Breve commento alla sentenza 303/2011 della Corte Costituzionale
di MicheleAlfredo Chiariello
1) Introduzione
2) Le ordinanze di rimessione. Le Ragioni
3) La sentenza della Corte Costituzionale
4) Valutazioni finali
La Corte costituzionale, dopo un’attesa durata quasi un anno, si è pronunciata nei giorni scorsi con la sentenza 303/2011 sulla questione dei limiti di indennizzo introdotti dal collegato lavoro (legge 183/2010) per i contratti a termine.-
La nuova normativa era sospettata di illegittimità, perché ritenuta irragionevolmente riduttiva del risarcimento del danno integrale, già conseguibile dal lavoratore sotto il regime previgente, sino a monetizzare, addirittura, il diritto indisponibile alla regolarizzazione contributiva.-
La Corte di Cassazione e, prima ancora, il Tribunale di Trani avevano posto la questione di costituzionalità, sostenendo che la norma limitava il diritto del cittadino al lavoro e alla tutela giurisdizionale [1].-
La Consulta ha, invece, dichiarato, con la sentenza in oggetto, legittimo il nuovo sistema indennitario, e dunque legittima l’indennità prestabilita (fra 2,5 e 12 mensilità), da erogare al posto del risarcimento del danno: indennità, che non tiene più conto, dunque, della durata del processo, come avveniva prima dell’entrata in vigore della riforma, quando al lavoratore era riconosciuto un risarcimento pari alle retribuzioni, cui avrebbe avuto diritto dalla data di scadenza del contratto a termine sino all’effettiva ripresa del lavoro, ma, piuttosto, deve essere quantificata alla luce di parametri diversi (dimensioni azienda, anzianità lavorativa, comportamento delle parti); questa decisione consentirà di far ripartire quelle migliaia di cause di lavoro, che si erano arenate su questo tema, con decisioni parziali o rinvii ripetuti [2].-
2. LE DUE ORDINANZA DI RIMESSIONE. LE RAGIONI
A questo punto occorre segnalare le due ordinanza di rimessone, con le quali è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale in riferimento alle stesse disposizioni in parola [3].-
Infatti, già il Giudice del Tribunale di Trani aveva, con ordinanza del 20 dicembre 2010, sollevato la questione di legittimità delle disposizioni di cui ai commi 5, 6 e 7 dell’art. 32, con riguardo agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost., “principalmente per la disparità di trattamento, che sarebbe venuta a determinarsi per effetto della previsione di un’indennità omnicomprensiva diretta a “contenere le lungaggini del processo”, per non parlare della perdita del diritto alla ricostruzione previdenziale del rapporto di lavoro”. –
Per il Giudice del Tribunale di Trani, dott.ssa Maria Antonietta Lanotte Chirone “Non avrebbe alcun senso logico (prima ancora che giuridico) parlare di conversione (e, quindi di ricostruzione ex tunc) di un rapporto, se a questa non si ricolleghi pure il diritto del lavoratore a percepire- così come accade per i licenziamenti illegittimi intimati in area di stabilità reale – tutte le retribuzioni (a partire dalla lettera di messa in mora e fino all’effettiva reintegra, al netto dell’aliunde perceptum) e, soprattutto, il diritto a beneficiare della regolarizzazione della posizione contributiva” [4].-
A ciò si aggiunge la questione di legittimità avanzata, in riferimento all’art. 32, commi 5 e 6, con ordinanza del 20 gennaio 2011, n. 2112 dalla Corte di Cassazione.-
Secondo la Cassazione l’indennità, definita come onnicomprensiva, “acquista significato solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore, indennitario o risarcitorio: pertanto, i commi 5 e 6 escludono ogni tutela reale e lasciano la possibile, grave sproporzione fra indennità e danno effettivo, connesso al perdurare dell’illecito”; con ciò dimostrando, non solo di essere in contrasto con i principi di ragionevolezza nonché di effettività del rimedio giurisdizionale di cui agli artt. 3, comma 2, 24 e 111 Cost., ma anche di ledere il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dall’art. 4 Cost: inoltre, la sproporzione tra la tenue indennità ed il danno, che comporterebbe, per contro, lo spostamento sul datore di lavoro di comportamenti da qualificarsi come dilatori, assecondando le lungaggini del processo, sembra contravvenire all’accordo quadro sul contratto a tempo determinato e alla direttiva comunitaria 1999/70, che impone agli stati membri di “prevenire efficacemente l’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.-
