L’Azione di risarcimento danni nel codice del processo amministrativo
di Antonio Guantario
Relazione tenuta ad Andria (presso la Sala Chiostro San Francesco) il 25 novembre 2010
nel seminario di studi sul codice del processo amministrativo
organizzato dall’Associazione Avvocati Andriesi.










Trattandosi di un argomento potenzialmente senza limiti, perchè viene incrociato da tanti istituti, è necessario ricavarsi uno schema da seguire per non disperdersi. Ho individuato una scaletta che voglio preliminarmente indicare: farò una piccola introduzione storica, poi toccherò subito le regole del risarcimento per lesione di interesse legittimo nel codice del processo amministrativo, e poi svilupperò alcune riflessioni di raccordo, di carattere complessivo, per una maggiore consapevolezza pratica di cosa è accaduto, cosa sta accadendo e cosa potrà accadere.


1) Breve introduzione storica
Il risarcimento del danno per lesioni di interesse legittimo è un argomento che, in generale, a partire dall’introduzione della giurisdizione amministrativa, non ha avuto grande spazio nell’evoluzione giurisprudenziale, perché in Italia questa figura, come sappiamo, non è stata contemplata formalmente dalle norme.
Sappiamo bene che la figura dell’interesse legittimo, per la prima volta, è stata prevista dall’art. 24 della Costituzione, nel 1948; prima di allora la locuzione “interesse legittimo”, sotto il profilo strettamente normativo, non esisteva.
L’interesse legittimo è stato codificato, per la seconda volta, proprio dal codice del processo amministrativo. In questo caso, devo dire, è stata, addirittura, coniata la definizione di risarcimento da lesione di interesse legittimo. Con ciò il legislatore ha voluto sicuramente fugare ogni dubbio, introducendo così la fattispecie normativa del risarcimento per lesione dell’interesse legittimo, facendola divenire una realtà codificata.
Il rilievo è importante perché, per oltre un secolo, l’interesse legittimo è stato un argomento elaborato soltanto dai teorici e dalla dottrina.
Nel 1865, con l’abolizione del contenzioso amministrativo, venne affidata al giudice ordinario la cognizione sui diritti soggettivi; nel contempo sappiamo, però, che gli interessi legittimi non si conoscevano e non si potevano conoscere, perché, in detto periodo, infatti, si conosceva solo il diritto soggettivo classico, il diritto di proprietà . Tanto si spiega perché era ancora una società basata sulla terra, sulla proprietà fondiaria. Nel 1865 non si era ancora avuta l’evoluzione dello stato sociale, dello stato industriale, e l’unica figura soggettiva che la faceva da padrona era il diritto di proprietà. In quel momento si ritenne di attribuire al giudice ordinario la cognizione sui diritti nei confronti della p.a., e sembrò una grande conquista perché la si sottraeva al Tribunale del contenzioso amministrativo che non era un vero giudice, in quanto composto da membri appartenenti alla stessa amministrazione che veniva giudicata.
Poichè era un non senso chiamare Giudice il Tribunale del contenzioso amministrativo, si decise di affidare al giudice ordinario la cognizione dei diritti soggettivi.
Sta di fatto che, a fronte delle illegittimità che l’esercizio del potere amministrativo andava a consumare, si finì per non aver più alcun giudice, in quanto si sosteneva che per il ricorso amministrativo bisognava rivolgersi alle autorità amministrative.
Nel 1889 fu istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato per colmare questo vuoto. Il giudice ordinario a fronte del potere discrezionale si rifiutava di conoscere l’atto amministrativo, diceva di non avere l’attribuzione.
Fu proprio questa constatazione che indusse Silvio Spaventa a tenere il famoso discorso di Bergamo, con cui pose in evidenza la necessità di dare una tutela vera al cittadino leso dall’esercizio illegittimo del potere. Di qui poi l’istituzione della IV Sez del Consiglio di Stato.
E fu proprio grazie a detta istituzione che sorse il problema dell’interesse legittimo, in quanto il Consiglio di Stato doveva decidere su qualcosa che non fosse di competenza del giudice ordinario, cioè che non fosse un diritto soggettivo.
Tutte le volte che il diritto soggettivo si imbatteva nel potere amministrativo, soprattutto di carattere discrezionale, si diceva che il diritto soggettivo subiva una degradazione. L’unico rimedio era la possibilità del ricorso per l’annullamento da esperirsi, all’epoca, davanti al Consiglio di Stato.
