente sollevate dalle parti; in altri termini l’intervento del giudice, che recupera la sua posizione di terzietà ed imparzialità, è richiesto solo ove vi siano contestazioni tra la posizione del creditore ricorrente e quella del curatore. […] In definitiva il giudice delegato assume il ruolo di giudice terzo e imparziale risolutore di conflitti nel contraddittorio tra le parti, privo di poteri ufficiosi di indagine; la sua posizione è ora assimilabile, pur permanendo la sostanziale differenza della natura sommaria del procedimento, a quella del giudice in un ordinario giudizio di cognizione, tenuto al rispetto del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. […] In sostanza il giudice delegato non ha più i poteri discrezionali che gli venivano riconosciuti nel vigore della L.F. del 1942 ed inoltre non potrà far parte del collegio che dovrà eventualmente decidere sulle impugnazioni allo stato passivo. Nel contempo il curatore è stato riconosciuto come parte formale del processo, in posizione di parità rispetto all’altra (creditore ricorrente) e gli è stata riconosciuta in sede di impugnazione medesima posizione di parità. […] In definitiva la disposizione (art. 99) sembra confermare il fatto che con l’impugnazione allo stato passivo si instaura un giudizio di secondo grado, per il quale dovrebbero valere i limiti propri dei giudizi di gravame e da ciò si potrebbe desumere che il curatore dovrebbe sempre costituirsi in tale giudizio.”.
E di “decisione (il decreto di esecutività dello stato passivo emesso ai sensi dell’art. 96 legge fall.) che chiude un giudizio e non più una fase di un processo unitario che non può essere inquadrato tra i procedimenti a cognizione sommaria […].” parla lo stesso D. Plenteda [14]. Il quale così prosegue: “Se qualche dubbio consentiva il r.d.n. 267/1942 sulla natura impugnatoria dei tre rimedi […] la riforma ha definitivamente risolto ogni questione a riguardo, modellando il procedimento impugnatorio, all’interno del rito camerale, sulle linee del procedimento contenzioso ordinario.” La presenza di una “pronunzia resa nella pienezza del contraddittorio dinanzi ad un giudice terzo” esclude ogni motivo per attribuire ai rimedi di cui agli artt. 98 e 99 “il ruolo di fase del procedimento di accertamento del passivo, sulla quale innestare gli ordinari mezzi di impugnazione, dall’appello al giudizio di cassazione, oltre a quelli straordinari. L’attuale sistema conosce, dunque, una impugnazione di merito, endofallimentare, ed una di legittimità dinanzi alla Corte di Cassazione, l’una e l’altra legate al vincolo della soccombenza.”. (La distinzione che riemerge è quella rispetto alle impugnazioni codicistiche, atteso che l’opposizione allo stato passivo se ne discosta “per l’ampiezza del procedimento impugnatorio, in cui è dato spazio ai mezzi di prova, hic et inde, e le eccezioni proponibili, sia dell’impugnante che dei resistenti, non conoscono limitazioni, mentre le prescrizioni al riguardo che si leggono nel n. 4 del 3° comma e nel comma 7° sono di segno opposto a quelle degli artt. 345 e 346 c.p.c..”.).
Vi sono argomenti di ordine storico, poi, che sembrano confermare indirettamente che il quadro normativo di attuale riferimento conduca alla conclusione suddetta (opposizione quale giudizio di impugnazione). Se la Corte di Cassazione, infatti, ha sempre sposato la tesi della natura impugnatoria dell’opposizione in discorso, la tesi di una distinta e successiva fase del giudizio di primo grado, volta al riesame, in sede di cognizione piena ed esauriente, dei risultati cui è approdata la precedente fase sulla scorta della delibazione sommaria assunta dal g.d., aveva, come ho anticipato, nel periodo antecedente la riforma del 2006, il non certo trascurabile avallo della Corte Costituzionale [15]. La Consulta ebbe a riconoscere che la verifica dello stato passivo si alterna(va) da una prima fase sommaria, "fondata su materiale probatorio di carattere esclusivamente cartolare", ad una successiva eventuale fase dalla cognizione piena (l'opposizione ex art. 98 L.F.), "finalizzata a raccogliere elementi utili alla decisione del collegio sulla base dei motivi dell'opposizione stessa, suscettibili d'introdurre nuovo materiale probatorio" (ord. n. 304/1998). Ad avviso della Consulta, la natura non impugnatoria si giustifica(va) soprattutto, però, in ragione della circostanza che la diversa intensità della cognizione (sommaria nella prima fase e piena nella seconda) non ricadesse sulla medesima res iudicata. Difatti, con l'opposizione allo stato passivo si apre (si apriva) un ordinario giudizio di cognizione, all'esito del quale il provvedimento interno e a rilievo esclusivamente endoconcorsuale (il decreto di esecutività dello stato passivo) diviene (diveniva) sentenza idonea al passaggio in giudicato ed a produrre effetti anche al di fuori della procedura concorsuale. Quindi, la capacità dell'opposizione di generare effetti ulteriori ed in qualche modo diversi rispetto a quelli prodotti dal provvedimento sindacato mal si concilia(va) con i caratteri propri del mezzo di impugnazione.