I sostenitori di questa tesi sostenevano che una diversa interpretazione avrebbe portato a seri dubbi di legittimità costituzionale della norma, in particolare nel caso in cui la durata del processo fosse stata tale da rendere l’indennità in questione insufficiente a coprire il reale depauperamento del lavoratore. In primo luogo, in tal modo, si configurerebbe la violazione dell’art. 3 Cost., giacché due lavoratori a termine, che avessero subito lo stesso illecito, sarebbero trattati diversamente, ottenendo un risarcimento sufficiente o incongruo a seconda della durata del processo. Il lavoratore a termine sarebbe trattato differentemente, quanto alla tutela risarcitoria, anche rispetto a ogni altro lavoratore, che avesse illegittimamente perduto il posto di lavoro nell’ambito della tutela reale: quest’ultimo percepirebbe l’integrale ristoro delle retribuzioni perdute (ex art. 18 SL o in base ai principi comuni nel caso di licenziamento nullo o di applicazione dell’art. 27 D. Lgs. 276/03), a differenza del lavoratore a termine che, nonostante la tutela reale, potrebbe percepire un trattamento risarcitorio insufficiente a coprire tutte le retribuzioni perdute.-
In secondo luogo, verrebbe violato l’art. 36 Cost., giacché il lavoratore (pur in pendenza del rapporto, per effetto della ricostituzione a opera del giudice) sarebbe almeno in parte privato della retribuzione equa e sufficiente. Infine, sarebbe violato il principio del giusto processo ex art. 24 Cost.: evidentemente, il limite al risarcimento massimo incentiverebbe comportamenti processuali dilatori da parte del datore di lavoro.-
Gli Ermellini del Collegio rimettente dubitavano della legittimità costituzionale delle disposizioni censurate, nella parte in cui stabilivano che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il risarcimento del lavoratore, illegittimamente estromesso alla scadenza del termine, doveva ragguagliarsi ad una indennità onnicomprensiva da liquidare tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, alla stregua dei criteri dettati dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Nome sui licenziamenti individuali) (art. 32, comma 5); che il limite massimo dell’indennità sarebbe dovuto essere ridotto alla metà in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purché stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’àmbito di specifiche graduatorie (art. 32, comma 6); che tali disposizioni trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della predetta legge (art. 32, comma 7) [5].
Ad avviso del giudice rimettente le nuove disposizioni contrastano, anzitutto, con l’art. 3 Cost., sotto i profili della ragionevolezza e del divieto di discriminazioni.-
1- Sotto il primo profilo, perché la forfetizzazione del risarcimento operata mediante la liquidazione di una modesta indennità “onnicomprensiva”, tale da monetizzare persino il diritto indisponibile alla regolarizzazione contributiva e calcolata, oltre tutto, secondo i criteri inappropriati di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966, renderebbe irragionevolmente irrilevante, anche a fronte della ricostituzione ex tunc del rapporto sottesa alla disposta “conversione” di esso, il tempo che il prestatore di lavoro subordinato è costretto ad attendere per ottenere l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del termine, negandogli quanto, invece, l’ordinamento riconosce a tutti gli altri soggetti contrattuali nel caso di inadempimento delle loro controparti, ossia il diritto al pieno risarcimento del danno subìto. In tal modo, inoltre, il datore di lavoro sarebbe incoraggiato ad assumere un comportamento dilatorio ed ostruzionistico, onde ritardare, con ogni mezzo, il momento della definitiva pronuncia.
2- Quanto al secondo aspetto, le norme censurate discriminerebbero una serie di lavoratori versanti in situazioni comparabili, ossia coloro i quali ottengano incolpevolmente la pronuncia favorevole nei gradi successivi al primo rispetto a coloro i quali, invece, l’abbiano ottenuta già in primo grado, in quanto, a differenza di questi ultimi, non possono «tenere fuori dall’indennità “onnicomprensiva” le retribuzioni e i contributi successivi alla pronuncia di primo grado»; i lavoratori assunti a termine rispetto ad altre categorie di dipendenti precari, aventi diritto alla ricostruzione del rapporto di lavoro, sia sotto il profilo retributivo che sotto quello contributivo, secondo le consuete regole generali; i lavoratori assunti a termine con giudizio ancora pendente in primo grado nei confronti di coloro, la cui causa penda in appello o in cassazione, essendo le nuove disposizioni applicabili esclusivamente ai primi.
3- Sarebbero, inoltre, lesi, gli artt. 24, 101 e 102 Cost., perché il citato art. 32, ridimensionando la tutela già offerta dal diritto vivente, ricalcata dalle conclusioni rassegnate dal ricorrente nel suo ricorso giudiziale, ha finito per incidere sui princìpi della domanda e dell’interesse ad agire e, quindi, sul diritto all’azione, sino a minare, inoltre, con la sua efficacia retroattiva «la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto» e «la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico», oltre che «il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (v. citata la sentenza n. 209 del 2010).