La riprova di ciò si ricava dal fatto che il Cammeo per spiegare questo nel 1911, quando ancora il Consiglio di Stato non veniva considerato un giudice, ma un’autorità sostanzialmente amministrativa perché non emetteva sentenze, ma decisioni, diceva: “che cos’è la situazione sostanziale che si fa’ valere davanti al Consiglio di Stato? Non è un diritto soggettivo. Però, se la tuteliamo con l’azione di annullamento, a queste situazioni che nome diamo? Visto che, poi, in fondo, io se impugno un decreto di esproprio è perché sono proprietario, e in quanto proprietario ho titolo per impugnare. Quindi, non è un diritto soggettivo, altrimenti avrei il potere di rivolgermi ad un giudice ordinario, ma è qualcosa”.
Ed è qui che la dottrina comincia a costruire: “Tu hai un interesse e non hai un diritto, però puoi far valere l’illegittimità”. E’ stato Cammeo a fornire una spiegazione dell’interesse legittimo, che, a mio avviso, è insuperabile alla luce dell’evoluzione storica e trova un riannodamento quasi puntuale con il codice del processo amministrativo.
Cammeo diceva che, in realtà, l’interesse legittimo è un diritto senza azione giudiziaria, cioè è un diritto che si protegge non con l’azione davanti al giudice ordinario, ma si protegge con un’azione davanti al Consiglio di Stato, che non era un giudice in quel momento. Per cui si ha un’azione, ma non è un’azione giudiziaria e quindi è una tutela parziale perché può far ottenere solo l’annullamento. Soltanto nel 1924 si diede un crisma di giurisdizionalità alla IV, V e VI Sez. del Consiglio di Stato, per legge (art. 26 r.d. 26.6.1924, n. 1054).
Per riannodarmi con un salto cronologico immediato all’oggi, occorre dire che oggi non c’è più solo l’azione di annullamento a tutela dell’interesse legittimo, ma c’è anche il risarcimento del danno.
Proprio l’opposto di quanto affermava Gucciardi in uno scritto su questo argomento. Egli per negare la risarcibilità dell’interesse legittimo sosteneva che ove ammessa si sarebbe avuto un caso Laurens al rovescio.
Nel caso Laurens vi era stato il tentativo, poi fallito, di offrire al diritto soggettivo la doppia tutela: sia quella dinanzi al Giudice ordinario sia quella di annullamento dell’atto dinanzi al Consiglio di Stato. La Cass. a sezioni unite (24 giugno 1891, in Foro it., 1891, I, 961) statuì che, a fronte del potere, il diritto non sopravvive e viene estinto, residuando l’interesse legittimo che abilita alla sola azione di annullamento; ecco l’interesse legittimo. Prevalse il criterio c.d. della “causa petendi” e non del “petitum”. La centralità del criterio della causa petendi nel sistema di riparto della giurisdizione non venne messa più in discussione, come sancito nel noto “accordo” del 1929 tra i Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione, cui si uniformò la Giurisprudenza successiva.
Orbene, oggi non appare più essere così. Oggi il legislatore ha detto che è possibile proporre sia l’azione di annullamento che quella di risarcimento dinanzi al Giudice amministrativo.
Oggi se dovessimo dire qualcosa a Cammeo, dovremmo obiettare che attualmente l’interesse legittimo è una figura soggettiva dotata di azione giudiziaria perché il giudice amministrativo, da Costituzione, è sicuramente un organo giurisdizionale. Ed offre una tutela piena perché ci dà sia la possibilità di chiedere l’annullamento dell’atto sia la possibilità di chiedere il risarcimento del danno, cosa che il giudice ordinario non ci può dare. Quindi, paradossalmente, oggi questa concentrazione di tutela mette nelle mani del giudice amministrativo la doppia tutela: a) quella costitutiva di annullamento che il giudice ordinario non può dare (tranne alcuni casi specifici tipo le opposizioni alle sanzioni amministrativo); b) e quella del risarcimento del danno. Per tale ragione la tutela è diventata, come si dice, piena.
E veniamo alla storia di oggi.
Senza norme, nel 1999 le Sezioni Unite della Cassazione hanno detto che è risarcibile la lesione dell’interesse legittimo, sia pure a certe condizioni, ecc.; poi è stata introdotta la norma che ha consentito di concentrare la tutela risarcitoria davanti al giudice amministrativo, cioè la legge 205/2000. Senonchè, quando è entrata in vigore questa norma è sorto il problema della pregiudizialità dell’annullamento.
