Le indagini bancarie utilizzate dal Fisco per gli accertamenti.
di Geremia Rendine


Il tema degli accertamenti bancari è di grande attualità tanto più che la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione sembra aver assunto una posizione a favore del fisco ormai chiara e consolidata (vedi da ultimo Cass.n.21132 del 13/10/2011).


La “fonte d’innesco” che dà origine a tale tipo di controllo è di solito l’eccessiva manifestazione di spesa (esempio: finanziamento dei soci, aumento di capitale sociale, incrementi patrimoniali ecc.) manifestata dal contribuente a fronte dei redditi dichiarati nel proprio modello 740.


L’Ufficio, ottenuta l’autorizzazione della Direzione Regionale delle Entrate, ormai con sistemi telematici stampa direttamente tutti gli estratti conto posseduti da tutte le banche e poste italiane ove il contribuente ha i propri conti e quindi invita quest’ultimo, con questionario notificato, a dimostrare, entro un breve termine, in genere 15 giorni, che tutti i versamenti e prelevamenti in essi indicati trovano corrispondenza nelle proprie scritture contabili e quindi nelle dichiarazioni dei redditi presentate.


La norma (art.32,1°co., n.2 e 7 D.P.R. n.600/73) prevede che tutti i versamenti e prelevamenti annotati nei conti bancari sono posti come ricavi se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario, fatta salva naturalmente la prova contraria.


Così mentre all’Ufficio è consentito procedere per “presunzioni”, al contribuente è posto l’onere gravoso di dimostrare con prove documentali che non trattasi di ricavi “in nero”.


Nell’orientamento giurisprudenziale esposto, con un rilevante approfondimento in materia di prova, si pone la sentenza n.401 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia di Bari, Sez.XXV, Presidente Luigi Scimè, il 03/11/2010, con la quale è emessa la seguente massima : ” I dati ed elementi acquisiti dall’Ufficio, ai sensi dell’art.32, n.2 e 7 del D.P.R. n.600/73 e delle analoghe e disposizioni del D.P.R. n.633/72, legittimamente sono posti a fondamento degli accertamenti in rettifica previsti dagli artt. da 38 a 41 dello stesso decreto n.600/73, restando a carico del contribuente la prova contraria. Tale prova deve essere piena, idonea a contrastare la pretesa fiscale e non meramente indiziaria ( tale – indiziaria, appunto- è stata ritenuta una dichiarazione di un terzo formata in sede extraprocessuale )”.


La vicenda è la seguente: a seguito indagini della Guardia di Finanza sul conto corrente del contribuente erano emersi maggiori ricavi (versamenti e prelevamenti) non dichiarati al fisco. L’Agenzia delle Entrate riconduceva tali proventi a tassazione ai fini Irpef, Iva, Irap e addizionali comunali e regionali classificandoli come redditi d’impresa non dichiarati. Venivano anche irrogate sanzioni amministrative per la mancata tenuta delle scritture contabili obbligatorie ex art.14 e ss. D.P.R. n.600/73 e 21 D.P.R. n.633/72.


Il ricorrente impugnava dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale gli atti di accertamento emessi dall’agenzia fiscale sostenendo che il conto corrente bancario sebbene fosse a sé intestato era di fatto utilizzato da una società di capitali. A conferma di tale tesi il contribuente presentava una dichiarazione dell’amministratore e socio della suddetta società con la quale si affermava che le movimentazioni finanziarie intervenute sul conto erano riconducibili alla stessa. A esito del processo, i giudici di primo grado accoglievano il ricorso presentato dal contribuente e l’Agenzia delle Entrate ricorreva in appello alla Commissione Tributaria Regionale di Bari sostenendo la legittimità del proprio operato. I giudici della C.T.R. di Bari, accogliendo la tesi dell’appellante Ufficio, ribaltavano la sentenza di primo grado e condannavano il ricorrente al pagamento dei tributi accertati e delle sanzioni irrogate. Infatti, i giudici di appello ritenevano non assolto l’onere della prova in capo al contribuente in quanto la dichiarazione di un terzo dallo stesso prodotta in giudizio non assumeva valore di prova, bensì di semplice indizio utilizzabile al fine del libero convincimento del giudice.


Il ricorrente era così soccombente per non aver prodotto in giudizio una valida prova da opporre alla presunzione legale secondo la quale i versamenti e i prelevamenti e bonifici sul proprio conto corrente sono considerati “ricavi in nero “ se non trovano riscontro nelle scritture contabili e nella dichiarazione dei redditi presentata.


Avv. Geremia Rendine
già Dirigente Capo Area Controllo Agenzia delle Entrate di Bari