L’Avv. ……………………. chiede di conoscere a parere di questo Consiglio dell’Ordine: “Alla luce degli sviluppi sul tema in oggetto, quali limiti incontra lo svolgimento della professione forense nella forma del c.d. “negozio giuridico”, tenuto conto della diffusione nazionale di tale modalità e della necessità di garantire ai cittadini un alto livello delle prestazioni professionali, fatta salva la compatibilità con i principi deontologici del decoro, della dignità e della pubblicità cui deve essere improntata la professione forense”.


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Ai fini indicati, conviene muovere da una ricognizione dell’attualità e dell’utilità concreta della figura del negozio giuridico, sia pur rapida e sommaria, data la vastità concettuale e la centralità che la figura riveste per la scienza giuridica civilistica. È noto che nel negozio giuridico la dottrina classica ravvisa « […] un atto di  privata autonomia, indirizzata a uno scopo che l’ordinamento giuridico reputa meritevole di tutela.» (così, Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1986, 125). Da questo punto di vista il negozio giuridico trova nell’atto giuridico il proprio referente teorico-concettuale dal momento che «[…] per la produzione di effetti giuridici, è necessaria un’attività, un’azione materiale […]. La volontà è [..] determinante degli effetti: e qui sta la caratteristica propria del negozio. Non solo l’azione è voluta come negli atti giuridici in senso stretto, ma l’azione è espressione di una volontà diretta a uno scopo e come tale è giuridicamente rilevante» (Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 125). Nell’ambito della teoria del fatto e dell’atto giuridico, la costruzione concettuale del negozio giuridico è stata valutata come uno dei risultati più cospicui che la cultura tedesca di stampo pandettistico – notoriamente dotata del più alto grado di scientificità – ha consegnato al pensiero giuridico moderno. Si deve infatti a Carlo Federico Savigny il merito di avere individuato da un punto di vista teorico nel negozio giuridico una «[…] dichiarazione di volontà che non soltanto costituisce un atto libero, ma nel quale la volontà dell’autore è direttamente tesa alla costituzione o allo scioglimento di un rapporto giuridico […]» nel quale, dunque, tre sono « i momenti qualificanti tale concetto: la stessa volontà, la dichiarazione di volontà e la concordanza della volontà con la dichiarazione» (così, Ferri G.B., voce Negozio giuridico, in Digesto delle discipline privatistiche, sez. civ., XII, Torino, 1995, 62). Si deve probabilmente ad uno dei più autorevoli pandettisti – Gustavo Hugo – l’introduzione dell’espressione Rechtsgeschäft nel lessico giuridico ottocentesco, coerentemente con l’idea che «la formazione dei concetti giuridici costituisce il dovere più nobile della scienza» (cfr., Manigk, Il concetto di negozio giuridico, tradotto in Rass. Dir. civ., 2011, 340 e 341) Come è facile intuire, sul tema del negozio giuridico si è misurata, sulla scorta della cultura tedesca, la migliore civilistica italiana, donde la produzione scientifica in tema di negozio è immensa. È noto, infatti, come il concetto di negozio giuridico  «[…] sia sorto e sia stato utilizzato dai giuristi per tenere insieme fenomeni della realtà considerati rilevanti dall’ordinamento giuridico, come una sorta di species del più ampio concetto degli atti, insieme a questi ultimi compresa nel genus ancora più ampio dei fatti giuridici» (così, Macario, voce Negozio giuridico, in Il Diritto. Enciclopedia giuridica , 10, Il Sole 24 Ore, 2007, 4).


Per fatto giuridico si intende «ogni accadimento, naturale o umano, al verificarsi del quale l’ordinamento giuridico ricollega un qualsiasi effetto giuridico, costitutivo o modificativo o estintivo di rapporti giuridici» (così, Galgano, Diritto civile e commerciale, I, Padova, 1990, 35). Il fatto giuridico umano si caratterizza, poi, per la circostanza che «[…] la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto giuridico si produce solo come effetto di un consapevole e volontario comportamento dell’uomo» (così, Galgano, Diritto civile e commerciale, cit., p. 36). All’interno del fatto giuridico umano, la sottocategoria dell’atto giuridico si caratterizza per essere un fatto volontario dell’uomo, lecito o illecito, nel quale l’effetto giuridico si ricollega non ad un semplice accadimento materiale, ma all’ulteriore presupposto della volontarietà dell’accadimento; qui, dunque, l’effetto giuridico è la diretta conseguenza di un consapevole e volontario comportamento dell’uomo. Fra gli atti giuridici leciti, poi, si è soliti distinguere le dichiarazioni di scienza (ad esempio la quietanza di pagamento, la confessione, ecc.), le partecipazioni e comunicazioni (ad esempio le notificazioni, le denunce, le diffide, ecc.) e, soprattutto, gli atti e le dichiarazioni di volontà, intesi come quei fatti umani « […] che producono effetti giuridici solo in quanto questi effetti siano voluti» (così, Galgano, Diritto civile e commerciale, I, Padova, 1990, 39).