Quindi è chiaro che, come diceva il Presidente Urbano, si era in qualche modo depotenziata la tutelabilità dell’interesse legittimo tramite il risarcimento, perchè nel caso in cui il ricorrente non avesse proposto per tempo l’impugnativa avverso il provvedimento lesivo, il Consiglio di Stato si era orientato nel ritenere l’inammissibilità della domanda risarcitoria.
A tanto ha posto nuovamente rimedio la Cassazione a Sezioni Unite quando ha sostenuto che il giudice amministrativo, pur in mancanza di impugnativa dell’atto, non può negare la decisione nel merito sull’azione risarcitoria, valutando l’eventuale illegittimità dell’atto e perciò stesso catapultarla nella fattispecie dell’art. 2043 c.c., sotto la forma dell’ingiustizia del danno. L’atto, ove ritenuto illegittimo, si riflette sull’ingiustizia del danno, rendendolo risarcibile. Di conseguenza il Giudice della giurisdizione ha cassato le sentenze del Consiglio di Stato che avevano dichiarato inammissibili le domande risarcitorie prive di una preventiva azione di annullamento, ritenendo integrata un’ipotesi di difetto di giurisdizione..


2) Cenni sulle novità in tema di risarcimento per lesione di interesse legittimo nel codice del processo amministrativo
Il codice del processo amministrativo, e veniamo alla novità, questo argomento lo ha affrontato di petto e lo ha risolto stabilendo che il preventivo esperimento o no della domanda di annullamento non produce una questione di ammissibilità dell’azione risarcitoria, in quanto il risarcimento del danno si può anche chiedere senza aver esperito o esperire un’azione di annullamento. Tuttavia, il codice ha orientato la valutazione del comportamento del ricorrente, che non abbia impugnato l’atto, nella fattispecie della risarcibilità nel merito del danno richiesto.
Alla luce del codice del processo amministrativo il ricorrente, oggi, nella fase della determinazione del danno, non ha più diritto ad alcun risarcimento se non dimostra di aver fatto tutto quello che si può chiedere ad un soggetto di ordinaria diligenza per evitare l’insorgere stesso del danno e/o il suo aggravamento.
La norma presuppone che una delle possibilità per evitare che il danno si concretizzi sia quella che l’interessato abbia impugnato l’atto illegittimo; in caso contrario, sempre riferendoci al testo normativo, il soggetto non ha diritto alla quantificazione del danno da risarcire. Tale concetto è sancito nell’art. 30 codice del processo amministrativo.


Un primo punto da osservare è la distinzione che la stessa norma effettua tra il danno che non deriva da un provvedimento e quello che invece deriva da un provvedimento. Di qui il rilievo secondo cui si potrebbe dire che ove il danno non derivi da un provvedimento non sarà poi così importante aver impugnato un atto. Per il danno che, invece, derivi da un provvedimento vi è il termine di 120gg. da rispettare sotto pena di decadenza dell’azione.
Tuttavia, questo non basta perché nella seconda parte del comma, ed è qui che il legislatore affonda il colpo, si afferma che, nel determinare il risarcimento, il giudice deve valutare tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti, ed esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare con l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.
Ne discende che gli strumenti di tutela sicuramente includono l’azione di annullamento, e, a mio avviso, probabilmente includono altro, in quanto in futuro, non può escludersi, la p.a. potrà sollevare delle riserve e/o eccezioni nei confronti di chi non abbia segnalato subito il problema; non sia intervenuto nel procedimento; o perché non abbia prodotto l’impugnativa. In questo caso risorge un dubbio legittimo, se io avessi proposto l’impugnativa che cosa avrei dovuto fare per essere diligente e dare la prova che ho fatto tutto il possibile per evitare il danno? Ma dico di più, la pubblica amministrazione potrebbe obiettare “hai chiesto la misura cautelare? Hai chiesto il decreto cautelare inaudita altera parte?”. Di questo passo si esaspera il rischio di una decadenza o di un rigetto nel merito dell’azione risarcitoria.
Dal canto nostro, poi, siccome gli avvocati sono bravi ad elaborare contromisure prudenziali, studieremo preliminarmente tutte le contromosse necessarie, subissando l’amministrazione di diffide prima e di interventi procedimentali poi. Senza tralasciare la possibilità di instaurare azioni cautelari preventive che, probabilmente, dovremo coltivare anche in appello.
Dunque, è chiaro che la norma dovrà essere interpretata cum grano salis e con ragionevolezza, anche perché qui siamo di fronte a un caso particolare.
