Il carcere in Italia, situazione e prospettive
Giuseppe Losappio, Presidente della Camera penale di Trani [1]



La scelta del tema (Il carcere di Trani, situazione e prospettive), e quindi della sede, è una scelta che riflette gli indirizzi di recente assunti dall’Unione delle Camere penali.


Penso in particolare a tre iniziative-interventi:


a. L’osservatorio carcere, costituito nel 2006, è una struttura composta dal responsabile di Giunta preposto alla sezione carcere e da un gruppo di lavoro i cui componenti sono esterni alla Giunta e da essa nominati, dei quali uno svolge la funzione di coordinatore. L’Osservatorio Carcere e le strutture decentrate (rappresentate dai Referenti locali delle Camere Penali), operando secondo linee condivise dalla Giunta per il perseguimento delle finalità assegnate all’organismo, studiano i problemi normativi e pratici dell’ordinamento penitenziario e della realtà carceraria, seguono la produzione legislativa in materia penitenziaria, organizzano e attuano il monitoraggio della situazione carceraria attraverso le visite dei singoli istituti penitenziari, propongono interventi alla Giunta. L’Osservatorio Carcere ha stabilito in questi anni un rapporto permanente con le associazioni che si occupano di carcere, al fine di consolidare il proprio ruolo politico attraverso lo scambio di esperienze e conoscenze nel settore e per promuovere dibattiti e convegni.


b. Il Convegno Detenzione e diritti umani che si terrà a Milano presso la Sala Alessi di Palazzo Marino, i prossimi 17 e 18 maggio


c. La seconda delle tre proposte di legge di iniziativa popolare sulla “legalità e il rispetto della Costituzione nelle Carceri”, i cui punti più significativi sono tre:
c.1.1 L’istituzione del garante nazionale delle persone private della libertà personale cui tutti i detenuti e i soggetti comunque privati della libertà personale possono rivolgersi al Garante nazionale senza vincoli di forma (ora abbiamo solo garanti regionali – in undici regioni tra le quali la Puglia -, oltre ai garanti provinciali e comunali)
c.1.2. Il Garante nazionale, nell’esercizio della sua attività, collabora con i Garanti territoriali, nominati dalle regioni o dagli enti locali, e con tutte le istituzioni, comunque denominate, che hanno competenza nelle stesse materie; prende in esame le segnalazioni effettuate dai Garanti territoriali; almeno una volta all’anno, si riunisce in assemblea con i Garanti territoriali; presenta alle Camere, entro il 30 aprile di ogni anno, una relazione annuale sull’attività svolta (la relazione annuale è altresì trasmessa al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, al Comitato dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la tortura, e al Sottocomitato delle Nazioni Unite)
c.1.3. Il Garante nazionale, quando verifica che le amministrazioni responsabili delle strutture in cui si attua la privazione della libertà, qualunque sia la sua durata, non assicurano il rispetto della dignità delle persone e il divieto di trattamenti o pene inumani o degradanti, richiede all’amministrazione interessata di agire conformemente a tali principi, anche formulando specifiche raccomandazioni (l’amministrazione interessata, se disattende la richiesta, deve comunicare il suo dissenso motivato nel termine di trenta giorni; in tal caso il Garante nazionale, nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del rigetto, può rivolgersi agli uffici sovraordinati a quelli originariamente interessati, che devono provvedere entro dieci giorni dalla ricezione della richiesta).
c.2. Un altro punto qualificante della proposta è l’affermazione che «nessuno può essere detenuto per esecuzione di una sentenza in un istituto che non abbia un posto letto regolare disponibile». Qualora risulti impossibile dare esecuzione di una sentenza nei confronti di un condannato proveniente dallo stato di libertà in conformità a questo principio e senza contraddire il criterio territorializzazione della pena (art. 42 della legge 26 luglio 1975, n. 354), l’ordine di esecuzione si tramuta in obbligo di permanenza presso il domicilio o altro luogo indicato dal condannato stesso (salve le eventuali prescrizioni stabilite dal giudice responsabile dell’esecuzione). Il Ministero della Giustizia costituirà una lista di coloro che attendono di scontare la pena carceraria. La lista seguirà l’ordine cronologico dell’emissione delle condanne. Un adeguato numero di posti letto dovrà essere preservato libero, nonostante la lista di attesa, e riservato alla esecuzione della pena nel caso essa derivi dalla commissione di reati contro la persona. Il periodo di conversione temporanea dell’ordine di esecuzione in obbligo di permanenza di cui al comma 2, è computato al fine della complessiva espiazione della pena al pari della detenzione in carcere. L’inottemperanza all’obbligo di permanenza nel domicilio e alle eventuali prescrizioni imposte implica che il computo della complessiva esecuzione della pena viene interrotto.