Nell’ambito dell’atto giuridico, la sottocategoria del negozio giuridico si caratterizza per il fondamentale ruolo che gioca la volontà dell’uomo, dal momento che l’effetto giuridico non è dal diritto ricollegato alla semplice volontarietà del comportamento umano, ma all’ulteriore e specifico elemento della volontà degli effetti. Perciò, mentre l’atto giuridico produce gli effetti che il diritto gli ricollega purché atto volontario, indipendentemente dalla circostanza che l’autore dell’atto abbia voluto o meno anche gli effetti, il negozio giuridico, invece, non produce effetti se non si accerta che il suo autore li abbia voluti. Esemplare, in tal senso l’affermazione per la quale requisito del negozio giuridico è «la volontà del soggetto agente diretta agli effetti giuridici dell’atto. Soltanto qualora sussista questa volontà dell’effetto, l’atto serve evidentemente all’autonomia privata di chi agisce» (così Manigk, Il concetto di negozio giuridico, cit., p. 343).  


In tal senso, dunque, la caratteristica precipua del negozio giuridico sta nel fatto di essere «una manifestazione o dichiarazione di volontà, esplicita o risultante da un comportamento concludente, diretta a produrre effetti giuridici, che l’ordinamento realizza “in quanto voluti”» (così Galgano, Diritto civile e commerciale, cit., p. 41) Lo scopo della teoria del negozio giuridico era quella di riportare, attraverso una serie di astrazioni concettuali sempre più sofisticate, ad unità concettuale una vasta area di fenomeni – dal contratto al matrimonio, dal testamento alla deliberazione di società, dal riconoscimento di figlio naturale all’atto di fondazione, alla procura, alle promesse unilaterali, ecc. – la cui produzione di effetti giuridici si ricollega ad un atto di volontà. Di qui, tutta una serie di classificazioni e distinzioni fra negozi giuridici unilaterali, bilaterali, plurilaterali; fra negozi giuridici tra vivi ed a causa di morte; fra negozi giuridici causali ed astratti (processualmente astratti, come la promessa di pagamento e la ricognizione di debito; materialmente astratti, come i titoli di credito cambiari); fra negozi giuridici dispositivi (cioè, costitutivi, modificativi od estintivi di rapporti giuridici) e dichiarativi (che accertano un preesistente rapporto giuridico, come le promesse unilaterali o il negozio atipico di accertamento, come tali aventi l’efficacia di invertire l’onere della prova circa la sussistenza del rapporto fondamentale); fra negozi giuridici di organizzazione unilaterali (come ad esempio l’atto unilaterale di fondazione) e plurilaterali (ad esempio l’associazione, la società, il consorzio), e così via (cfr. Galgano, Diritto civile e commerciale, cit., p. 42). Secondo una generale tendenza espansiva, propria delle categorie civilistiche, i concetti del fatto, dell’atto e del negozio giuridico hanno varcato, già nell’Ottocento, i confini naturali del diritto civile, penetrando nelle dottrine del diritto commerciale, del diritto amministrativo, del diritto processuale; basti riflettere, in tal senso, alla costruzione dell’atto amministrativo, operata dalla dottrina gius-pubblicistica, o alla creazione da parte dei processualisti della figura dell’atto processuale, proprio sul modello del negozio giuridico.


La consacrazione del negozio giuridico come categoria legislativa è avvenuta – e non poteva essere altrimenti – in Germania; qui, la Sezione 3 della Parte Generale del BGB (Bürgerliches Gesetzbuch) del 1900, ha dedicato i paragrafi 104-144 proprio alla figura generale del negozio giuridico, ponendolo così al centro del sistema di diritto civile codificato.