La norma di riferimento nel diritto civile è contenuta nell’art. 1227 c.c., ossia la norma generale del concorso colposo del creditore. Nel secondo comma di tale norma si afferma una cosa simile a quella descritta nell’art. 30 comma 3° del codice del processo amministrativo, ma non viene menzionata la necessità di utilizzare gli strumenti di tutela previsti dalla legge. Dunque, viene affermato soltanto il principio che occorre comportarsi secondo ordinaria diligenza per ridurre o evitare il danno.
La giurisprudenza civile su questo punto ha sempre sostenuto che nell’ordinaria diligenza non rientri l’obbligo di agire in giudizio a cautela dell’insorgere del danno, mentre il codice del processo amministrativo impone di farlo. A mio avviso, questo vuol dire che l’art. 1227 c.c. è stato sì trasposto nel codice del processo amministrativo, però è stato trasposto con una specialità precisa e che, a ben vedere, aggrava la diligenza del ricorrente, ossia la potenzia, esigendo di più da quest’ultimo. Tutto ciò, è chiaro, è la conseguenza del solito ed intramontato problema di cassa della pubblica amministrazione. Io temo anche che probabilmente questo è stato fatto perché lo Stato è cosciente di non potersi fidare fino in fondo della sua pubblica amministrazione, in quanto teme la connivenza tra funzionari e ricorrenti. Solo così si spiega l’eccessività dell’onere posto a carico del ricorrente di esperire gli strumenti di tutela per ridurre o evitare il danno.
Al riguardo sembra chiaro, a mio avviso, che andrebbe valorizzato un passaggio di questo terzo comma, lì dove la norma sancisce “l’esclusione del risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza”. La norma ci porta a compiere una prognosi in astratto e a chiederci se si sarebbero potuti evitare i danni ove si fosse prodotto l’atto di ricorso contro il provvedimento. Tale interrogativo sorge dalla circostanza che, a volte, non è vero che proponendo un ricorso si evitano i danni. In primo luogo perché possono passare diversi anni prima che il ricorso sia deciso, nel senso che in questo lasso di tempo il danno è comunque maturato, e la sentenza di annullamento non elimina ex tunc i danni comunque avveratisi.
Inoltre, è possibile svolgere un’altra riflessione: come diceva Guicciardi, il quale era contrario alla risarcibilità della lesione dell’interesse legittimo, spesso il danno non deriva dall’atto, ma deriva dalle conseguenze dell’atto, o meglio, deriva dai fatti che si sono verificati in esecuzione dell’atto. Ad esempio, se prendiamo in considerazione un’ingiunzione a demolire un immobile il danno non deriva dagli effetti dell’atto, ma si produce se la demolizione viene portata a compimento d’ufficio e il bene viene veramente demolito. Tuttavia, pur in presenza di impugnativa, nel caso in cui l’amministrazione non esegua la demolizione e sopraggiunga una sentenza di annullamento dell’ingiunzione di demolizione, mi viene da chiedere: “ In questo caso il danno dove sta?”. A mio avviso il danno non esiste, perché non è un danno producibile dall’atto in sè, ma è conseguenza dei fatti che si pongono in essere in esecuzione di quell’atto. E’ chiaro che, anche in questo caso, non è detto che un provvedimento, pur illegittimo, ex sè sia produttivo di danni. Alla luce di ciò è necessario creare un catalogo di tutte le ipotesi, ovviamente non a priori, e, caso per caso, stabilire che cosa sia davvero rilevante per il danno che un soggetto vuole far valere (il provvedimento o l’esecuzione del provvedimento?).
Di certo, se il provvedimento mi espropria, sarò privato del diritto di proprietà, in quanto il decreto di esproprio opera di diritto. In tal caso, per esempio, se per un anno mi viene espropriata la proprietà, avrò come conseguenza che ad es. per un anno non potrò chiedere un mutuo alla banca, ed è chiaro che questo è un danno che sicuramente deriva ex sè dal provvedimento illegittimo.
I casi possono essere vari e differenti tra loro. Ne deriva che ogni volta dovremo stabilire se per ipotesi il danno non sia soggetto alla falcidie della 2^ parte dell’art. 30, comma 3° comma c.p.a., cioè alla verifica di diligenza del ricorrente.
Occorrerà controllare se, appunto, si tratti di un danno che derivi direttamente dai fatti, dai comportamenti della pubblica amministrazione, dall’atto, o dall’esecuzione dell’atto.
