L’Avv. …………………………… con istanza del ……………………. chiede a questo Consiglio dell’Ordine: “un parere in merito alla questione della «pubblicità informativa» per professionisti” ponendo a questo Consiglio dell’Ordine ben quindici quesiti specifici che qui si danno per trascritti.


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Va premesso che la potestà di fornire pareri, fino ad oggi, è stata costantemente riconosciuta al solo CNF e non agli Ordini Territoriali.


Il CNF, infatti,  si è espresso sulla pubblicità informativa numerose volte –dal 2007 al 2011- con i pareri allegati.


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Con tale premessa questo Consiglio dell’Ordine, nei limiti delle proprie potestà, non intende sottrarsi alla richiesta dell’Avv. …………………….   fornendogli alcune utili indicazioni che muovono da una ricognizione delle fonti normative, dalla giurisprudenza e dai pareri del C.N.F. e dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione.


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Le fonti normative che disciplinano la complessa materia della pubblicità informativa dell’avvocato sono rappresentate anzitutto dagli artt. 17 e 17 bis del Codice Deontologico Forense.


Ai sensi dell’art. 17 (Informazioni sull’attività professionale): “L’avvocato può dare informazioni sulla sua attività professionale. Il contenuto e la forma dell’informazione devono essere coerenti con la finalità della tutela dell’affidamento della collettività e rispondere a criteri di trasparenza e veridicità, il rispetto dei quali è verificato dal competente Consiglio dell’ordine. Quanto al contenuto, l’informazione deve essere conforme a verità e correttezza e non può avere ad oggetto notizie riservate o coperte dal segreto professionale. L’avvocato non può rivelare al pubblico il nome dei propri clienti, ancorché questi vi consentano. Quanto alla forma e alle modalità, l’informazione deve rispettare la dignità e il decoro della professione. In ogni caso, l’informazione non deve assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa. I – Sono consentite, a fini non lucrativi, l’organizzazione e la sponsorizzazione di seminari di studio, di corsi di formazione professionale e di convegni in discipline attinenti alla professione forense da parte di avvocati o di società o di associazioni di avvocati. II – È consentita l’indicazione del nome di un avvocato defunto, che abbia fatto parte dello studio, purché il professionista a suo tempo lo abbia espressamente previsto o abbia disposto per testamento in tal senso, ovvero vi sia il consenso unanime dei suoi eredi”.


Ai sensi dell’art. 17 bis (Modalità dell’informazione): “L’avvocato che intende dare informazione sulla propria attività professionale deve indicare:


– la denominazione dello studio, con la indicazione dei nominativi dei professionisti che lo compongono qualora l’esercizio della professione sia svolto in forma associata o societaria;


– il Consiglio dell’Ordine presso il quale è iscritto ciascuno dei componenti lo studio;


– la sede principale di esercizio, le eventuali sedi secondarie ed i recapiti, con l’indicazione di indirizzo, numeri telefonici, fax, e-mail e del sito web, se attivato;


– il titolo professionale che consente all’avvocato straniero l’esercizio in Italia, o che consenta all’avvocato italiano l’esercizio all’estero, della professione di avvocato in conformità delle direttive comunitarie.


Può indicare:


– i titoli accademici;


– i diplomi di specializzazione conseguiti presso gli istituti universitari;


– l’abilitazione a esercitare avanti alle giurisdizioni superiori;


– i settori di esercizio dell’attività professionale e, nell’ambito di questi, eventuali materie di attività prevalente;


– le lingue conosciute;


–  il logo dello studio;


– gli estremi della polizza assicurativa per la responsabilità professionale;


– l’eventuale certificazione di qualità dello studio;l’avvocato che intenda fare menzione di una certificazione di qualità deve depositare presso il Consiglio dell’Ordine il giustificativo della certificazione in corso di validità e l’indicazione completa del certificatore e del campo di applicazione della certificazione ufficialmente riconosciuta dallo Stato.


L’avvocato può utilizzare esclusivamente i siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipa, previa comunicazione tempestiva al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto in cui è espresso. Il professionista è responsabile del contenuto del sito e in esso deve indicare i dati previsti dal primo comma. Il sito non può contenere riferimenti commerciali e/o pubblicitari mediante l’indicazione diretta o tramite banner o pop-up di alcun tipo”.


La materia della pubblicità informativa dell’avvocato è stata ripensata alla luce dell’art. 2 del Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. Decreto Bersani, convertito con Legge 4 agosto 2006, n. 248) a mente del quale: “1. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: […] b) il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto e’ verificato dall’ordine; […]”.


Da pochi mesi, poi, è entrato in vigore il D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, recante la riforma degli ordinamenti professionali, che all’art. 4, dettato in punto di pubblicità informativa, specifica che:


 “1. È ammessa con ogni mezzo la pubblicità informativa avente ad oggetto l’attività delle professioni regolamentate, le specializzazioni, i titoli posseduti attinenti alla professione, la struttura dello studio professionale e i compensi richiesti per le prestazioni. 2. La pubblicità informativa di cui al comma 1 dev’essere funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l’obbligo del segreto professionale e non dev’essere equivoca, ingannevole o denigratoria. 3. La violazione della disposizione di cui al comma 2 costituisce illecito disciplinare, oltre a integrare una violazione delle disposizioni di cui ai decreti legislativi 6 settembre 2005, n. 206, e 2 agosto 2007, n. 145”.


Infine l’argomento è stato disciplinato dall’art. 10 della L. 31.12.2012 n. 247 (pubblicata sulla GU del 18.1.2013) di riforma dell’ordinamento professionale.


art. 10. (Informazioni sull’esercizio della professione).


1. È consentita all’avvocato la pubblicità informativa sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti.


2. La pubblicità e tutte le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive.


3. In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.


4. L’inosservanza delle disposizioni del presente articolo costituisce illecito disciplinare.


Il CNF ha ritenuto tale norma di immediata applicazione ed innovativa rispetto all’art. 4 DPR 137/2012, soprattutto con riferimento alla pubblicità comparativa, oggi espressamente vietata.


A seguito della riforma secondo l’ufficio studi del CNF, l’art. 4 DPR 137/2012, dovrebbe ritenersi inapplicabile alla professione forense in base al criterio gerarchico, cronologico e di specialità.