La fortuna del concetto di negozio giuridico è attestata poi dalla circostanza che benché il codice civile italiano del 1942 non abbia seguito il modello del BGB (Bürgerliches Gesetzbuch) del 1900, e, dunque, il negozio giuridico non sia divenuto nel nostro ordinamento una categoria legislativa, esso, ciononostante, è stato al centro della riflessione della nostra civilistica, assumendo una posizione di preminenza concettuale nella sistemazione scientifica del diritto privato. Pur in mancanza di una esplicita norma legittimante, il negozio giuridico è rimasto a lungo nello strumentario concettuale del ragionamento dei nostri giuristi teorici e pratici, assumendo la veste di un «superconcetto o una supernorma, che la manualistica colloca nella “parte generale”, mentre relega fra le “parti speciali” il contratto, il matrimonio, il testamento, in posizione subordinata rispetto al negozio giuridico […] Il superconcetto viene sovrapposto alle norme del codice civile, che sono riconsiderate alla luce della teoria del negozio giuridico» (così, Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, Bologna, 2010, 135).  


Al di là della costruzione teorico-concettuale del fenomeno negoziale, ciò che va messo subito in evidenza è che quella di negozio giuridico è una categoria del pensiero giuridico creata e sviluppata fondamentalmente dai giuristi teorici, come tale priva di una immediata ricaduta tanto nel linguaggio del legislatore, quanto nelle argomentazioni contenute nelle decisioni e negli atti difensivi di giudici ed avvocati. Questa precisazione ci avverte sulla circostanza che la figura del negozio giuridico ha svolto, soprattutto in passato, un servizio più alla scienza giuridica teorica che al diritto applicato, svolgendo una funzione teorico-sistematica, piuttosto che pratica.


Questo spiega la circostanza per la quale il concetto di negozio giuridico è stato sottoposto, a partire dalla seconda metà del Novecento, a severa critica. La dottrina civilistica più attenta al concreto dispiegarsi socio-economico dei fenomeni giuridici intraprese una vera e propria opera di “demistificazione” del negozio giuridico e delle categorie giuridiche tradizionali in generale. Si disse che «il problema fondamentale non sta nel mettere in discussione il concetto di negozio giuridico come categoria descrittiva e conoscitiva; sta nel metterlo in discussione come categoria operativa, impiegata per argomentare specifiche conclusioni di diritto, e non solo per descrivere in forma breviloquente conclusioni di diritto già da altra fonte ricavate» (così, Galgano, Teorie e ideologie del negozio giuridico, in Categorie giuridiche e rapporti sociali. Il problema del negozio giuridico, a cura di Salvi, Feltrinelli, 1978, 66 ). La dottrina cominciò, così, a riconsiderare criticamente le funzioni che avevano giustificato la creazione della teoria del negozio giuridico.