Perciò, sotto questo profilo, il campo è molto aperto. In ogni caso è sicuro che, se devo rispettare questa parte, devo proporre ricorso entro 60 gg. e nei 120 giorni devo proporre l’azione risarcitoria. E’ evidente che, a fronte di un’ordinanza di demolizione illegittima, non ancora eseguita, il termine di 120 giorni per proporre l’azione risarcitoria dovrebbe decorrere da quando viene posta in essere la demolizione, perché questo è il fatto realmente lesivo. Ne discende che bisognerà seguire la vicenda, pur avendo impugnato l’atto, e porre mente alla non lesività ex sè del provvedimento e all’attuazione del provvedimento stesso. Sarà l’attuazione del provvedimento a costituire il termine a quo per il decorso dei 120 giorni per proporre la domanda risarcitoria con i motivi aggiunti.
Per tutti gli altri casi in cui il provvedimento non è rilevante ai fini del danno, è chiaro che bisognerà tener conto del fatto-danno dal momento in cui si produce, e, dunque, da tale momento bisognerà far decorrere i 120 giorni.
Il tema del risarcimento per lesioni di interessi legittimi fa sorgere l’interrogativo sul che cosa cambia tra risarcimento per lesione d’interessi legittimi e risarcimento per lesioni di diritti soggettivi. Dovremmo rispondere che nulla cambia sotto il profilo concettuale, ma il cambiamento si palesa sotto il profilo processuale in quanto l’azione per il risarcimento del danno per lesione di diritti soggettivi non è soggetta al termine decadenziale di 120 giorni.
Da avvocato, mi domando: “Se io non ho proposto l’azione risarcitoria nei 120 giorni, ma ho impugnato l’atto nei 60 gg., quando quest’ultimo sarà annullato (ad es. il decreto di esproprio) dovrò parlare di lesione di interesse legittimo o di diritto soggettivo?”.
Pongo questo quesito, perché la dottrina più risalente spiegava bene che quando l’atto viene meno, il suo venir meno è retroattivo, cioè opera ex tunc, con la conseguenza che tutta l’attività compiuta dall’amministrazione, in esecuzione di un atto che non esiste più, si diceva, e credo non erroneamente, essere un’attività illecita perché non più coperta dall’atto.
Se è così, è possibile parlare di risarcibilità per lesione di diritto soggettivo secondo lo schema classico. Dunque, a tal proposito, mi verrebbe spontaneo domandare: “se l’atto viene annullato sarà lecito affermare trattarsi di una lesione di interesse legittimo oppure sarà più corretto dire che trattasi di lesione di diritto soggettivo?”
Qualcuno, potrebbe obiettare che l’esistenza della definizione codificata di risarcimento per lesioni di interessi legittimi, impedisce di ricostruire la fattispecie in termini di lesione di diritti soggettivi.
A mio avviso deve operarsi una distinzione: se la P.a. lede un interesse legittimo oppositivo, certamente l’annullamento dell’atto fa rivivere il mio diritto su un bene che già avevo. Invece, se io ho impugnato, per esempio, un diniego di concessione edilizia, non trattandosi di tutela di un diritto preesistente, ma di un interesse pretensivo, e cioè di un bene in più che voglio ottenere, è certo, in questo caso, che dovremo parlare di lesione di interesse legittimo pretensivo. In tal caso saranno applicabili i termini dei 60 gg. e dei 120 gg.
Se invece trattasi di tutelare un interesse oppositivo, temo che sotto un profilo prettamente dogmatico, non si dovrebbe parlare di lesione di un interesse legittimo, e dovrebbero applicarsi i principi che, fino a ieri, noi applicavamo (ossia ciò che valeva fino al 1999, prima dell’entrata in vigore della legge 205/2000). Rivive cioè il concetto classico dell’annullamento dell’atto che fa riespandere il diritto, sicchè dovrà parlarsi di lesione del diritto soggettivo. Avremo, così, un risarcimento del danno che non potrà definirsi risarcimento per lesione di interesse legittimo. Quanto esposto appare conforme alle linee evolutive di 150 anni di storia del diritto amministrativo. Ora, si potrebbe obiettare che dovremmo riscrivere sia il concetto di diritto soggettivo che quello di interesse legittimo, fino ad ora serviti a due scopi: in primis a ripartire la giurisdizione e in secundis a non risarcire il danno per lesione di interesse legittimo. Come chiarito da Romano Tassone tale distinzione non dovrebbe interessare più, in quanto la giurisdizione sul risarcimento del danno è tutta in capo al Giudice amministrativo. L’interesse per la distinzione residuerebbe solo ai fini dell’applicabilità del termine decadenziale di 120 giorni.