c.3. Oltre alla riforma della disciplina della recidiva, volta a superare il regime introdotto dalla legge (ex) Cirielli, la proposta prevede (tra l’altro) l’abrogazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (art. 10 bis del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), la revisione dei criteri di scelta delle misure cautelari (intesa alla riduzione della custodia cautelare in carcere novellando l’art. 275, comma 3, c.p.p.), le modifiche all’art. 656 c.p.p., l’estensione dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova nei procedimenti relativi a reati puniti con la pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a otto anni, sola o congiunta con la pena pecuniaria (senza tenere conto delle circostanze aggravanti) cui l’imputato può accedere con istanza da proporre fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento. La proposta (art. 168-bis c.p.) prevede, ancora, che durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il corso della prescrizione del reato è sospeso; l’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede; l’estinzione del reato non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge; la sospensione del procedimento con messa alla prova è revocata in caso di commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo.


d. Si tratta – all’evidenza – di un’ipotesi di lavoro non immune, in alcuni passaggi, da tonalità di chiara coloritura provocatoria. È altrettanto evidente che urge una risposta del legislatore alla più recente giurisprudenza europea (d.1), alla successiva giurisprudenza nazionale (d.2) e, più in generale, al dilagare di procedimenti e condanne del nostro paese per la violazione dei diritti dei detenuti (d.3.).
d.1. È noto a tutti che la Corte europea dei diritti dell’uomo – investita, dopo la sentenza Sulejmanovic c. Italia, del 16 luglio 2009 (ric. n. 22635/03), da centinaia di ricorsi da parte di detenuti italiani che lamentano la violazione del proprio diritto a non subire pene o trattamenti inumani o degradanti in conseguenza del sovraffollamento carcerario – ha pronunciato (all’unanimità, con il voto favorevole del giudice italiano) una sentenza pilota contro la Repubblica (Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia (ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10).
In un breve ma efficace commento della decisione si legge che i «ricorrenti, detenuti negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza, lamentavano in sostanza di essere stati confinati in celle di 9 metri quadrati, ciascuno assieme ad altri due detenuti, e di avere potuto usufruire in quantità insufficiente di acqua calda ed illuminazione. Secondo l’ormai costante giurisprudenza della Corte, che considera automaticamente integrato un trattamento inumano e degradante allorché ciascun detenuto disponga di uno spazio personale pari o inferiore a 3 metri quadri (a fronte degli almeno quattro raccomandati dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa), la prima doglianza era di per sé assorbente: ed in effetti, rigettata la difesa del governo italiano che contestava in fatto – ma senza addurre prove concrete – l’allegazione dei ricorrenti, la Corte accertava la violazione dell’art. 3 CEDU rispetto ai sette ricorrenti, condannando lo Stato italiano a corrispondere, a titolo di equa soddisfazione per il danno morale subito, somme di entità variabile da 10.600 a 23.500 euro, in relazione in particolare alla durata della rispettiva detenzione in condizioni di sovraffollamento» (VIGANÒ F., Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffolamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in www.dirittopenalecontemporaneo.it)
Ciò che rende particolarmente interessante questa decisione, tuttavia, sono il dispositivo (d.1.2.) e le frasi motivazionali relativa ai profili di ricevibilità del ricorso, l’eccezione – formulata dal governo italiano – di mancato esaurimento dei ricorsi interni (secondo cui ciascun detenuto ha il diritto di presentare reclami al magistrato di sorveglianza ai sensi degli artt. 35 e 69 ord. pen. per lamentare la violazione dei propri diritti durante il trattamento, e che tale ricorso costituisce un mezzo effettivo per la tutela dei diritti medesimi), in particolare (d.1.1.).