In questa prospettiva si è detto che se la funzione pratica del negozio giuridico «era quella di creare uno  strumento concettuale capace di razionalizzare e semplificare il ragionamento e il discorso giuridico, [..] che [..] si fonda sull’individuazione – mediante un processo di generalizzazione e astrazione – di caratteristiche, problemi e regole comuni a una pluralità di atti diversi»  (così, Roppo, Istituzioni di diritto privato, Bologna, 2008, 540) è, però, anche vero «che proprio la generalità della categoria determina eccessiva genericità e astrattezza dei suoi contenuti, scarsa aderenza ai problemi specifici e agli interessi concreti che si manifestano in relazione ai vari atti dell’autonomia privata. Con la pretesa di considerare e trattare in modo unitario atti così diversi  (come vendite e matrimoni, cambiali e testamenti, donazioni e adozioni, accettazioni di eredità e costituzioni di società commerciali, ecc.) si rischia di smarrire quell’aderenza alla specifica realtà socio-economica, che è necessaria per individuare soluzioni giuridiche adeguate» (così, Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, diretto da Iudica e Zatti, Milano, 2001, 59). In questo senso «Non esiste, nella realtà empirica, qualcosa di percepibile come un negozio giuridico. […] ciò che nella realtà empirica si percepisce sono i comportamenti corrispondenti: lo scambiare cose contro il pagamento di un prezzo; il donare cose per liberalità; il concedere il godimento di un bene contro il pagamento di un corrispettivo» (così Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, cit., p. 126). In verità, la critica alla categoria del negozio giuridico ha riguardato anche la sua funzione ideologica dal momento che esso fu indissolubilmente legato al ruolo determinante della volontà individuale e come tale figlio del liberalismo imperante fra il Settecento e l’Ottocento, caratterizzato  da una accentuata esaltazione della libertà dell’individuo (cfr., Roppo, Istituzioni di diritto privato, cit., p. 541). Da questo punto di vista si è sostenuto che « Il processo di astrazione, dal quale nasce la categoria, si inquadra nel più vasto processo che attraverso l’astrazione mira all’eguagliamento formale del diritto […] l’obiettivo è di realizzare un diritto uguale per tutti i cittadini, senza distinzione di classe; un diritto pensato in funzione di una “unità del soggetto giuridico”. […] Il coordinamento degli interessi diversi o contrapposti è così attuato grazie a una categoria giuridica unitaria, all’interno delle quali si dissolvono le distinzioni sociali, e una categoria a tal punto astratta da realizzare il massimo grado di uguaglianza giuridica fra gli individui» (così Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, cit., p. 132-133). È chiaro, dunque, che il negozio giuridico assunse nel pensiero dei suoi creatori il valore non di mero concetto logico, bensì di concetto ideologico per la ragione « […] che l’esaltazione ottocentesca dell’assoluta libertà individuale non è più concepibile negli stressi termini in un’epoca come la nostra, in cui la libertà e l’autonomia dei privati subiscono controlli e restrizioni crescenti, in nome dell’interesse generale e dei valori di giustizia sociale e eguaglianza sostanziale delle persone» per cui «anche là dove continua a darsi spazio alla libertà e all’autonomia dei privati, non si pensa più che l’unico modo per rispettarne e valorizzarne le scelte autonome consista nel dare peso esclusivo alla “volontà”, intesa nel senso soggettivo-psicologico in cui la intendeva la teoria del negozio giuridico (“dogma della volontà”): conseguenza di [un] processo di oggettivazione degli atti di autonomia» (così, Roppo, Istituzioni di diritto privato, cit., p. 541-542). In definitiva, «l’idea di negozio giuridico si trova così a occupare uno spazio severamente ridimensionato nell’odierna cultura del diritto privato» (così, Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, diretto da Iudica e Zatti, cit., p. 69). Inevitabilmente, oggi, il concetto di negozio giuridico «oramai sopravvive soltanto per una sorta di misticismo dottrinario» e il suo declino segna «la fine di un primato storico e ideologico» (così, Irti, La regola e l’eccezione. Resoconto sulla dottrina italiana del diritto privato del secolo XX, in Diritto e società, 1997, 448). Il negozio giuridico non è più, dunque, né una categoria logica, né una categoria ideologica, ma esso «sopravvive come semplice categoria storiografica: strumento utile per ricostruire una fase della dottrina giuridica italiana» (così, Irti, Il negozio giuridico come categoria storiografica, in Id., Letture bettiane sul negozio giuridico, Milano, 1991, 66). La metamorfosi del negozio giuridico è registrata anche dalla manualistica destinata all’insegnamento universitario. I manuali tradizionali come quello scritto da Andrea Torrente, da Alberto Trabucchi o da Domenico Barbero avevano educato generazioni di avvocati, magistrati e notai all’ombra del solido concetto di negozio giuridico, indispensabile chiave di accesso alla conoscenza del diritto privato e delle scienze giuridiche in generale. Dall’identica convinzione erano nate le Dottrine generali del diritto civile di Francesco Santoro Passarelli, dalla cui definizione di negozio giuridico abbiamo preso le mosse. Nel solco della forza creatrice della volontà umana si erano sviluppate le classiche monografie sul negozio giuridico di Emilio Betti, Giuseppe Stolfi, Luigi Cariota Ferrara, Francesco Calasso, Renato Scognamiglio, fino a quella più vicina di Giovanni Battista Ferri. Sennonché, nel 2007 Piero Schelesinger nel dettare la prefazione alla diciottesima edizione del Manuale di diritto privato ideata da Andrea Torrente e da lui costantemente aggiornata ha modo di precisare che «La presente edizione, tuttavia, non si arresta all’esposizione del nuovo materiale normativo. Si è preso atto che il sistema di diritto civile è mutato, progressivamente, ma inesorabilmente, e che perciò talune scelte di impostazione che avevano per anni  connotato il Manuale non erano più attuali e dovevano essere rimeditate. In particolare è apparso necessario un ripensamento del ruolo centrale che l’impianto del Manuale  aveva per tradizione concesso alla figura e alla disciplina del negozio giuridico […]. Si è perciò, in una prospettiva più moderna, ritenuto preferibile restituire centralità e pieno risalto  alla disciplina del contratto, eliminando l’estesa esposizione di una disciplina comune ai vari fenomeni negoziali che connotava le precedenti edizioni dell’opera».