3) Le regole sulla giurisdizione
Detto questo, vorrei fare un riferimento alle regole sulla giurisdizione. Può notarsi che l’art. 7 comma 1, contiene una previsione molto elegante e nel contempo importante. Non solo viene detto che il risarcimento è ammissibile, ma, così come nel 1865 l’art. 2 aveva, in tutte le materie nelle quali si faceva questione di diritto civile e politico, attribuito tali questioni alla giurisdizione ordinaria -tale articolo, comunque, non è stato abolito perché costituisce un principio fondamentale per il diritto soggettivo – ora, il codice del processo amministrativo ha introdotto una norma identica per gli interessi legittimi (art.7 co.1) ed è stato disposto: “Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi…..”. E’ stata utilizzata la medesima terminologia contenuta nell’ art. 2 citato (“si faccia questione”). Si è affermato con chiarezza che ogni volta in cui si faccia questione di interessi legittimi c’è la giurisdizione del giudice amministrativo. Mentre se si fa questione di diritti soggettivi c’è la giurisdizione del giudice ordinario.
Lo stesso legislatore, non fidandosi che si capisse, ha ribadito il principio nell’art. 7 comma 7 c.p.a. il quale afferma che “il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi”. Dicendolo due volte, forse si è voluto evitare che qualcuno potesse, con qualche stratagemma, uscire dalla giurisdizione amministrativa e tornare a quella ordinaria, cioè si sono volute legare le mani alle Sezioni Unite della Cassazione. E’ evidente che qui il grande personaggio scomodo del sistema sono state proprio le Sezioni Unite. Infatti, se nel 1999 non avessero sconvolto tutto, non sarebbe stata emanata la L. 205/2000 che sottraeva all’A.G.O. quella materia (il risarcimento del danno), ossia l’ulteriore rimedio di tutela dell’interesse legittimo così come giustamente definito dalla Corte Costituzionale, attribuendola al Giudice amministrativo. Secondo il mio parere, la Cassazione a Sezioni Unite ha avuto un ruolo molto importante per questa innovazione.
A tal riguardo ritengo che il Giudice amministrativo di I° grado sia più innovativo e più aderente al problema concreto da decidere, mentre sono più pessimista nei confronti del giudice di appello, il quale mostra di essere un po’ più conservatore, e non a caso ha ricevuto dalla Cassazione numerose batoste. Tuttavia, egli si è vendicato con il codice del processo amministrativo nel quale c’è un concentrato del retro pensiero del Consiglio di Stato, divenuto poi pensiero scritto. Quindi con queste norme riusciamo a leggere nella testa del Consiglio di Stato, anche se, in genere esiste l’eterogenesi dei fini delle norme, cioè si scrive una cosa e poi la storia la trasforma.
A tal riguardo, secondo me, il diritto amministrativo è il diritto che per definizione è stato seduto sulla polveriera della storia ed è quello che è riuscito ad essere più influenzato dalla polveriera della storia. Tanto ciò è vero che, volendo operare un riferimento storico, l’autoritarietà del provvedimento amministrativo, e quindi la necessità di portare delle tutele nei confronti dei provvedimenti, è nata con la Rivoluzione Francese. Tale movimento storico non voleva che gli unici giudici esistenti, i quali erano quelli ordinari dell’ ancien regime, sindacassero le leggi della Rivoluzione, che si era fatta Stato, e la volontà del popolo era per definizione la legge. Quindi, con la prima legge istituita, i rivoluzionari dissero che il giudice ordinario non poteva conoscere dell’atto amministrativo. Perché? La risposta è che i rivoluzionari sapendo delle origini culturali e storiche dei giudici, che a quel tempo rappresentavano un ceto sociale ben determinato, vedevano in questi un freno all’evoluzione che la Rivoluzione stava portando.
