IL TOVAGLIOMETRO BASTA PER ACCERTARE IL ”NERO” ?
di Geremia Rendine
Un esempio di accertamento analitico – induttivo (ex art.39, primo comma, lettera d), del D.P.R. 29/9/73, n.600) è quello basato sul cosiddetto “tovagliometro” che ha trovato conferma nella giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione che, in un orientamento che ormai va consolidandosi, sostanzialmente affermato che: ”Nella prova per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignorato non deve avere carattere di necessità essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza logica dal fatto noto alla stregua di ragionamenti di probabilità. Pertanto …. è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario di tovaglioli utilizzati, “ (magari attraverso la determinazione del numero degli stessi mandati in lavanderia ),” costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui per ciascun pasto ogni cliente adopera un solo tovagliolo e rappresentando quindi il numero di questi un fatto noto, capace anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero di pasti consumati.” (così la sentenza della Cassazione n.9884 del 2002 ).
Alla stessa maniera è stato ritenuto legittimo dalla giurisprudenza di merito l’accertamento del reddito d’impresa di ristorazione sulla base del consumo delle materie prime impiegate per confezionare i pasti serviti, tenuto conto che studi di settore indicano le quantità di materia prima necessaria per confezionare il primo piatto o il secondo, e quindi di determinare i ricavi”effettivi” di esercizio da contrapporre a quelli dichiarati. Così come sono state fatte ricostruzioni di ricavi di ristoranti sulla base del consumo del vino e/o dell’acqua minerale, ricostruzioni che, sempre secondo la Cassazione, devono comunque essere verosimili e ragionevoli e tenere in debito conto le caratteristiche e le condizioni di esercizio dell’attività svolta.
E’ di questi giorni la divulgazione sulla stampa specializzata (vedi Il Sole 24 Ore del 10/09/2012) della sentenza n.77/24/12 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale del Veneto che nel riaffermare la legittimità del procedimento da “tovagliometro” per ricostruire ricavi in nero di un ristorante ne ha ammessa la fondatezza solo se l’Ufficio o la Guardia di Finanza trova e contesta altri indizi di evasione.
Secondo detti giudici, che hanno accolto il ricorso del contribuente, l’accertamento fiscale andava supportato da ulteriori adeguati riscontri in grado di dimostrare l’ipotesi di occultamento degli incassi. Adeguato riscontro poteva essere, per esempio, la constatazione che vi erano altre contraddizioni facilmente riscontrabili nelle scritture contabili del ristorante verificato come per esempio i consumi medi delle materie prime utilizzate per confezionare i pasti serviti. Come pure valido riscontro per misurare gli incassi effettivamente conseguiti poteva essere fornito dalle movimentazioni finanziarie rilevate attraverso l’esame dei conti correnti bancari, e le manifestazioni di spesa ed esborsi manifestati dall’imprenditore che non si giustificavano con il reddito dichiarato.
Pertanto la ricostruzione induttiva operata solo con il tovagliometro o altro elemento è e rimane, a loro dire, solo ed esclusivamente un’ipotesi di occultamento di ricavi a livello di semplice indizio.
Questa interpretazione in verità non ci pare in linea con la giurisprudenza della Cassazione finora emessa nella soggetta materia.
In realtà la Cassazione con ormai numerose pronunzie (si veda da ultimo la n.12438/2007, la n.17408/2010, la n.7377/2011) ha confermato la legittimità e validità della ricostruzione induttiva dei ricavi sulla base dei tovaglioli utilizzati o del consumo dell’acqua minerale o dell’impiego di materie prime per confezionare i pasti e se il risultato di tale ricostruzione è ragionevole e verosimile, con riferimento alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio dell’attività svolta, l’onere della prova ex art.2946 c.c. è ribaltato sul contribuente.
Tutta la questione, a ben vedere, ruota intorno alla corretta interpretazione da dare al sopra citato art.39, primo comma lettera d) del D.P.R. 29/09/1973 n.600 nella parte in cui così recita:” L’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici , purché queste siano gravi, precise e concordanti.” Perciò le attività, ma sarebbe stato meglio dire ricavi di un’attività commerciale (e quindi di un ristorante), o anche di lavoro autonomo (per il richiamo contenuto nell’ultimo comma del citato art.39/600), possono essere accertate avvalendosi di presunzioni gravi, precise e concordanti. Il punto nodale è questo: la ricostruzione dei ricavi sulla base del così detto tovagliometro realizza le “presunzioni gravi, precise e concordanti “ dette dalla norma o no ? E l’uso dello strumento del tovagliometro basta per accertare il nero ?
Avv. Geremia RENDINE
Già Dirigente dell’Agenzia delle Entrate, Capo Area Controllo Bari 1 e Bari 2, attualmente in pensione.