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La critica al concetto di negozio giuridico si è spinta fino a raggiungere tratti di un disincantato segno dei tempi. Se vogliamo, tempi duri per il negozio giuridico e per il livello e le condizioni in cui oggi viene svolta la professione forense. Il disincanto appena ricordato può essere – ancora una volta – colto agevolmente nelle parole del celeberrimo Maestro bolognese ai cui scritti abbiamo, con insistenza, fatto riferimento in queste note. Ebbene, scrive Francesco Galgano: «La morte che ora narro non è, come nel celebre romanzo, la dipartita di un essere umano, bensì la morte di un concetto, ossia del concetto di negozio giuridico […]. Si è trattato, proprio come nel romanzo di Gabriel Garcìa Màrquez, di una morte annunciata […]. Nel lessico corrente la parola “negozio” ha perso il sopra ricordato significato originario del latino negotium, equivalente ad affare […]». «Oggi» – prosegue il Prof. Galgano con la consueta finissima e corrosiva ironia – «negozio equivale a bottega, locale di vendita al pubblico; corrisponde, per dirla in inglese, a store, shop. Perciò, non può stupire che negozio giuridico, morto nel lessico giuridico, si reincarni nel lessico corrente» (così, Galgano, Cronaca di una morte annunciata (e di una inattesa reincarnazione), in Contratto e impresa, 2008, 259-260). La reincarnazione di cui parlò qualche anno fa il Prof. Galgano è un “negozio giuridico” aperto a Genova, una «[…] bottega in cui si offrono pareri legali».


 


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Ove l’Avv. ……………….. alluda nella sua richiesta a questo tipo di negozio giuridico icasticamente descritto dal Prof. Galgano, occorre ricordare che su tale tipo di “negozio giuridico” ha avuto modo di esprimersi anche il C.N.F. con Parere n. 46 del 12.12.2007 (allegato 1).


In verità la questione del “negozio giuridico” nel senso di bottega legale è al centro di dispute fra avvocati e Consigli dell’Ordine. Non è un caso che il C.N.F. , oltre al ricordato Parere n. 46/2007, ha avuto modo di occuparsi della questione nella Decisione del 21.12.2009 n. 183, nella Decisione 7.7.2011, n. 93, nella Decisione 2.3.2012, n. 34 e nella Decisione 2.3.2012, n. 39. A queste decisioni hanno fatto seguito alcune pronunce della Corte di Cassazione, in particolare Cass. s.u. 18.12.2010, n. 23287, e la recentissima Cass. s.u. 10.08.2012, n. 14368.


Nella Decisione 21.12.2009, n. 183, (allegato 2) il C.N.F., ha statuito che:


Il Codice deontologico forense, a seguito dell’entrata in vigore della normativa nota come “Bersani”, consente non una pubblicità indiscriminata (ed in particolare non comparativa ed elogiativa) ma la diffusione di specifiche informazioni sull’attività, anche sui prezzi, i contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione di compenso e della modalità del suo calcolo. La peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale. Ne consegue che il disvalore deontologico continua a risiedere tutto negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela, che non devono essere alcuno di quelli tipizzati in via esemplificativa nei canoni complementari dell’art. 19 c.d.f., non concretizzarsi nell’intermediazione di terzi (agenzie o procacciatori), né essere, più genericamente, “mezzi illeciti” o meglio (nella versione vigente, approvata il 14 dicembre 2006) che possano esplicarsi in “modi non conformi alla correttezza e decoro”. (Nella specie, il CNF ha ritenuto eccedenti i messaggi veicolati attraverso la sigla “A.L.T. – Assistenza legale per tutti”, posta quale insegna dello studio legale con accesso diretto alla pubblica via, e l’offerta di “prima consulenza gratuita”). (Rigetta i ricorsi avverso decisione C.d.O. di Brescia, 7 luglio 2009).


Nella Decisione 7.7.2011 n. 93 (allegato 3) il C.N.F. ha statuito che:


Configura impropria attività di captazione della clientela, come tale disciplinarmente rilevante, il messaggio pubblicitario il cui contenuto si presenti equivoco, suggestivo ed eccedente il carattere informativo consentito. (Nel caso di specie, le espressioni “L’angolo dei diritti” e “negozio”, utilizzate nel messaggio pubblicitario, sono state ritenute di natura prettamente commerciale, in quanto volte a persuadere il possibile cliente attraverso un motto pieno di capacità evocativa emozionale, eccedendo in tal modo l’ambito informativo razionale previsto dalla norma deontologica). Ancorché il Codice deontologico forense, lungi dal consentire una pubblicità indiscriminata, permetta la diffusione di specifiche informazioni sull’attività professionale al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza nella libertà di fissazione di compenso e della modalità del suo calcolo, tuttavia la peculiarità e la specificità della professione forense giustificano, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni derivanti dalla necessità di proteggere i beni della dignità e del decoro della professione, ed una tale verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale. La proposta commerciale che offra servizi professionali a costi predeterminati molto bassi lede il decoro della professione legale, a prescindere dalla corrispondenza con i minimi tariffari, dovendo piuttosto considerarsi l’adeguatezza del compenso al valore ed all’importanza della singola pratica trattata in quanto proporzionato all’attività svolta. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Varese, 15 dicembre 2009).