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In tema di pubblicità informativa dell’avvocato va, naturalmente, richiamata la copiosa giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense (in particolare, cfr., Cons. Naz. Forense 15-10-2012, n. 152; Cons. Naz. Forense 22-09-2012, n. 121; Cons. Naz. Forense 02-03-2012, n. 39; Cons. Naz. Forense 02-03-2012, n. 34; Cons. Naz. Forense 07-07-2011, n. 93; Cons. Naz. Forense 21-04-2011, n. 56; Cons. Naz. Forense 21-12-2009, n. 183; Cons. Naz. Forense 19-12-2008, n. 173; Cons. Naz. Forense 31-12-2007, n. 268; Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 219),  ed  pareri resi dal medesimo organismo (Parere Consiglio nazionale forense 14-01-2011, n. 10; Parere Consiglio nazionale forense 29-01-2009, n. 3; Parere Consiglio nazionale forense 27-04-2011, n. 49; Parere Consiglio nazionale forense 12-12-2007, n. 65; Parere Consiglio nazionale forense 12-12-2007, n. 61; Parere Consiglio nazionale forense 09-05-2007, n. 11), riportati in calce.


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Una ampia analisi delle problematiche in punto di pubblicità informativa dell’avvocato è in una recentissima decisione della Suprema Corte di Cassazione a sezioni unite (Cass. s.u. 13 novembre 2012, n. 19705, in Guida al dir., 2012, fasc. n. 48, 15, con nota di Sacchettini). Nel caso di specie, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Monza sottoponeva a procedimento disciplinare alcuni avvocati il cui nominativo compariva in un inserto pubblicitario pubblicato su di un giornale, per violazione degli artt. 17 bis e 19 Codice Deontologico Forense “per avere diretto comunicazioni ed informazioni sulla propria attività professionale, utilizzando in modo improprio mezzi consentiti e comunque in modo incompleto rispetto alle indicazioni obbligatorie, con contenuto, forma e modalità irrispettose della dignità e decoro della professione, con locuzioni integranti messaggio pubblicitario e promozionale ad ampia divulgazione con la pubblicazione di un box pubblicitario sul quotidiano (OMISSIS)”.


La S.C. nella richiamata decisione muove dal principio che “ […] il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 38, il quale prevede che siano sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati “che si rendano colpevoli di abusi o di mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”, non contiene una specifica tipizzazione di ipotesi d’illecito. La ragione di tale scelta di formulazione normativa […] viene generalmente ravvisata nel fine di evitare che violazioni dei doveri anche gravi possano sfuggire alla sanzione disciplinare. […] tale norma […] descrive fattispecie d’illecito disciplinare, non mediante un catalogo di ipotesi tipiche, ma mediante clausole generali o concetti giuridici indeterminati. Ciò comporta anzitutto che tale norma non si presta ad una definitiva ed esaustiva individuazione di ipotesi tipiche sul piano astratto, sia pure da parte dell’organo deputato alla sussunzione del fatto nella norma generale. Il che, sotto il profilo attuativo, significa che il perimetro di tale norma generale, preposta alla tutela del decoro e della dignità professionale, non è esaurito dalle fattispecie tipiche lesive che possano rivenirsi nel codice deontologico professionale. […] Non fornendo la norma, per sua intrinseca natura, elementi tassativi per la definizione delle condotte disciplinarmente illecite, il sindacato di legittimità deve tener conto del fatto che la categoria normativa impiegata finisce con l’attribuire agli organi disciplinari forensi un compito di individuazione delle condotte sanzionabili […] Pertanto, anche nell’individuazione di condotte costituenti illecito disciplinare degli esercenti la professione forense, essendo le stesse definite dalla legge mediante una clausola generale, il controllo di legittimità sull’applicazione di tale norma non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi agli organi forensi nell’enunciazione di ipotesi d’illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza (Cass. S.U. 27.1.2004, n. 1414). […] in questa attività di individuazione dell’ipotesi concreta di illecito disciplinare, quale modo di porsi della norma generale per il caso concreto, l’organo professionale (prima ancora di effettuare una valutazione dei fatti storici) concretizza la norma al caso specifico, individuando un precetto per esso. Il precetto della norma generale di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 38 è: «non commettere fatti non conformi al decoro ed alla dignità professionale». Da tale precetto generale, il Consiglio dell’ordine è giunto alla tipizzazione di un precetto per il caso specifico, sia pure – come ogni precetto – ancora in astratto: «non effettuare alcuna forma di pubblicità con slogans evocativi e suggestivi, privi di contenuto informativo professionale, e con evidente enfasi sul dato economico, con contenuti equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo consentito, e quindi lesivi del decoro ed alla dignità professionale». Ne consegue che in questa fase la ragionevolezza cui deve attenersi l’organo professionale disciplinare non è quella relativa alla motivazione sulla ricostruzione dei fatti (che è un momento successivo ed attiene all’accertamento degli avvenimenti fattuali), ma quella relativa alla “concretizzazione” della norma generale nella fattispecie in esame, come ipotesi di illecito disciplinare ascritto all’incolpato.”


La S.C. statuisce anche che: “[…] diversa questione dal diritto a poter fare pubblicità informativa della propria attività professionale è quella che le modalità ed il contenuto di tale pubblicità non possono ledere la dignità e al decoro professionale, in quanto i fatti lesivi di tali valori integrano l’illecito disciplinare di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 38, comma 1.  Lo stesso art. 17 del regolamento deontologico forense dispone che sussiste la libertà di informazione da parte dell’avvocato sulla propria attività professionale, ma che tale informazione, quanto alla forma ed alle modalità deve «rispettare la dignità ed il decoro della professione» e non deve assumere i connotati della «pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa». L’art. 17 bis del cod. deontologico stabilisce le modalità specifiche dell’informazione e l’art. 19 fa divieto di acquisizione della clientela con «modi non conformi alla correttezza e al decoro». Ne consegue che  […] non è illegittimo per l’organo professionale procedente individuare una forma di illecito disciplinare (non certamente nella pubblicità in sé perfettamente legittima nel suo aspetto informativo ma) nelle modalità e nel contenuto della pubblicità stessa, in quanto lesivi del decoro e della dignità della professione, e non nell’attività di acquisizione di clientela in sé, ma negli strumenti usati, allorché essi siano non conformi alla correttezza ed al decoro professionale […]”


Infine, la S.C. si spinge a verificare la portata del nuovissimo art. 4 del D.P.R. 3 agosto 2012, n. 137, già richiamato sopra. In proposito la decisione de qua afferma che : “[…] l’art. 4 del D.P.R. n. 137 del 3.8.2012, n. 137 […] ribadisce la legittimità della «pubblicità informativa avente ad oggetto l’attività delle professioni regolamentate, le specializzazioni, i titoli posseduti attinenti alla professione, la struttura dello studio ed i compensi richiesti per le prestazioni».[…] va osservato che […] il comma secondo di tale norma statuisce che la pubblicità deve essere «funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l’obbligo del segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria»”.