Se ne trae conferma dal fatto che un autore (Miele) ha scritto che mentre, a quel tempo, le regole che impedivano al giudice di conoscere degli atti amministrativi erano servite per pararsi dal conservatorismo dei giudici; in Italia, invece, sono state utilizzate per ostacolare il progresso nel 1865. Infatti , all’epoca, il giudice ordinario non fece buon uso di tutto il potere che in teoria poteva utilizzare; difatti l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato si era resa necessaria per colmare il vuoto di giurisdizione lasciato dal giudice ordinario. A sostegno di tale tesi dobbiamo ricordare che l’On. Bozzi, nell’assemblea costituente, quando litigò con Calamandrei, il quale non voleva la giurisdizione amministrativa, ma solo quella ordinaria, Bozzi disse che non la potevano eliminare perché il giudice amministrativo non aveva mai invaso la competenza di nessuno, ma aveva riempito un vuoto. Infatti, se in Italia esiste un atto amministrativo degradatorio, è conseguenza di una scelta giurisprudenziale, in quanto se all’epoca i giudici ordinari avessero utilizzato l’art. 2 (secondo cui l’A.G.O. doveva conoscere dei diritti comunque vi potesse essere interessata la Pubblica Amministrazione e ancorchè fossero stati emanati provvedimenti amministrativi) tale articolo aveva fornito al giudice ordinario un corridoio per decidere. A tal proposito Giannini diceva che in teoria si poteva, in teoria non si poteva, tutto era possibile, poi è stata la giurisprudenza a dire come doveva andare, e l’opinione giurisprudenziale è diventata ius receptum. Bozzi, dunque, aveva coscienza dell’apporto innovativo che il giudice amministrativo aveva dato alla tutela del cittadino nei confronti del potere dello Stato. Non dobbiamo dimenticare che nell’800 non c’erano le regole di oggi, non esisteva uno Stato pluriclasse. C’erano i ricchi e i poveri, i potenti e il niente; nell’800 c’era anche chi non aveva diritto di voto, come per esempio le donne, dobbiamo quindi renderci conto di che mondo fosse quello. Riflettendo, oggi ci siamo evoluti grazie a quella giurisprudenza del Consiglio di Stato che è stata innovativa, è stata progressista, e se si ragiona con un’ottica di 150 anni di storia, dobbiamo dire che la giustizia amministrativa ha prodotto dei benefici, ha coperto un vuoto e ha trovato nella Costituzione la sua garanzia di esistenza.
Facendo un’annotazione, tutta questa concentrazione di tutela che il codice del processo amministrativo ha realizzato è una concentrazione di tutela che viene dalle linee interpretative forniteci dalla sentenza 204/2004 della Corte Costituzionale e dalla 191/2006. Quest’ultima ha offerto l’interpretazione autentica della sentenza 204/2004.
La C. Cost. ha detto: “attenzione, siamo consapevoli che far valere un credito risarcitorio vale azionare un diritto soggettivo, e potrebbe legittimamente far obiettare all’interprete che trattasi di giurisdizione esclusiva su diritti soggettivi, relativamente ad una materia che non è tale perché non precisa posizioni che hanno a che fare con il potere autoritativo. Tuttavia la giurisdizione sul risarcimento del danno è del giudice amministrativo perché quando si fa valere il risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, non si tutela il diritto, ma l’interesse legittimo.
Inoltre, si dà il caso che l’art. 103 Cost. non dica: “quando si fa questione di interessi legittimi”, ma afferma che la tutela degli interessi legittimi è affidata al giudice amministrativo. Dunque, nella parola “tutela” la Corte Costituzionale, e oggi il codice del processo amministrativo, hanno fatto confluire l’azione risarcitoria come rimedio rafforzativo dell’azione di annullamento. E’ questo il punto in cui si chiude, e solo a questa condizione, la compatibilità costituzionale dell’operazione.
Sorge spontanea la domanda: “come mai in “cento anni” nessuno si è accorto che la tutela la tutela limitata all’azione di annullamento era insufficiente?
In realtà, vi era la possibilità, dopo l’annullamento dell’atto che faceva riemergere il diritto, di far valere il risarcimento del danno dinanzi al Giudice ordinario.