d.1.1. «La Corte – osserva VIGANÒ F., op. cit. – ha buon gioco nel disattendere l’eccezione, richiamando la propria costante giurisprudenza sulla regola del previo esaurimento dei rimedi interni di cui all’art. 35 CEDU, che preclude l’accesso alla Corte alla vittima di una violazione convenzionale allorché essa non si sia avvalsa di un rimedio interno effettivo, idoneo a riparare alla violazione e facilmente accessibile, sottolineando altresì come rispetto allo specifico problema del sovraffollamento carcerario tale rimedio debba essere idoneo non solo a riparare ex post le conseguenze della violazione – in particolare garantendo un risarcimento pecuniario -, ma anche a porre fine alla violazione e a migliorare le condizioni generali della detenzione. Nell’ordinamento italiano, l’ineffettività sotto questi specifici profili del procedimento di reclamo avanti il magistrato di sorveglianza è dimostrata proprio dalla vicenda personale del ricorrente che aveva esperito il rimedio, ottenendo in sostanza nulla più che una pronuncia declaratoria sull’esistenza di una violazione in atto, alla quale soltanto tardivamente – e dopo la proposizione del ricorso avanti alla Corte europea – le autorità penitenziarie avevano dato parziale esecuzione, disponendo il trasferimento del detenuto in una cella dotata di spazi più ampi. Né il governo italiano ha potuto chiarire alla Corte quale procedimento consentirebbe di dare esecuzione forzata alle ordinanze del magistrato di sorveglianza che accertino la violazione del diritto del detenuto a non essere ristretto in spazi troppo esigui. La Corte si sofferma altresì brevemente – nella parte della sentenza relativa alla ricostruzione del diritto interno – sull’unico precedente rappresentato dall’ordinanza 9 giugno 2011 del magistrato di sorveglianza di Lecce, con la quale il giudice aveva assegnato un risarcimento di 220 euro al detenuto in chiave di riparazione del danno esistenziale in conseguenza delle condizioni di sovraffollamento della detenzione. La Corte non manca di rilevare, tuttavia, come tale pronuncia – impugnata dal Ministro della giustizia con un ricorso in cassazione, giudicato poi inammissibile dalla S.C. perché tardivo – sia rimasta isolata nella giurisprudenza italiana(…), e come – pertanto – il rimedio immaginato dal magistrato di sorveglianza leccese non costituisca un rimedio interno effettivo, idoneo e facilmente accessibile per la generalità dei detenuti italiani rispetto a violazioni in essere dell’art. 3 CEDU delle quali siano vittime»
d.1.2. La Corte infine dispone che il nostro Paese – entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza – adotti un rimedio idoneo contro le violazioni dell’art. 3 CEDU conseguenti al sovraffollamento carcerario, secondo i parametri indicati dalla Corte.
La Corte, qui, «riafferma anzitutto la propria costante giurisprudenza secondo cui dall’art. 46 CEDU, interpretato alla luce dell’art. 1 CEDU, discende l’obbligo a carico dello Stato soccombente di mettere in opera, sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, le misure individuali (relative alla posizione del singolo ricorrente) e le misure generali (relative alla generalità di coloro che si trovino in situazioni analoghe) necessarie ad ovviare alla violazione (§ 83), sia assicurando un adeguato ristoro per le violazioni già subite, sia – soprattutto – ponendo fine alle violazioni ancora in essere. Principio questo, per inciso, di fondamentale importanza, spesso sottovalutato o addirittura ignorato nel nostro Paese, ove troppo spesso si sente acriticamente ripetere che la Corte europea sarebbe un giudice del caso concreto, e che le sue pronunce non avrebbero alcuna portata generale rispetto a casi analoghi a quello deciso. Lo