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Dalla giurisprudenza del C.N.F. emerge chiaro il principio che la pubblicità informativa deve essere consentita nei limiti fissati dal codice deontologico e comunque deve essere svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro professionale; il codice deontologico a fini pubblicitari consente all’avvocato non una pubblicità indiscriminata ma la diffusione di specifiche informazioni sull’attività, anche sui prezzi, i contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione del compenso e della modalità del suo calcolo. L’informazione sull’attività professionale, ai sensi degli artt. 17 e 17 bis del codice deontologico deve essere di tipo semplicemente conoscitivo, potendo il professionista provvedere alla sola indicazione delle attività prevalenti o del proprio curriculum, ma non deve essere mai né comparativa né autocelebrativa. In altre parole il C.N.F. in punto di pubblicità segue costantemente il principio che la diffusione di informazioni inerenti l’attività professionale dell’avvocato – ad es. prezzi, modalità, contenuti e condizioni di offerta dei servizi professionali – devono essere dirette ad orientare le scelte della clientela che chiede assistenza legale. Dalla decisione della S.C., sopra riassunta, emerge con chiarezza che “Il decoro e la dignità professionale devono sempre esser considerati limiti invalicabili anche nell’esercizio della pubblicità degli avvocati, e pertanto non è sindacabile in sede di legittimità, in quanto non irragionevole, la decisione adottata dal C.n.f. che riscontri la relativa violazione nel comportamento di chi abbia descritto l’attività professionale in quotidiano con una grafica tale da porre enfasi sul dato economico e con dati equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo, non consoni a detti principi di decoro e dignità”. “Costituisce un illecito disciplinare il messaggio pubblicitario svolto con grafica tale da porre enfasi sul dato economico della prestazione, nonché contenente dati equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo. Una tale forma di pubblicità va quindi considerata lesiva della dignità e del decoro professionale, in ragione della sua natura spiccatamente commerciale, anche in ragione della enfatizzazione dei costi molto bassi applicati (nel caso di specie è stata infine applicata la sanzione disciplinare dell’avvertimento)”.


I principi espressi dalla Corte di Cassazione a sezioni unite sembrano confermati dall’art. 10 L. 247/2012.


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Dalle richiamate argomentazioni elaborate dalla giurisprudenza ordinistica e togata discende pacificamente che i principi di dignità e decoro professionale, cui deve ispirarsi l’avvocato ai fini di una corretta pubblicità informativa, assurgono al rango di vere e proprie “clausole generali” o “concetti giuridici indeterminati”. In proposito la dottrina civilistica individua nella clausola generale «[…] una disposizione precettiva […] formulata attraverso espressioni linguistiche indeterminate, sì da esservi implicito il richiamo a regole della morale o del costume oppure proprie di determinate cerchie sociali, o discipline, o arti o professioni.» (così, F. Roselli, Le clausole generali,oggi, in Diritto romano attuale, 2003, 37); la clausola generale ha, dunque, «[…] il compito di realizzare una funzione “omeostatica”, cioè una funzione di progressivo e pacifico adattamento del diritto applicato alle esigenze di un continuo mutamento. […] La clausola generale diviene, in questa prospettiva, un concetto idealtipico, atto a designare tutti i testi normativi contenenti espressioni ampie e non precisamente determinate; cioè una entità dai confini fluidi, se pur riconoscibile con criteri socioculturali e storici. È questo oggi il significato dell’espressione, nell’uso corrente dei giuristi italiani » (così, Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Rivista critica del diritto privato, 2011, 346, 348). Le clausole generali richiedono, per tanto, un «[…] intervento del giudice nel completamento della fattispecie legale.» (cfr. Gentili, Prefazione a Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010, XIV).


Orbene, dalla rilettura  delle clausole generali di dignità e decoro professionale di cui agli artt. 17 e  17 bis del Codice Deontologico Forense alla luce del principio di atipicità dell’illecito disciplinare, emerge che i primi si palesano nel nostro sistema come clausole la cui effettiva applicazione e concretizzazione è attribuita ai Consigli dell’Ordine ed al C.N.F.


In questa prospettiva, appare logico ritenere che la valutazione di una fattispecie alla luce di clausole generali va compiuta dai giudici della deontologia – Consigli dell’Ordine e C.N.F. – alla stregua di “criteri socioculturali e storici”, ossia con esplicito riferimento a fatti concretamente verificatisi nella realtà sociale, tenendo conto delle effettive e concrete modalità dei fatti posti in essere. I giudici della deontologia, dunque, sono chiamati a “concretizzare” le clausole generali recate dai precetti deontologici solo con una valutazione di fatti concretamente ed effettivamente verificatisi nella realtà sociale della professione forense, non con riguardo a fatti puramente ipotetici o a semplici aspettative, e con l’impiego di parametri valutativi coerenti al tempo in cui i fatti si verificano.


Ad essi, dunque, non compete una valutazione preventiva di fatti, per così dire, “futuri”. Ciò implica, così, che la concretizzazione delle clausole generali contenute nelle norme deontologiche (principi di dignità e decoro professionale) da parte dei giudici potrà avvenire solo alla luce delle concrete ed effettive modalità del fatto posto in essere dall’avvocato, rimanendo escluso che i giudici della deontologia possono compiere valutazioni di fatti puramente ipotetici. Se così fosse, tali valutazioni assumerebbero, con tutta evidenza, natura di autorizzazioni surrettizie ed astratte per condotte che, ove poi concretamente realizzate, risulterebbero atipicamente scriminate in virtù di preventive autorizzazioni da parte del Consiglio dell’Ordine e non più effettivamente perseguibili.