In effetti, se l'opposizione avesse funzione di solo controllo del decreto di esecutività, il provvedimento che sull'opposizione decide non potrebbe che riformarlo (o confermarlo), mai avere rispetto ad esso un'efficacia ulteriore e diversa. Ciò, invece, è quanto ritiene (ritenne) la Consulta, per la quale "alla stregua del diritto vivente, l'efficacia preclusiva dello stato passivo non opposto è di natura meramente endoprocessuale e solo la sentenza resa sull'opposizione è suscettibile di assumere effetti di giudicato" (ordinanza n. 167/2001).
E’ evidente che gli argomenti su cui la Consulta fondava il suo convincimento circa la natura non impugnatoria dell’opposizione allo stato passivo sono da ritenere in gran parte superati alla luce della riforma del 2006 e delb2007.
Se si ammette, come appare consentire la lettera dell’art. 13, c. 1 bis T.U. 115/2002 e come dichiara la ministeriale citata del 13.5.2012, che “giudizi di impugnazione” sono anche quelli non espressamente previsti dall’art. 323 c.p.c., non dovrebbe destare forti perplessità la distinzione più volte emersa tra opposizione allo stato passivo e appello.
Né dovrebbe costituire un problema l’inerenza del procedimento in discorso alla più ampia ed unica procedura fallimentare, la quale potrebbe apparire – si eccepirebbe in ipotesi – come un insieme di sequenze procedimentali che si sviluppano tutte entro i confini di uno stesso grado di giudizio, il primo. Neanche dovrebbe apparire insormontabile l’obiezione basata sull’inesistenza di una previa iscrizione a ruolo del procedimento di accertamento del passivo, con conseguente pagamento di un (primo) contributo unificato.
Sotto il primo aspetto, va ricordato, per quanto l’argomento non appaia dirimente, che l’opposizione allo stato passivo è un procedimento naturalmente eventuale (sussiste solo in quanto vi sia impugnazione del decreto che rende esecutivo lo stato passivo) alla stregua di qualsiasi impugnazione: se tutto ciò che è proceduralmente necessario appartiene ad un primo e articolato grado della procedura fallimentare (necessarietà che registra peraltro l’inevitabile eccezione di cui all’art. 102 l. fall. – “Il tribunale […] dispone non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo relativamente ai crediti concorsuali se risulta che non può essere acquisito attivo da distribuire […]”), una sequenza di atti a carattere eventuale e l’iscrizione a ruolo possono verosimilmente segnalare la introduzione di un percorso procedurale aggiuntivo, che si sviluppa in un grado ulteriore rispetto a quello in cui si inquadra la fase-procedimento a carattere necessario. La circostanza che il giudice sia diverso non solo strutturalmente (unipersonale – giudice relatore – e, poi, collegiale), ma anche nella identità dei suoi componenti (non potendo il giudice delegato far parte del collegio) è indice, probabilmente, che la volontà del legislatore si è indirizzata verso un’evoluzione della vicenda processuale che non ha la portata, più limitata, del passaggio da una fase a un’altra dello stesso procedimento (il giudice delegato porterebbe invero celerità al procedimento, con la specifica conoscenza acquisita, se vi partecipasse), ma quella più netta del trasferimento della questione controversa al giudice del successivo grado di giudizio.
La riferita trasformazione netta, della fase necessaria dell’accertamento del passivo, in giudizio tra parti rende più visibile il concretarsi del principio, immanente al concetto d’impugnazione, della soccombenza, che presuppone una parte perdente e una parte vincitrice, quest’ultima ora identificabile nel curatore, che è controparte nella fase necessaria e nei confronti del quale è proposta l’opposizione (art. 98, c. 2).
Quanto alla obiezione consistente nel fatto che il procedimento volto all’accertamento del passivo non sconta il pagamento di alcun contributo unificato vanno evidenziate: a) la lettera della legge, sia in riferimento all’art. 9 (ciascun grado di giudizio, nel processo civile … ), sia in riferimento all’art. 13, c. 1 bis T.U. 115/2002 (giudizi di impugnazione); b) la complessità strutturale della procedura fallimentare, nella quale si inserisce la fase-procedimento volta ad accertare il passivo e la quale sconta (art. 13, c. 5) un “suo” complessivo contributo unificato, che ha riguardo alla procedura che parte dalla sentenza dichiarativa di fallimento e giunge alla chiusura del fallimento stesso (secondo quanto riferisce testualmente il comma 5 citato).