scopo della procedura pilota adottata dalla Corte in situazioni oggetto di numerosi ricorsi seriali, come quelli relativi al sovraffollamento delle carceri italiane, è quello – sottolinea ancora la Corte – di porre chiaramente in luce l’esistenza dei problemi strutturali che sono all’origine delle violazioni lamentate dai ricorsi seriali, e di indicare allo Stato le misure e azioni indispensabili per porvi rimedio, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri (§ 84); e ciò in conformità al principio di sussidiarietà che regola i rapporti tra la Corte e gli Stati parte della Convenzione, secondo il quale spetta anzitutto alle autorità nazionali assicurare un’adeguata tutela ai diritti convenzionali (§ 85). Rispetto allo specifico problema del sovraffollamento delle carceri italiane, la Corte sottolinea dunque il carattere sistemico delle violazioni dell’art. 3 CEDU, dimostrato non solo dalle centinaia di ricorsi pendenti avanti alla Corte, il cui numero peraltro non cessa di crescere (§ 89), ma anche da specifici riconoscimenti delle massime autorità italiane (§§ 23-29), i cui provvedimenti di emergenza -pur salutati con soddisfazione dalla Corte hanno tuttavia potuto sino a questo momento attenuare in misura soltanto molto parziale il fenomeno (§ 92). La Corte si mostra invero ben consapevole che soltanto sforzi a lungo termine da parte delle autorità italiane potranno risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario, e sottolinea come il suo compito non possa essere quello di indicare le specifiche misure da adottare in questo contesto, che resteranno affidate alla valutazione discrezionale delle autorità italiane, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Tuttavia, la Corte non si esime dal fornire qualche importante indicazione in questo senso, richiamando anzitutto le raccomandazioni Rec(99)22 e Rec(2006)13 del Comitato dei Ministri che invitano gli Stati, ed in particolare pubblici ministeri e giudici, a ricorre il più ampiamente possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro politica penale verso un minor ricorso alla detenzione allo scopo, tra l’altro, di ridurre la crescita della popolazione carceraria (§ 95). In secondo luogo, la Corte evidenzia come lo Stato italiano debba al più presto dotarsi – al più tardi, come più volte sottolineato, entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza – di un sistema di ricorsi interni idonei tanto a garantire un rimedio preventivo contro le violazioni dell’art 3 CEDU a carico dei detenuti (e dunque idonei a far cessare le violazioni in atto), quanto un rimedio compensatorio nei casi di avvenuta violazione (§ 96)» (VIGANÒ F., op. cit.)
d.2. In una pronuncia immediatamente successiva (Cass. Pen. sez. I, sent. 15 gennaio 2013 (dep. 30 gennaio 2013), n. 4772, Pres. Giordano, Est. Giampetti, Ric. Vizzari), la Suprema Corte conferma un’ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Catanzaro, che aveva dichiarato inammissibile il reclamo proposto da un detenuto ex art. 35 ord. pen. con il quale questi chiedeva, previo accertamento delle condizioni di sovraffollamento della cella in cui il detenuto era recluso, la condanna del Ministero della giustizia al risarcimento del danno patito, statuendo che il Tribunale di Sorveglianza non ha alcuna competenza in materia non potendo all’uopo essere invocato, né l’art. 69 co. 5 ultima parte ord. pen., (relativo alle «disposizioni dirette a eliminare» eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati, in funzione dunque preventiva di ulteriori violazioni e non già riparatoria per quelle già avvenute), né l’art. 35 ord. pen., che prevede soltanto che detenuti o internati possano «rivolgere istanze o reclami» al magistrato di sorveglianza.