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Conseguentemente la risposta ai quesiti posti dall’Avv. ………………………., alla luce dei principi deontologici richiamati, in quanto clausole generali, da parte di questo Consiglio dell’Ordine di Trani appare impossibile oltre che inopportuna, per tutti i motivi espressi dal CNF nel parere n. 46/2007:


“ … Per regolamento e per proprio costante orientamento, poi, questa Commissione si è sempre astenuta dal pronunciarsi su casi specifici come quello in oggetto, che costituiscono l’ambito tipico della potestà disciplinare dei Consigli dell’Ordine, onde evitare sovrapposizioni e contrasti con l’esercizio della funzione di giudice di secondo grado che il Consiglio nazionale detiene in materia.


 Il caso descritto potrebbe in ipotesi dar luogo un procedimento disciplinare e, dunque, essere suscettibile di giungere alla cognizione del C.N.F. in sede di impugnazione avverso l’eventuale provvedimento dell’Ordine locale“.


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E’ vero che oggi, ai sensi dell’art. 50 comma 1 della L. 247/2012,  il potere disciplinare appartiene ai Consigli Distrettuali di Disciplina Forense e non più al Consiglio dell’Ordine Circondariale. Tuttavia l’art. 29 comma 1 lettera f)- del nuovo ordinamento professionale conserva in capo agli Ordini Circondariali il potere-dovere di vigilare sulla condotta degli iscritti.


Ed anche l’esercizio di tale potere-dovere, ad avviso di questo Consiglio dell’Ordine, impedisce di esprimere risposte a quesiti specifici che, se positive, potrebbero costituire autorizzazione preventiva del COA a comportamenti di potenziale rilevanza disciplinare.


 


 


PER TALI RAGIONI


Nei limiti delle proprie potestà questo Consiglio dell’Ordine, stante l’estrema delicatezza della materia, non ha inteso sottrarsi alla encomiabile richiesta di un giovane Collega di conoscere i principi e i limiti inderogabili cui attenersi nell’esercizio della professione con modalità innovative. Tuttavia, per le ragioni espresse, questo Consiglio dell’Ordine però non può rispondere specificamente ai 15 quesiti posti dall’Avvocato ………………….., perché la richiesta si appalesa come richiesta di valutazione preventiva/autorizzazione di comportamenti inerenti la pubblicità informativa incompatibile con l’idea, ampiamente dimostrata nelle sopra richiamate fonti legali e giurisprudenziali, che la concretizzazione delle le clausole generali recate da norme deontologiche può avvenire solo con riguardo a fatti concreti, non a fatti “futuri”.


La richiesta dell’Avv. ………………………… deve considerarsi quindi irricevibile.


Trani 24 gennaio 2013.


Il Consigliere relatore AVV. SABINO PALMIERI


 


 


                    Il Consigliere Segretario                                              Il Presidente


                  AVV. CARLO BARRACCHIA                                 AVV. FRANCESCO LOGRIECO


 


ALLEGATI


DECISIONI CNF


Cons. Naz. Forense 15-10-2012, n. 152 


L’art. 2 del d.l. n. 223/2006, convertito nella n. 248/2006, abrogando le disposizioni che non consentivano la c.d. pubblicità informativa relativamente alle attività professionali, non ha affatto abrogato l’art. 38, comma 1, del r.d.l. n. 1578/1933, il quale punisce comportamenti non conformi alla dignità ed al decoro professionale. Dovendosi pertanto interpretare alla luce di tale disposizione le norme di cui agli artt. 17 e 17 bis del codice deontologico forense, la pubblicità informativa deve essere consentita nei limiti fissati dal codice deontologico e comunque deve essere svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro professionale. Il codice deontologico forense, infatti, a seguito dell’entrata in vigore della normativa nota come “Bersani”, consente non una pubblicità indiscriminata (ed in particolare non comparativa ed elogiativa), ma la diffusione di specifiche informazioni sull’attività, anche sui prezzi, i contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione del compenso e della modalità del suo calcolo. La peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria ed alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale. L’informazione sull’attività professionale, ai sensi degli artt. 17 e 17 bis cod. deont., deve essere di tipo semplicemente conoscitivo, potendo il professionista provvedere alla sola indicazione delle attività prevalenti o del proprio curriculum, ma non deve essere mai né comparativa né autocelebrativa. (Rigetta il ricorso avverso la decisione C.d.O. di Firenze del 27 maggio 2009).


Cons. Naz. Forense 22-09-2012, n. 121


La pubblicità informativa, essendo consentita nei limiti fissati dal Codice Deontologico Forense, deve essere svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro propri di ogni pubblica manifestazione dell’avvocato ed in particolare di quelle manifestazioni dirette alla clientela reale o potenziale. (Rigetta il ricorso avverso la decisione C.d.O. di Brescia del 18 maggio 2009).


Cons. Naz. Forense 02-03-2012, n. 39


Il Codice deontologico forense, a seguito dell’entrata in vigore della normativa nota come “Bersani”, consente non una pubblicità indiscriminata (ed in particolare non comparativa ed elogiativa) ma la diffusione di specifiche informazioni sull’attività, anche sui prezzi, i contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione di compenso e della modalità del suo calcolo. La peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale. Ne consegue che il disvalore deontologico continua a risiedere tutto negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela, che non devono essere alcuno di quelli tipizzati in via esemplificativa nei canoni complementari dell’art. 19 c.d.f., non concretizzarsi nell’intermediazione di terzi (agenzie o procacciatori), né essere, più genericamente, “mezzi illeciti” o meglio (nella versione vigente, approvata il 14 dicembre 2006) che possano esplicarsi in “modi non conformi alla correttezza e decoro”. Come esplicazione del decoro e della dignità che la funzione sociale della professione impone, il dovere di riservatezza posto a carico dell’avvocato è dato a tutela dell’interesse pubblico in quanto anche la riservatezza nei rapporti fra cliente e professionista garantisce lo svolgersi dell’attività di assistenza e consulenza legale nell’ottica dell’attuazione dell’ordinamento. Pertanto, così come è inibito all’avvocato rivelare i nomi dei propri clienti (art. 17 CDF) non è per costui neppure possibile esporli in vetrina. (Rigetta il ricorso avverso la decisione del C.d.O. di Torino del 1 luglio 2009)