In questo caso è prevalsa la linea di Common Law, dove non esiste il diritto su cui si innesta un’azione ma esiste soltanto l’azione prevista dalla norma su cui si costruisce un diritto. Infatti gli inglesi come i romani avevano le azioni tipiche e non avevano i diritti, i quali sono stati istituiti nell’800 con la codificazione e l’astrattizzazione dell’azione. Prima il diritto soggettivo contemplava anche il diritto di azione, ma con le costituzioni dell’800 si è codificato un diritto di azione in astratto e quindi nella Civil Law si è affermato se ho un diritto devo avere un’azione, dunque devo sondare che diritto ho e in base a questo posso porre in essere tutte le azioni necessarie. Chiovenda diceva che “il processo deve dare tutto quello che la norma prevede che io debba avere”. Secondo me, in Italia non si è posta attenzione al fatto che l’interesse legittimo nell’ art. 103 Cost. era previsto come figura da tutelare a tutto campo anche con il risarcimento. A questo punto si sarebbe potuta sollevare una questione di incostituzionalità del processo amministrativo, nella parte in cui non prevedeva l’azione risarcitoria per violazione del citato articolo 103 Cost., perché l’effettività della tutela, dice la Corte Costituzionale nel 2004, si ha se esiste anche il rimedio risarcitorio. Quindi noi ad oggi scopriamo che la tutela dell’interesse legittimo non era effettiva per lo più a normativa quasi invariata fino al 2004. Come già detto è prevalsa la linea all’inglese. Infatti, in presenza del rimedio dell’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. si era ragionato in guisa da costruire il risarcimento a mò di diritto soggettivo. Oggi, invece, possiamo osservare che il codice del processo amministrativo ha previsto un diritto risarcitorio per lesioni di interesse legittimo ed inoltre ha previsto un’azione ad hoc. In fondo ha posto le premesse affinché l’interprete, l’operatore e la dottrina chiariscano se sia ancora il caso, ai fini della giurisdizione, di continuare a distinguere il diritto soggettivo e l’interesse legittimo. Perché? Perché la distinzione è nata quando il giudice amministrativo non aveva ancora la copertura costituzionale di organo giurisdizionale, mentre oggi lo è. La distinzione, inoltre, è nata quando il giudice amministrativo non poteva offrire la tutela risarcitoria, e oggi, invece, questo è possibile. Dunque, in cosa differiscono queste situazioni nella lesione dell’interesse legittimo oppositivo? In cosa differiscono sul piano concettuale? Per rispondere a queste domande bisogna domandarsi qual è il bene della vita a cui guarda il legislatore quando afferma che la lesione dell’interesse legittimo è risarcibile. Se si prende in considerazione il bene della vita che è a base del diritto soggettivo, allora non esiste alcuna differenza. Se, invece, si fa riferimento ad un bene della vita diverso, esiste una differenza, la quale andrà studiata, con ogni conseguenza anche sulla risarcibilità. A tal riguardo qualcuno ha sostenuto che, in realtà, essendo l’interesse legittimo un interesse strumentale, lo si deve guardare come un bene non finale della vita, ma un bene strumentale per arrivare a un bene della vita. Poi lo possiamo costruire come, per esempio, una perdita di chance, come inadempimento alle regole del contratto amministrativo, ecc…
Però, è certo che dovrà esserci un lavorio interpretativo e ricostruttivo minuzioso, dovuto al fatto che ormai il giudice si trova di fronte la fattispecie normativa espressa della risarcibilità dell’interesse legittimo; il cui contenuto, per forza di cose, si dovrà palesare. Da questo punto di vista penso che c’è una maggior chiarezza sulla giurisdizione, e questo è un vantaggio; c’è una maggior chiarezza sulla questione della pregiudizialità ed è un vantaggio; mentre, solo i termini possono essere uno svantaggio. Però, dal momento che hanno legato questo termine breve alla conoscenza del fatto lesivo, alla conoscenza del provvedimento, finiremo per proporre subito l’azione risarcitoria, salvo vedere che contenuti inserire, con tutti i problemi riguardanti i termini, le prove, le decadenze, e l’impossibilità di produrre in appello nuovi documenti. Quindi si dovrà fare tutto in 120 gg. e anche quando non si sa quale sia l’effettivo danno, si dovranno produrre tutti gli elementi necessari per poter offrire al giudice la prova del danno. Insomma è una cosa un po’ farraginosa. Tuttavia, è un miglioramento in quanto abbiamo delle previsioni formali chiare e non siamo più affidati ai conflitti tra la Cassazione e il Consiglio di Stato. Anche se, ora, ci attende la mannaia della non risarcibilità dei danni che non abbiamo eliminato o ridotto con l’adozione dell’ordinaria diligenza: attraverso il previo esperimento degli strumenti di tutela. Questo può essere definito come l’ultimo mistero della giustizia amministrativa. Anche se lo vedo un pò più facile rispetto ai misteri che hanno attraversato tutto il percorso di questo ramo del diritto.
Ci sarebbe tanto altro da dire ma in una relazione non si può affrontare tutto. Io spero che con questo taglio, anche storico, sia riuscito a gettare qualche luce e a togliere qualche ombra su argomenti che sempre più ci affaticano da avvocati. Questa riflessione critica deve servire a renderci conto meglio e maggiormente della portata di certe pronunce che, a volte, siamo abituati a ripetere e riportare tralaticiamente, ma vanno, invece, sedimentate in relazione a tutti gli altri fattori del sistema per vedere se certi concetti rendono sempre o meno, per migliorare, per fare la critica, per poter esprimere un pensiero critico e utile.
Vi ringrazio per l’attenzione.