In conclusione, l’opposizione allo stato passivo sconta il contributo unificato previsto nella misura fissa di cui della lett. b) del 1° comma dell’art. 13 del T.U. 115/2002 (con riferimento ai “processi speciali di cui al libro IV, titolo II, capo I e capo IV, del codice di procedura civile”), con l’aumento del 50 %, previsto dal comma 1 bis dello stesso articolo per i giudizi di impugnazione.

dr. Giulio BRUNO,
Dirigente Amministrativo Tribunale Trani

Note

  1. così, D. PLENTEDA, “Profili processuali del fallimento dopo la riforma”, IPSOA, 2008, pag. 212; per l’autore, “il rito, che è strutturato sul modello del’art. 18 per il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, è camerale […], pag. 211.”. Osserva G. COSTANTINO, “L’accertamento del passivo nelle procedure concorsuali”, in www3.unisi.it, che “sul piano strettamente pratico, la circostanza che, nell’ultima versione dell’art. 99 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sia omesso ogni riferimento alla «camera di consiglio» appare poco rilevante. Tale previsione, esclusa la possibilità di integrazioni con la normativa di cui al Capo VI, Titolo II del Libro IV del codice di rito, significa soltanto che la trattazione della causa non si svolge in udienza. Il che aveva suscitato la reazione della Camera dei deputati che, nella seduta del 16 novembre 2005, pur approvando lo schema di decreto delegato, si era espressa nel senso che «la nuova disciplina delle procedure concorsuali sia conforme ai principi sanciti dall'articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo per quanto riguarda il diritto di ogni persona a che “la sua causa sia esaminata pubblicamente”». […] Nel testo della disposizione vigente dal 16 luglio 2006 al 31 dicembre 2007, era contraddittoriamente prevista una «udienza» in «camera di consiglio». Può essere opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 128 c.p.c., le udienze nelle quali si discute la causa sono pubbliche: […] Sono udienze, ma non sono pubbliche quelle innanzi al giudice istruttore nel processo ordinario di primo grado, ai sensi dell’art. 84 disp. att. c.p.c. […]. Sennonché, se si prescinde dallo svolgimento del giudizio di cassazione, la concreta differenza tra procedimenti trattati alla udienza «pubblica», alla udienza non pubblica e in camera di consiglio non è di immediata percezione: nella maggior parte degli uffici giudiziari, non si avverte la differenza tra un’udienza istruttoria nel processo ordinario e un’udienza nel processo del lavoro. La dignità degli incontri tra giudice e parti è affidata alla buona volontà dei partecipanti. E ciò vale anche nei giudizi di accertamento del passivo nelle procedure concorsuali, indipendentemente dal riferimento alla «udienza» o alla «camera di consiglio»”.
  2. Antonella DI FLORIO, “Volontaria giurisdizione e rito camerale”, Giuffré, 2004, pag. 6.
  3. Antonella DI FLORIO, op. cit., pag. 148.
  4. Cfr. M. G. CIVININI, voce “Camera di consiglio”, Il diritto – enc. giur., il sole 24 ore, 2007, vol. 2, pagg. 673-674.
  5. Così, espressamente, D. PLENTEDA, op. cit., pag. 222.
  6. Ma, come evidenziato in dottrina, “la stessa possibilità che il provvedimento assunto in sede di verifica tempestiva divenga definitivo in mancanza di impugnazione dà comunque luogo ad un regime di stabilità che non è riducibile a quello realizzabile in sede di volontaria giurisdizione degli interessi”; F. LAMANNA, “Il nuovo procedimento di accertamento del passivo”, IPSOA, 2006, pag. 642.
  7. A. PALUCHOWSKI, in A. PAJARDI–A. PALUCHOWSKI “Manuale di diritto fallimentare”, Giuffrè, 2008, pag. 560.
  8. G. GUIZZI, in“Diritto fallimentare”, N. Abriani e altri, Giuffré, 2008, pag. 304.
  9. G. LO CASCIO, “Appendice di aggiornamento del Manuale al d. lgs. 169/2007”, IPSOA, 2008, pag. 27. F. LAMANNA, op. cit. (pubblicazione del 2006, quindi anteriore al decreto correttivo del 2007), pag. 641, scrive che “si può a ragion veduta pensare che il legislatore della novella fallimentare, con una sorta di attuazione trans-normativa, abbia voluto attuare piuttosto i principi della delega societaria, che dava la possibilità di elaborare un nuovo, ma “giusto” processo camerale, piuttosto che (inesistenti) principi della delega fallimentare”.
  10. relazione 18.9.2006 dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione, in www.cortedicassazione.it.
  11. D. PLENTEDA, op. cit., pag. 164.
  12. G. GUIZZI, op. cit. 298-299.
  13. U. APICE, in www.3.unisi.it.
  14. D. PLENTEDA, op. citata, pag. 154.
  15. Le osservazioni e i richiami agli orientamenti della Consulta che seguono nel testo sono di R. D’ARGENTO, “L’istruzione probatoria nel giudizio di opposizione allo stato passivo”, 2005, in www.ilfallimento.it.