Cons. Naz. Forense 02-03-2012, n. 34


Le norme deontologiche relative alla pubblicità (art. 17 e 17 bis) devono essere lette ed interpretate nel quadro generale del contesto normativo in cui si sono inserite. Ne discende che la pubblicità informativa essendo consentita nei limiti fissati dal Codice Deontologico Forense, deve, dunque, essere svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro propri di ogni pubblica manifestazione dell’avvocato ed in particolare di quelle manifestazioni dirette alla clientela reale o potenziale. La pubblicità mediante la quale il professionista con il fine di condizionare la scelta dei potenziali clienti, e senza adeguati requisiti informativi, offra prestazioni professionali, vìola le prescrizioni normative, integrando il messaggio con modalità attrattive della clientela operate con mezzi suggestivi ed incompatibili con la dignità e con il decoro. In particolare, la proposta commerciale che offra servizi professionali a costi molto bassi lede il decoro della professione a prescindere dalla corrispondenza o meno alle indicazioni tariffarie, dovendosi considerare l’adeguatezza del compenso al valore e all’importanza della singola attività posta in essere. (Nel caso di specie, il CNF ha riscontrato nel messaggio pubblicitario sottoposto al suo giudizio una marcata natura commerciale, in quanto volto a persuadere il cliente ed eccedente l’ambito informativo previsto dalla norma deontologica, da ritenersi quindi accattivante, sia per la competitività sui prezzi, sia per la dimensione variabile dei caratteri). (Riforma parzialmente la decisione del C.d.O. di Monza del 18 gennaio 2010)


Cons. Naz. Forense 07-07-2011, n. 93


Configura impropria attività di captazione della clientela, come tale disciplinarmente rilevante, il messaggio pubblicitario il cui contenuto si presenti equivoco, suggestivo ed eccedente il carattere informativo consentito. (Nel caso di specie, le espressioni “L’angolo dei diritti” e “negozio”, utilizzate nel messaggio pubblicitario, sono state ritenute di natura prettamente commerciale, in quanto volte a persuadere il possibile cliente attraverso un motto pieno di capacità evocativa emozionale, eccedendo in tal modo l’ambito informativo razionale previsto dalla norma deontologica). Ancorché il Codice deontologico forense, lungi dal consentire una pubblicità indiscriminata, permetta la diffusione di specifiche informazioni sull’attività professionale al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza nella libertà di fissazione di compenso e della modalità del suo calcolo, tuttavia la peculiarità e la specificità della professione forense giustificano, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni derivanti dalla necessità di proteggere i beni della dignità e del decoro della professione, ed una tale verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale. La proposta commerciale che offra servizi professionali a costi predeterminati molto bassi lede il decoro della professione legale, a prescindere dalla corrispondenza con i minimi tariffari, dovendo piuttosto considerarsi l’adeguatezza del compenso al valore ed all’importanza della singola pratica trattata in quanto proporzionato all’attività svolta. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Varese, 15 dicembre 2009).


 Cons. Naz. Forense 21-04-2011, n. 56


L’art. 2 del d.l. 223/06, convertito in l. n. 248/06, abrogando le disposizioni che non consentivano la cd. pubblicità informativa delle attività professionali, non ha affatto abrogato l’art. 38 c. 1, r.d.l. n. 1578/33, il quale punisce comportamenti non conformi alla dignità ed al decoro professionale. Dovendosi pertanto interpretare alla luce di tale disposizione le norme di cui agli artt. 17 e 17-bis del codice deontologico, la pubblicità informativa deve essere consentita entro i limiti fissati dal c.d.f. e comunque svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro professionale. Viola le suddette prescrizioni la pubblicità mediante la quale il professionista, al fine esclusivo di condizionare la scelta da parte di potenziali clienti e senza adeguati requisiti informativi, offra ad essi consulenze medico-legali e prestazioni gratuite in caso di soccombenza, con rinuncia ad anticipi e prospettazione di vantaggi, integrando un tale messaggio una forma di attrazione di clientela operata con mezzi suggestivi e propri di una competitività sui prezzi incompatibili con la dignità e il decoro che debbono caratterizzare ogni pubblica manifestazione dell’avvocato e, soprattutto, quelle manifestazioni dirette ad una potenziale clientela, come tale sanzionabile in relazione al principio enunciato dal citato art. 38 l.p. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Napoli, 7 ottobre 2008).


Cons. Naz. Forense 21-12-2009, n. 183


Il Codice deontologico forense, a seguito dell’entrata in vigore della normativa nota come “Bersani”, consente non una pubblicità indiscriminata (ed in particolare non comparativa ed elogiativa) ma la diffusione di specifiche informazioni sull’attività, anche sui prezzi, i contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione di compenso e della modalità del suo calcolo. La peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale. Ne consegue che il disvalore deontologico continua a risiedere tutto negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela, che non devono essere alcuno di quelli tipizzati in via esemplificativa nei canoni complementari dell’art. 19 c.d.f., non concretizzarsi nell’intermediazione di terzi (agenzie o procacciatori), né essere, più genericamente, “mezzi illeciti” o meglio (nella versione vigente, approvata il 14 dicembre 2006) che possano esplicarsi in “modi non conformi alla correttezza e decoro”. (Nella specie, il CNF ha ritenuto eccedenti i messaggi veicolati attraverso la sigla “A.L.T. – Assistenza legale per tutti”, posta quale insegna dello studio legale con accesso diretto alla pubblica via, e l’offerta di “prima consulenza gratuita”). (Rigetta i ricorsi avverso decisione C.d.O. di Brescia, 7 luglio 2009).


Cons. Naz. Forense 19. 12. 2008, n. 169


Va riconosciuto carattere decettivo al messaggio pubblicitario utilizzato dal ricorrente che, pubblicizzando l’istituto del “gratuito patrocinio” da tempo abrogato ed accompagnando tale pubblicità a quella di un’attività di “recupero crediti senza anticipazioni”, si presta effettivamente ad ingenerare l’equivoco che la prestazione offerta possa, in concreto rivestire il carattere della gratuità, così assumendo un chiaro sapore accaparratorio di clientela certamente lesivo del prestigio e del decoro della classe forense. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Bergamo, 18 settembre 2007).


  


Cons. Naz. Forense 19-12-2008, n. 173


In tema di pubblicità informativa e di rapporti con gli organi di stampa, deve ritenersi ingiustamente diretta ad accaparrare clientela ed a gettare discredito sulla categoria forense la pubblicazione di notizie dirette a promuovere, attraverso una sorta di continua celebrazione del proprio ruolo dal chiaro sapore concorrenziale, la propria immagine professionale piuttosto che non l’esigenza dell’informazione. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Lucca, 12 dicembre 2007.