Sul piano sistematico, la Cassazione esclude che il magistrato di sorveglianza abbia una competenza esclusiva a conoscere di qualsiasi controversia avente ad oggetto i diritti soggettivi del detenuto. Il magistrato di sorveglianza è, nella sua essenza, un giudice che sovraintende all’esecuzione della pena, al quale è attribuito soltanto il potere di impartire disposizioni per far cessare eventuali violazioni in atto dei diritti soggettivi dei detenuti, in esito ad accertamenti orientati a questa esclusiva finalità preventiva. In «materia risarcitoria ed indennitaria il sistema normativo prevede in via generale la sua attribuzione alla giurisdizione civile», salve le eccezioni poste da specifiche norme di legge, derogatorie rispetto a tale principio generale (e pertanto di stretta interpretazione), come ad es. le norme attributive della competenza del giudice penale a giudicare su specifiche istanze risarcitorie o indennitarie (art. 74 c.p.p. in materia di risarcimento dei danni alla parte civile; art. 314 c.p.p. in materia di danno da ingiusta detenzione; art. 643 c.p.p. in materia di danno da errore giudiziario). In altri termini, la «tutela dei diritti soggettivi violati è, in difetto di disposizioni derogatorie ad hoc, compito della giurisdizione civile; e lo è vieppiù dopo la nota sentenza delle SS.UU. civili 11 novembre 2008, n. 26972, che ha riconosciuto la generale risarcibilità delle lesioni dei diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti, tra i quali non può non essere ricompreso il diritto di cui agli artt. 27 co. 3 Cost. e 3 CEDU, nell’estensione riconosciutogli dalla pertinente giurisprudenza di Strasburgo. Se un simile diritto esiste – e non vediamo come si possa sostenere il contrario -, non potrà non riconoscersi altresì la sua risarcibilità ad opera del giudice civile, che è – in virtù di una regola ordinamentale di default – il giudice generale dei diritti: il quale sarà così chiamato a dare attuazione, in questa delicata materia, all’imperativo discendente dall’art. 13 CEDU, che impone agli Stati parte di assicurare dotare tutti i diritti riconosciuti dalla Convenzione di un rimedio giurisdizionale effettivo» (Così VIGANÒ F., Alla ricerca di un rimedio risarcitorio per il danno da sovraffollamento carcerario: la Cassazione esclude la competenza del magistrato di sorveglianza, in www.dirittopenalecontemporaneo.it).
Accennando al dispositivo della sentenza Torreggiani, la Suprema Corte evidenzia che la decisione della CEDU indica al legislatore italiano l’obbligo di intervenire su tre versanti:
– quello di implementare le misure alternative al carcere e quello di rafforzare le strutture penitenziarie;
– quello di introdurre rimedi in grado di garantire maggiore effettività alla tutela preventiva del diritto dei detenuti a non subire pene o trattamenti inumani e degradanti;
– quello di assicurare un esito compensativo al detenuto che in concreto sia stato vittima di una lesione di tale diritto.
Dopo questa sentenza, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia, investito del ricorso di un detenuto condannato in via definitiva mirante ad ottenere il differimento dell’esecuzione della pena proprio in ragione delle condizioni di sovraffollamento del carcere di Padova nel quale si trovava ristretto, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 c.p., che disciplina le ipotesi di differimento facoltativo della pena, nella parte in cui non prevede l’ipotesi in cui «la pena debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità», per contrasto con gli articoli 27 co. 3, 117 co. 1 (in relazione all’art. 3 CEDU nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo), nonché 2 e 3 Cost.. Il Tribunale, infatti, ha ritenuto di non poter superare, in via di interpretazione conforme alla CEDU, considerando il carattere tassativo delle ipotesi di differimento della pena previste dall’art. 147 c.p. (e a fortiori dallo stesso art. 146, relativo alle ipotesi di differimento obbligatorio), con conseguente necessario coinvolgimento del giudice delle leggi affinché provveda, attraverso una pronuncia additiva, a estendere l’ambito di applicazione della norma codicistica all’ipotesi in cui le condizioni concrete di esecuzione della pena risultino incompatibili con il diritto del detenuto di cui all’art. 3 CEDU, secondo la lettura ribadita dalla Corte europea con riferimento proprio al nostro paese nel caso Torreggiani.
«La strada del rinvio dell’esecuzione della pena costituisce, per l’appunto, una di queste possibili strade: una strada che, specie nella versione del rinvio facoltativo, presenterebbe il vantaggio di attribuire al giudice un potere discrezionale nella selezione dei condannati ai quali concedere il beneficio, nel quadro di un bilanciamento caso per caso tra le esigenze di tutela della collettività e dei dritti fondamentali del condannato. Un bilanciamento, insomma, non dissimile da quelli ai quali è chiamato il giudice della cautela allorché deve decidere sull’adeguatezza della custodia cautelare in carcere ai soggetti che si trovano nelle condizioni di cui all’art. 175 co. 4 e ss. c.p.p.» (cfr. VIGANÒ F., Alla ricerca di un rimedio giurisdizionale preventivo contro il sovraffollamento delle carceri: una questione di legittimità costituzionale della vigente disciplina in materia di rinvio dell’esecuzione della pena detentiva, in www.dirittopenalecontemporaneo.it).