Nella Decisione 2.3.2012 n. 34 (allegato 4) il C.N.F., ha statuito che:


La delibera di archiviazione di “pratica disciplinare” per “non essere emersi elementi di rilievo deontologico”, non può assumere il rilievo di precedente giudicato, e tanto dal momento che non è mai venuto ad esistenza un vero e proprio procedimento. L’ipotesi di bis in idem può invocarsi solo in presenza di un precedente giudizio, in quanto non si può essere giudicati due volte per un medesimo fatto, seppur diversamente qualificato. La decisione deve però giungere al termine o nel corso di un regolare giudizio precedentemente insorto, ciò vuol dire che ove non ci sia stato un vero e proprio giudizio non può sussistere bis in idem. Le norme deontologiche relative alla pubblicità (art. 17 e 17 bis) devono essere lette ed interpretate nel quadro generale del contesto normativo in cui si sono inserite. Ne discende che la pubblicità informativa essendo consentita nei limiti fissati dal Codice Deontologico Forense, deve, dunque, essere svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro propri di ogni pubblica manifestazione dell’avvocato ed in particolare di quelle manifestazioni dirette alla clientela reale o potenziale. La pubblicità mediante la quale il professionista con il fine di condizionare la scelta dei potenziali clienti, e senza adeguati requisiti informativi, offra prestazioni professionali, vìola le prescrizioni normative, integrando il messaggio con modalità attrattive della clientela operate con mezzi suggestivi ed incompatibili con la dignità e con il decoro. In particolare, la proposta commerciale che offra servizi professionali a costi molto bassi lede il decoro della professione a prescindere dalla corrispondenza o meno alle indicazioni tariffarie, dovendosi considerare l’adeguatezza del compenso al valore e all’importanza della singola attività posta in essere. (Nel caso di specie, il CNF ha riscontrato nel messaggio pubblicitario sottoposto al suo giudizio una marcata natura commerciale, in quanto volto a persuadere il cliente ed eccedente l’ambito informativo previsto dalla norma deontologica, da ritenersi quindi accattivante, sia per la competitività sui prezzi, sia per la dimensione variabile dei caratteri). (Riforma parzialmente la decisione del C.d.O. di Monza del 18 gennaio 2010)


Nella Decisione 2.3.2012 n. 39 (allegato 5) il C.N.F. ha statuito che:


Il Codice deontologico forense, a seguito dell’entrata in vigore della normativa nota come “Bersani”, consente non una pubblicità indiscriminata (ed in particolare non comparativa ed elogiativa) ma la diffusione di specifiche informazioni sull’attività, anche sui prezzi, i contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione di compenso e della modalità del suo calcolo. La peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale. Ne consegue che il disvalore deontologico continua a risiedere tutto negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela, che non devono essere alcuno di quelli tipizzati in via esemplificativa nei canoni complementari dell’art. 19 c.d.f., non concretizzarsi nell’intermediazione di terzi (agenzie o procacciatori), né essere, più genericamente, “mezzi illeciti” o meglio (nella versione vigente, approvata il 14 dicembre 2006) che possano esplicarsi in “modi non conformi alla correttezza e decoro”. Come esplicazione del decoro e della dignità che la funzione sociale della professione impone, il dovere di riservatezza posto a carico dell’avvocato è dato a tutela dell’interesse pubblico in quanto anche la riservatezza nei rapporti fra cliente e professionista garantisce lo svolgersi dell’attività di assistenza e consulenza legale nell’ottica dell’attuazione dell’ordinamento. Pertanto, così come è inibito all’avvocato rivelare i nomi dei propri clienti (art. 17 CDF) non è per costui neppure possibile esporli in vetrina. (Rigetta il ricorso avverso la decisione del C.d.O. di Torino del 1 luglio 2009)


La Suprema Corte a sezioni unite con sentenza 18.12.2010, n. 23287 (allegato 6), ha confermato quanto deciso dal C.N.F. con Decisione 21.12.2009, n. 183, mentre la recentissima Cass. s.u. 10.08.2012, n. 14368 (all. 7) ha confermato quanto deciso dal C.N.F. con Decisione 7.7.2011, n. 93.