Cons. Naz. Forense 31-12-2007, n. 268


I superiori principi della dignità, del decoro e della lealtà, ai quali la professione legale deve ispirarsi anche nella comunicazione informativa lecita, costituiscono principi comportamentali che, nello specifico ambito della disciplina della concorrenza e della pubblicità, sono volti a garantire la tutela della collettività in un ambito caratterizzato dalle asimmetrie informative e nel quale risalta la primaria esigenza di contemperare l’interesse al libero dispiegamento delle dinamiche concorrenziali con l’interesse dalla protezione della fede pubblica e dei diritti fondamentali dei cittadini, quale è principalmente il diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto e garantito e, prima ancora come suo postulato, l’acquisizione della conoscenza e coscienza dei diritti. Viola gli artt. 17 e 19 c.d.f. l’avvocato che, con una comunicazione circolare, offra la disponibilità ad intraprendere coi destinatari una collaborazione professionale futura e prossima, con iniziale provvisorietà (a titolo di prova), nonché ad operare al domicilio dei clienti, assicurando serietà, professionalità e disponibilità anche nei costi, dovendo ravvisarsi l’illiceità del contegno dell’incolpato non nel fatto di avere diffuso notizie circa il complesso delle attività riferibili all’organizzazione del proprio studio, ma nel modo in cui l’attenzione dei destinatari del messaggio è stata catturata, sollecitata con prospettazioni captatorie, ritenuto di per sé lesivo del decoro della professione forense. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Monza, 3 dicembre 2001).


Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 219


Pone in essere un contegno disciplinarmente rilevante il professionista che, mediante il proprio sito web, prospetti fallacemente la possibilità di avvalersi di “particolari procedure” per “ottenere un divorzio consensuale in pochi mesi (6-7 mesi) anche senza che siano passati i tre anni dalla separazione e, perfino, senza una preventiva separazione e, quindi, arrivando subito al divorzio con un unico provvedimento”, senza specificare che tale possibilità consegue soltanto all’avvio di una procedura in un non meglio specificato paese estero, trattandosi di informazione professionale che non rispetta i limiti essenziali della veridicità e completezza ed assume anzi i caratteri della pubblicità decettiva, contraria come tale ai doveri di dignità e decoro che devono costantemente informare la condotta dell’avvocato. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Modena, 10 ottobre 2005).


 


PARERI CNF


Parere Consiglio nazionale forense 14-01-2011, n. 10


Il quesito riguarda la legittimità o meno, in riferimento alle previsioni di cui all’art. 17 bis del Codice Deontologico Forense, dell’utilizzo da parte di uno studio legale di un indirizzo internet del tipo “www.avvocati[città].it” o “www.avvocati[regione].it”. “La questione posta dall’Ordine attiene alla necessità di applicare le regole sulle informazioni professionali, dettate dagli artt. 17 e 17-bis c.d.f., al settore delle comunicazioni elettroniche e della rete internet in particolare. Questa Commissione ha da tempo indicato come internet sia uno strumento senz’altro idoneo all’effettuazione di comunicazioni al pubblico e financo alla trasmissione di consulenze o pareri (v. già parere 21 novembre 2001, quesito del COA di Forlì-Cesena). Peraltro, quando un avvocato cura e pubblica un sito internet, va precisato se si tratti di un sito di natura scientifica o culturale, o piuttosto lo stesso dia riferibile direttamente allo studio legale. Allo stesso modo, va evitata ogni informazione che risulti fuorviante, o decettiva, in merito alla natura o alle modalità di effettuazione delle prestazioni professionali offerte, o altrimenti descritte. In questo senso, giova richiamare il parere con cui si è stigmatizzato il contegno di colui che introduca elementi ambigui, o fuorvianti, che portino la clientela a non percepire l’appartenenza del sito ad uno specifico professionista legale, ad esempio tramite l’inserimento nel sito di contenuti culturali od informativi pubblicati a titolo gratuito, senza enunciare chiaramente la propria qualità di legale (cfr. parere 27 aprile 2005, n. 35). In altri termini, all’avvocato è evidentemente garantita sulla rete la più piena libertà di espressione e comunicazione, con l’eccezione di contegni che portino ad una commistione tra la qualità di avvocato ed altre attività, dando luogo, così, ad un’elusione del principio di correttezza dell’informazione, nonché alla violazione dei criteri di trasparenza e veridicità. Sulla base di quanto precede, vi è motivo di ritenere che l’utilizzo di un dominio del tipo “www.avvocati[città].it” oppure “www.avvocati[regione].it”, ometta di identificare il titolare dello studio legale curatore del sito medesimo senza alcuna apprezzabile motivazione. L’indicazione del cognome, o di altro elemento identificativo della persona o dello studio, rappresenterebbe invece una corretta informazione dell’utente fin dal primo momento, ossia da quando il frequentatore della rete decide di fare ingresso in quel sito. Il riferimento alla comunità locale degli avvocati, che pure sussiste in ciascuno dei richiami alla città o alla Regione, è equivoco, perché l’espressione “avvocati” seguita dal nome della città non può che logicamente riferirsi all’intera collettività e non ad un singolo studio legale. Utilizzare, pertanto, diciture quali quelle di cui al presente quesito può ingenerare nel pubblico il falso affidamento circa il fatto che, a quel determinato indirizzo, possano essere reperiti tutti gli avvocati della Città o della Regione, o, addirittura, quelli migliori, oppure quelli che, diversamente da altri, avrebbero titolo per fregiarsi di una sorta di capacità rappresentativa dell’intera comunità locale degli avvocati. Appare, pertanto, non conforme a criteri di trasparenza e veridicità l’utilizzo di domini del tipo “www.avvocati[città].it” oppure “www.avvocati[regione].it”, quando gli stessi rimandino solo ad uno o più iscritti nell’albo”.