In seguito analoga questione è stata proposta dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, 12 marzo 2013.
d.3. Il 6° rapporto annuale sulla Supervisione della esecuzione dei giudizi e delle decisioni della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (p. 25 e 31) rileva che (p. 25) il numero complessivo di ricorsi nei confronti dell’Italia per violazione dei diritti dei detenuti era di 2522 nel 2011 e 2569 nel 2012 (di gran lunga il numero più alto dei paesi aderenti alla CEDU)
Dalla tabella a p. 31 apprendiamo che l’ammontare complessivo delle condanne subite dallo Stato italiano, per la medesima ragione, nel 2011 è stato di 8.414.745 e nel 2012 di (ben) 119.458.467 milioni di euro.
Dal documento del DAP., Caratteristiche socio-lavorative, giuridiche e demografiche della popolazione detenuta, documento di grande valore documentale, ricco di dati molto interessanti, apprendiamo (tra l’altro) a p. 41 che alla data del 31 dicembre 2012 il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane era di 65.701 unità a fronte di una capienza di 47.040. Seria la situazione pugliese dove a fronte di una capienza di 2.459 il numero dei reclusi era di 4.145 unità.


e. La gravità della situazione era stata fotografata anche dal Presidente della Repubblica, il 6 febbraio 2013, in occasione della visita al carcere di San Vittore, dove Giorgio Napolitano osservava che «più volte, e anche molto di recente, colto ogni occasione per denunciare l’insostenibilità della condizione delle carceri e di coloro che vi sono rinchiusi. E naturalmente avrei auspicato che i miei appelli fossero raccolti in misura maggiore di quanto non sia accaduto, ma vi posso assicurare che questo è accaduto per vari appelli del Presidente della Repubblica riguardanti anche altre questioni. Ho pensato tuttavia di dovere – raccogliendo l’invito rivoltomi a visitare San Vittore e, in particolare la sollecitazione che mi è venuta dal Consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura, dottoressa Di Rosa – levare nuovamente la mia voce dopo che sul tema è intervenuta ancora la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo con una condanna, mortificante come l’ho definita, per l’Italia. Il Ministro della Giustizia, prof.ssa Paola Severino, ha fatto cosa giusta recandosi di persona a Strasburgo, per dar prova della nostra attenzione a quella pur dura decisione della Corte Europea, e prendendo la parola, all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa lo scorso 24 gennaio. E lì ha anche presentato una sintesi delle iniziative da lei assunte in sede di governo e portate avanti con il conforto del Parlamento. Iniziative che meriterebbero di essere da qualsiasi parte politica valutate nel merito con serenità, senza pregiudiziali liquidatorie. Il Presidente Tamburrino ha analizzato attentamente in un suo scritto la sentenza della CEDU, considerando dovere “indefettibile e indifferibile”, da parte nostra, darvi esecuzione. È in giuoco, come egli ha giustamente rilevato, “una delle condizioni essenziali dello Stato di diritto”. Sono in giuoco – debbo dire nella mia responsabilità di Presidente della Repubblica – il prestigio e l’onore dell’Italia».
Ciononostante, lo Stato italiano ha impugnato alla Grand Chambre della CEDU la sentenza Torregiani.
Questa iniziativa è stata aspramente criticata dall’Unione delle Camere Penali: la decisione di impugnare – si legge con un comunicato stampa del 10 aprile 2013 – serve solo a guadagnare tempo, «lo stesso tempo che in questi tre mesi non ha visto alcuna iniziativa che anche lontanamente potesse andare nella direzione indicata dalla CEDU. «Questo atto è dunque una “tattica dilatoria” del tipo di quelle che vengono sempre attribuite a chi vuole semplicemente ritardare gli esiti dei processi. Il problema è che qui è lo Stato a metterla in pratica, e per di più su una materia come quella dei diritti fondamentali, che richiederebbe quanto meno un minimo di coerenza».


Prof. Avv. Giuseppe Losappio


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Note:



  1. Testo della relazione presentata all’Assemblea aperta della Camera Penale, 11 maggio 2013, Casa Circondariale di Trani