Alla luce della citata giurisprudenza disciplinare si può, dunque ritenere che l’apertura di un “negozio giuridico” nel senso di bottega legale non sia in sé contrastante con la disciplina deontologica dettata per la professione di avvocato, a condizione che venga tutelata la riservatezza della clientela e la dignità che necessariamente deve circondare l’esercizio di una professione delicata come quella dell’avvocato, diretta alla tutela dei diritti dei cittadini. Dignità che si estende, com’è facile intuire, anche ai luoghi nei quali l’esercizio professionale viene attuato. Sotto il primo profilo, il C.N.F. ritiene che la tutela della riservatezza della clientela di un “negozio giuridico” debba essere assicurata attraverso l’utilizzazione di vetrine opportunamente oscurate; sotto il secondo profilo, il rispetto della dignità dell’avvocato impone che il luogo in cui l’attività professionale viene esercitata sia caratterizzato da sobrietà, con esclusione, dunque, di vetrine eccessivamente vistose, sproporzionate o di insegne o diciture dirette a captare clientela, ecc. 


In punto di pubblicità, poi, il C.N.F. precisa che la diffusione di informazioni inerenti l’attività professionale dell’avvocato – ad es. prezzi, modalità, contenuti e condizioni di offerta dei servizi professionali – devono essere dirette ad orientare le scelte della clientela che chiede assistenza legale. Il professionista non può invece utilizzare qualsiasi suggestione, anche comparativa ed elogiativa, propria invece dello strumento pubblicitario nelle attività commerciali.


Questo orientamento sembra confermato dall’art. 4, comma 2°, del D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, recante la riforma degli ordinamenti professionali, laddove si specifica che «La pubblicità informativa di cui al comma 1 dev’essere funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l’obbligo del segreto professionale e non dev’essere equivoca, ingannevole o denigratoria»; come tale essa, quindi, deve essere diretta semplicemente a fornire dati effettivi e concreti, non certo ad “affabulare” il cliente per accaparrarselo, comportamento espressamente sanzionato dall’art. 19 del codice deontologico forense.


Ora, da quanto detto appare logico ritenere che il rispetto della riservatezza della clientela e della dignità dell’avvocato e la correttezza dell’esercizio professionale, con tutta evidenza, assumono la natura di vere e proprie clausole generali. A tal proposito, la dottrina civilistica pacificamente attribuisce alle clausole generali «[…] il compito di realizzare una funzione “omeostatica”, cioè una funzione di progressivo e pacifico adattamento del diritto applicato alle esigenze di un continuo mutamento.» (così, Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Rivista critica del diritto privato, 2011, 346). Tecnicamente, poi, la clausola generale si atteggia – seconda la definizione datane di recente da un alto Magistrato della Suprema Corte, attentissimo studioso del fenomeno – come «[…] una disposizione precettiva […] formulata attraverso espressioni linguistiche indeterminate, sì da esservi implicito il richiamo a regole della morale o del costume oppure proprie di determinate cerchie sociali, o discipline, o arti o professioni.» (così, F. Roselli, Le clausole generali,oggi, in Diritto romano attuale, 2003, 37). Ne discende, dunque che «La clausola generale diviene, in questa prospettiva, un concetto idealtipico, atto a designare tutti i testi normativi contenenti espressioni ampie e non precisamente determinate; cioè una entità dai confini fluidi, se pur riconoscibile con criteri socioculturali e storici. È questo oggi il significato dell’espressione, nell’uso corrente dei giuristi italiani.» (cfr. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Rivista critica del diritto privato, 2011, 348). L’indeterminatezza di senso che caratterizza le clausole generali richiede, per tanto, un «[…] intervento del giudice nel completamento della fattispecie legale.» (cfr. Gentili, Prefazione a Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010, XIV).


Come tali, le clausole generali proprio perché devono essere riempite di senso “con criteri socioculturali e storici”, la valutazione che il giudice deve compiere sarà sempre una valutazione effettuata sulla base di parametri socioculturali “storicamente condizionati”. In questo senso, la valutazione giudiziale di una fattispecie alla luce di clausole generali può essere compiuta solo con esplicito riferimento a fatti concretamente verificatisi nella realtà sociale e non con riguardo a fatti, per così dire, “futuri”.