 Parere Consiglio nazionale forense 29-01-2009, n. 3


L’Ordine chiede, anche al fine di assumere un contegno uniforme rispetto alla prassi di altri Consigli, se sia da considerarsi lecito il comportamento di un iscritto che invii una lettera, di contenuto informativo rispetto alla propria attività professionale, ad una serie di imprese potenziali clienti. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La questione, tra le più delicate che si pongono allo stato dell’attuale quadro normativo, non può risolversi solo attraverso una valutazione del mezzo che l’avvocato utilizza per dare notizie circa la propria attività. Anche la differenza tra lettere concepite per destinatari specifici e comunicazioni uniformi inviate a più soggetti indistintamente non è, in sé e per sé, dirimente. La questione è stata ampiamente disaminata nella recente sentenza di Questo Consiglio n. 268/2007, alle cui argomentazioni deve farsi senz’altro rinvio, proprio avendo riguardo al più ampio contesto nel quale il messaggio è collocato e, soprattutto, all’intento espresso con il messaggio informativo. Per giudicare della coerenza di una comunicazione con il codice deontologico sarà, pertanto necessaria una sua puntuale valutazione alla stregua degli artt. 17 e 17-bis dello stesso, norme oggetto di innovazione rispetto al passato ad opera delle delibere C.N.F. 27 gennaio 2006, 14 dicembre 2006 e 27 giugno 2008. Pertanto bisognerà verificare che la comunicazione del professionista sia conforme, nei modi e nei contenuti, ai principi di verità e correttezza, che non sia ingannevole, elogiativa o comparativa e che non contenga nominativi di clienti. Inoltre sarà oggetto di verifica la circostanza che l’informazione, nella forma e nelle modalità, rispetti la dignità ed il decoro della professione. Pertanto, in sintesi, il Consiglio dell’ordine circondariale dovrà prendere in esame i casi di messaggi informativi al pubblico non censurandoli per il solo fatto di essere rivolti ad una pluralità di destinatari sulla base di lettere impersonali o standard, bensì valutando che tali comunicazioni rispondano ad un intento autenticamente informativo e non captatorio e che modalità e contenuti siano conformi ai superiori interessi alla dignità della professione e all’affidamento del pubblico”.


 Parere Consiglio nazionale forense 27-04-2011, n. 49


Il quesito riguarda la legittimità o meno, in riferimento alle previsioni di cui agli articoli 17 e 17-bis del Codice Deontologico Forense, della frequentazione da parte di un Avvocato di social network (Facebook o Twitter) o community di video on line come Youtube, fornendo su tali reti informazioni della propria attività professionale. La questione posta dall’Ordine attiene alla necessità di applicare le regole sulle informazioni professionali, dettate dagli artt. 17 e 17-bis c.d.f., al settore delle comunicazioni elettroniche e della rete internet in particolare. Questa Commissione ha da tempo indicato come internet sia uno strumento senz’altro idoneo all’effettuazione di comunicazioni al pubblico e financo alla trasmissione di consulenze o pareri (v. già parere 21 novembre 2001, quesito del COA di Forlì-Cesena). Peraltro, quando un avvocato cura e pubblica un sito internet, va precisato se si tratti di un sito di natura scientifica o culturale, o piuttosto lo stesso sia riferibile direttamente allo studio legale. Allo stesso modo, va evitata ogni informazione che risulti fuorviante, o decettiva, in merito alla natura o alle modalità di effettuazione delle prestazioni professionali offerte, o altrimenti descritte. In questo senso, giova richiamare il parere con cui si è stigmatizzato il contegno di colui che introduca elementi ambigui, o fuorvianti, che portino la clientela a non percepire l’appartenenza del sito ad uno specifico professionista legale, ad esempio tramite l’inserimento nel sito di contenuti culturali od informativi pubblicati a titolo gratuito, senza enunciare chiaramente la propria qualità di legale (cfr. parere 27 aprile 2005, n. 35). In altri termini, all’avvocato è evidentemente garantita sulla rete la più piena libertà di espressione e comunicazione, con l’eccezione di contegni che portino ad un’elusione del principio di correttezza dell’informazione, nonché alla violazione dei criteri di trasparenza e veridicità. Ciò posto, in linea di principio va poi osservato che il rispetto dei predetti criteri è affidato dall’art. 17 del Codice Deontologico al controllo del competente Consiglio dell’Ordine che deve anche verificarne il contenuto affinché l’informazione sia conforme a verità e correttezza, non potendo altresì avere ad oggetto notizie riservate o coperte dal segreto professionale. L’informazione deve poi rispettare la dignità e il decoro della professione e non deve mai assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa o comparativa. Al riguardo, l’art. 17 bis del Codice Deontologico prevede una serie di adempimenti per l’avvocato che intenda dare informazioni sulla propria attività professionale (denominazione dello studio, Consiglio dell’Ordine presso cui è iscritto, la sede di esercizio con i relativi recapiti, gli eventuali titoli riconosciuti, ecc.) e prevede altresì che l’avvocato possa “utilizzare esclusivamente i siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, allo Studio Legale Associato o alla Società di Avvocati alla quale partecipa, previa comunicazione tempestiva al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto in cui è espressa”. In altri termini, pur nella libertà di informativa sulla propria attività professionale, le modalità e i contenuti della stessa devono essere aderenti a ben precisi requisiti deontologici, il cui rispetto, come già sopra si è osservato, è affidato al controllo del Consiglio dell’Ordine competente. Nel caso di specie, l’utilizzo di un social network come Facebook e Twitter, in cui il primo accesso è del tutto libero e che contemporaneamente dà la possibilità di consentire l’ulteriore accesso ai propri dati esclusivamente a discrezione del titolare del profilo, impedisce da un lato la conoscenza al COA della frequentazione da parte dell’avvocato, e dall’altra parte una possibilità di accedere al profilo in maniera non “filtrata” dallo stesso avvocato. D’altro canto, sarebbe impensabile che i Consigli dell’Ordine, soprattutto per quelli con elevatissimo numero di iscritti, in decine di migliaia, potessero effettuare continuamente controlli a tappeto per verificare se un iscritto, nell’utilizzo di social network – (nel caso di Youtube l’accesso è totalmente libero e privo di qualsiasi forma di iscrizione) – nel fornire informazioni sulla propria attività, si attenga a quei principi deontologici sopra richiamati. Anche perché, nel caso di Facebook e Twitter, potendo il titolare del profilo consentire l’accesso solo a persone di proprio gradimento (cd. “contatti” o “amicizie”), l’Ordine potrebbe non essere in grado di consultare le pagine sulle quali siano pubblicate informazioni che in qualche modo riguardino l’attività forense del soggetto iscritto al sito. Al contrario, non può dubitarsi che la pubblicazione di messaggi, informazioni o altri contenuti su pagine di tali networks che siano visibili a chiunque si connetta ad internet sia oggetto di verifica e vada trattata e giudicata alla stessa stregua di ogni altro sito web, anche curato direttamente dall’interessato. Un social network può essere utilizzato tanto per messaggi a carattere strettamente personale (e quindi insindacabili anche ove contengano riferimenti alla professione), quanto per informative volte alla conoscenza presso la clientela o alla promozione del “nome” dello studio legale (e come tali sottoposte alla disciplina e vigilanza deontologiche). Ciò che va distinto a fini deontologici non è quindi il mezzo in sé e per sé, bensì l’uso che ne viene fatto e la cerchia di destinatari che, volontariamente o meno, vengano a contatto con l’utente titolare del profilo personale online. Se l’avvocato utilizza il network per scopi di comunicazione professionale dovrà comunicare tale intendimento in via previa al Consiglio di appartenenza, come prescritto dal già citato art. 17-bis c.d.f. Ne consegue che, in mancanza di tale adempimento e valutate le circostanze concrete del caso, egli potrà essere sanzionato disciplinarmente dal Consiglio di appartenenza. Quest’ultimo sarà necessariamente chiamato, nell’esame di fattispecie di utilizzo di reti sociali, a valutare nella fattispecie concreta quegli elementi che ne siano tipici (come ad es. accessibilità del profilo, decoro della pagina personale, contatti palesemente volti all’acquisizione di clientela, sfruttamento della visibilità connessa al mezzo, etc.).


 Parere Consiglio nazionale forense 12-12-2007, n. 65


Il quesito riguarda la possibilità di svolgere pubblicità informativa (riguardante l’organizzazione dello studio, i servizi offerti, le materie trattate ed i prezzi di singole prestazioni) attraverso apposita stabile organizzazione, interna od esterna allo studio professionale, e la sua compatibilità con gli articoli 17 (informazioni sull’attività professionale), 17-bis (modalità d’informazione) e 19 (divieto di accaparramento di clientela) del codice deontologico. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “A seguito della revisione del codice deontologico forense varata il 14 dicembre 2006 in attuazione della legge 4 agosto 2006, n. 248, l’avvocato può dare informazione sulla propria attività professionale, con contenuto conforme a verità e correttezza e secondo forme e modalità che rispettino la dignità e il decoro della professione. Permane il divieto di ogni condotta diretta all’acquisizione di rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi alla correttezza e al decoro. Nella nuova formulazione degli artt. 17 e 17-bis del codice è scomparso il riferimento che la precedente regola comportamentale faceva a mezzi esclusivamente consentiti ed i valori della dignità e del decoro professionale diventano così il test di liceità della pubblicità informativa. Nei limiti delineati, l’esistenza di una specifica funzione informativa stabilmente strutturata all’interno od all’esterno dello studio professionale di per sé non viola la norma deontologica, a condizione che il contenuto dell’informazione comprenda le indicazioni obbligatorie (art. 17-bis, comma 1) senza eccedere rispetto alle facoltative (art. 17-bis, comma 2) e sempre che le modalità di esercizio di tale attività non risultino in concreto contrastanti con la dignità ed il decoro professionali. Ove l’attività della struttura dedicata dovesse poi trascendere la sfera dell’informazione per proporsi l’assunzione di rapporti clientelari potrebbe nel concreto risultare violato l’art. 19 del codice deontologico sia sotto il profilo dell’intermediazione sia per modalità (non altrimenti tipizzate dalla regola) che eventualmente fossero rilevate non conformi alla correttezza ed al decoro professionali”.


Parere Consiglio nazionale forense 12-12-2007, n. 61


Il quesito riguarda la possibilità di fornire a terzi, a fronte di istanze documentate, indirizzi di posta elettronica di avvocati iscritti nell’albo. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Il quesito riguarda la materia della privacy e non l’ordinamento forense. Lo stesso potrebbe utilmente essere quindi indirizzato all’Ufficio del Garante per la protezione dei dati personali. Tuttavia la questione sembra possa trovare piana soluzione nelle disposizioni vigenti. Premesso che gli indirizzi di posta elettronica recano dati di carattere personale da trattare nel rispetto della normativa in materia (articolo 4, comma 1 lettera c) del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il Garante già a partire dalla risposta a quesito 4 agosto 1997 (nel Bollettino n. 1 del maggio 1997, pag. 46, documento web n. 30843) riguardante la pubblicità dell’albo professionale dei dottori commercialisti, ha rilevato che anche quando le specifiche fonti normative non disciplinino espressamente le forme di consultazione dell’albo, tuttavia le comunicazioni di legge (nella specie, l’articolo 16, comma 4 della legge professionale forense – R.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578) rendono possibile una diffusa conoscibilità dell’albo presso le amministrazioni destinatarie e che inoltre “gli albi dei liberi professionisti sono ispirati per la loro stessa natura e funzione ad un regime di piena pubblicità, anche in funzione della tutela dei diritti di coloro che a vario titolo hanno rapporti con gli iscritti agli albi”, come conferma la stessa legge professionale, che prevede l’affissione dell’albo nelle sale d’udienza. In conformità a precedenti decisioni dell’Autorità ed al parere 29 maggio 2003 (nel Bollettino n. 39 del maggio 2003, documento web n. 29840), specificamente riguardante il fenomeno dello spamming, può prescindersi dall’informativa e dal consenso espresso dell’interessato quando il trattamento riguarda dati provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque, fermi restando i limiti e le modalità che le leggi, i regolamenti o la normativa comunitaria stabiliscono per la conoscibilità e pubblicità dei dati (articolo 24, comma 1 lettera c) del Codice). Nulla pertanto si oppone alla diffusione degli indirizzi di posta elettronica comunicati dagli interessati per la pubblicazione sull’albo tenuto dal Consiglio dell’ordine”.


Parere Consiglio nazionale forense 09-05-2007, n. 11


Il richiedente, un singolo iscritto, chiede delucidazioni circa la pubblicità informativa degli avvocati. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, in contrasto con il regolamento istitutivo della Commissione e con la prassi costante. Pertanto il quesito andrà sottoposto al Consiglio dell’Ordine competente, il quale, ove intendesse raccogliere l’avviso del Consiglio nazionale ai fini di una uniforme interpretazione, provvederà a sottoporre la questione in forma astratta e senza riferimenti nominativi.”