In questa prospettiva, se le norme deontologiche che hanno a cuore la tutela della riservatezza della clientela e la dignità e la correttezza professionale dell’avvocato assurgono al rango di clausole generali, esse, così come accade per tutte le clausole generali, vedono attribuito al Giudice disciplinare (fino ad oggi Consigli dell’Ordine e C.N.F.) – il compito di attribuzione di senso e di significato concreto alle medesime.


Parimenti, se il riempimento di senso delle clausole generali, per la concreta decisione da parte del giudice, è effettuato alla luce di criteri socioculturali “storicamente” condizionati, appare logico ritenere che anche il giudice della deontologia non può che essere chiamato a riempire di senso le clausole generali recate da norme deontologiche solo con riferimento a fatti concreti, non a fatti “futuri” o a semplici aspettative, e con l’impiego di parametri valutativi coerenti al tempo in cui i fatti si verificano. Tanto più in un periodo storico, come quello attuale, caratterizzato da repentini sconvolgimenti dei principi consolidati, stratificatisi nel tempo. Non è un caso che, come ha ricordato l’Avv. Remo Danovi nel recente incontro a Trani del 19 giugno 2012, la norma deontologica in materia di “informazioni sull’attività professionale”, contenuta oggi negli artt. 17 e 17 bis del codice deontologico, è stata quella maggiormente rivisitata dal legislatore deontologico, subendo ben sette modifiche dal 1997 ad oggi. 


A tal proposito la richiesta dell’Avv. …………………… sembra formulata come richiesta di valutazione preventiva di un fatto – l’apertura di un “negozio giuridico” – alla stregua delle norme deontologiche, cioè “fatta salva la compatibilità con i principi deontologici del decoro, della dignità e della pubblicità cui deve essere improntata la professione forense”.


Ma, come ampiamente dimostrato, una valutazione relativa al rispetto della riservatezza della clientela, della dignità e della correttezza dell’avvocato, ed in genere dei principi deontologici che connotano la professione forense, non può che seguire, non certo precedere, una qualsiasi condotta dell’avvocato – nella specie, l’effettiva apertura di un “negozio giuridico” –  così come vorrebbe l’Avv. ………………….. Peraltro, in questo quadro ricostruttivo, in cui la professione forense appare in perenne bilico tra riforme attuate e riforme attese, un giudizio preventivo del Consiglio dell’Ordine di Trani sull’eventuale “negozio giuridico” che l’Avv. …………………………vorrebbe aprire, alla luce dei principi deontologici ricevuti, in quanto clausole generali, appare impossibile oltre che inopportuno, per tutti i motivi espressi dal CNF nel richiamato parere n. 46/2007 (all. 1):


 “ … Per regolamento e per proprio costante orientamento, poi, questa Commissione si è sempre astenuta dal pronunciarsi su casi specifici come quello in oggetto, che costituiscono l’ambito tipico della potestà disciplinare dei Consigli dell’Ordine, onde evitare sovrapposizioni e contrasti con l’esercizio della funzione di giudice di secondo grado che il Consiglio nazionale detiene in materia.


 Il caso descritto potrebbe in ipotesi dar luogo un procedimento disciplinare e, dunque, essere suscettibile di giungere alla cognizione del C.N.F. in sede di impugnazione avverso l’eventuale provvedimento dell’Ordine locale“.


Va precisato quindi che il Consiglio dell’Ordine, stante l’estrema delicatezza della materia, non ha inteso sottrarsi alla encomiabile richiesta di un giovane Collega di conoscere i principi e i limiti inderogabili cui attenersi nell’esercizio della professione con modalità innovative. Ove però la richiesta di parere avanzata dall’Avv. …………….. fosse intesa invece come irrituale richiesta autorizzatoria preventiva rivolta all’organo che, almeno fino ad oggi, è titolare del potere disciplinare nei confronti dei propri iscritti, e quindi competente a sanzionarne fatti e comportamenti specifici, la richiesta sarebbe invece irricevibile.


Si allegano:


1)- Parere CNF n. 46 del 12.12.2007;


2)- Decisione CNF del 21.12.2009 n. 183;


3)- Decisione CNF del 7.7.2011, n. 93;


4)- Decisione CNF del 2.3.2012, n. 34;


5)- Decisione CNF del 2.3.2012, n. 39;


6)- Cassazione Sezioni Unite 18.12.2010 n. 23287;


7)- Cassazione Sezioni Unite 10.08.2012 n. 14368.


Trani 13 settembre 2012.


 


Il Consigliere Relatore


 Avv. Sabino Palmieri


 


 


 


Il Consigliere Segretario                                               Il Presidente


  Avv. Carlo Barracchia                                         Avv. Francesco Logrieco