4- Il giudice a quo ravvisava, infine, una violazione degli artt. 117, primo comma, 11 e 111 Cost., anche con l’interposizione dell’art. 6, primo comma, CEDU, nella misura in cui la norma di cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010, in mancanza dei “motivi imperativi di interesse generale”, che avrebbero potuto giustificarla, «cancella, con efficacia retroattiva, una parte rilevante di diritti (il risarcimento effettivo e la regolarizzazione previdenziale del rapporto) comunque riconosciuti al lavoratore dalla previgente normativa».-
3. LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
La Corte Costituzionale contesta punto per punto, demolendole, le due ordinanze di rimessione; vediamo nello specifico in che modo.-
Il dubbio posto dai giudici rimettenti s’incentrava sulla violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza del trattamento indennitario forfetizzato, introdotto dalla riforma in oggetto, rispetto al più sostanzioso risarcimento, che sarebbe stato assicurato dal “diritto vivente” ricavato dalla normativa generale di diritto comune.-
Per i Giudici della Corte Costituzionale “la disciplina dettata dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010 prende spunto dalle obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente, con l’esito di risarcimenti ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva. Tra le variabili più evidenti registratesi nella prassi, tutte pienamente consentite dal regime pregresso, basta citare l’identificazione del dies a quo del diritto al risarcimento del danno, a volte desunto da elementi formali od espliciti, ma più spesso ricavato da comportamenti concludenti, e la determinazione dell’aliunde perceptum da porre in detrazione dal pregiudizio concretamente risarcibile, talora esteso al percipiendum, ossia al guadagno che sarebbe lecito attendersi dal lavoratore diligentemente attivatosi nella ricerca di un nuovo posto di lavoro, con diversificate forme di utilizzazione, al riguardo, del ragionamento presuntivo. È in tale contesto, quindi, che deve inserirsi la novella in esame, diretta ad introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”.-
Così ricostruita la ratio legis, la normativa di riforma sfugge alle proposte censure di non ragionevolezza, anzi viene messo in evidenza come il lavoratore, illegittimamente assunto a termine, potrebbe – sempre secondo la Consulta – avere addirittura una tutela maggiore, alla luce della circostanza che garantisce a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, cioè la sua “stabilizzazione”.-
Quanto, poi, alla denunziata “insufficienza del trattamento forfettario previsto dalla disposizioni censurate”, la Corte Costituzionale stabilisce che “A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva, coprendo soltanto il periodo “intermedio”, quello che decorre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che, accertando la nullità della clausola, dichiara la conversione del rapporto a tempo indeterminato”.-
Tutto ciò, continua la Corte Costituzionale, per due decisivi punti: “in primo luogo, perché il legislatore ha pure introdotto, sub art. 32, commi 1 e 3, della legge n. 183 del 2010, un termine di complessivi trecentotrenta giorni per l’esercizio, a pena di decadenza, dell’azione di accertamento della nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro, fissandone la decorrenza dalla data di scadenza del medesimo.- Con l’effetto di approssimare l’indennità in discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla sentenza, avuto, altresì, riguardo ai princìpi informatori del processo del lavoro intesi ad accelerarne la definizione.-
In secondo luogo, perché il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum. Sicché, l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione. Con la conseguenza – continua la Consulta – che la disciplina in esame, confrontata con quella previgente, risulta, sotto tale profilo, certamente più favorevole al lavoratore”.-
Per la Corte Costituzionale, quindi, il Collegato Lavoro, sotto accusa, realizza un perfetto blianciamento, garantendo al lavoratore la conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, nonché un indennità che gli è dovuta sempre e comunque, e al datore di lavoro assicura la conoscenza preventiva, e massima, del risarcimento del danno che, in caso di soccombenza, sarebbe tenuto a liquidare al lavoratore.-
Anche sul punto della disparità di trattamento tra situazioni comparabili, si pensi al caso di un lavoratore che ottenga una situazione favorevole in tempi brevi rispetto a chi ne esca vittorioso a distanza di tempo, la Corte Costituzionale respinge le eccezioni di legittimità e statuisce che “Si tratta di inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche (come l’eccessiva durata dei processi in alcuni uffici giudiziari)” [6].-
Per quanto riguarda l’eccezione, sul punto, sollevata dal Tribunale di Trani [7], la Corte ritiene che “le ulteriori disparità di trattamento segnalate dal Tribunale di Trani, esse risentono dell’obiettiva eterogeneità delle situazioni. Ed infatti, il contratto di lavoro subordinato con una clausola viziata (quella, appunto, appositiva del termine) non può essere assimilato ad altre figure illecite, come quella, obiettivamente più grave, dell’utilizzazione fraudolenta della collaborazione continuativa e coordinata; a ciò si aggiunge che non ci sarebbe disparità di trattamento in danno dei lavoratori litiganti in primo grado rispetto a quelli con una causa già pendente in appello o in Cassazione, perché le disposizioni sono applicabili a tutti i giudizi, perché “non vi è alcuna ragione di differenziare il regime risarcitorio di situazioni lavorative sostanziali tutte ugualmente sub iudice”.-
Inoltre, e probabilmente questo è il punto più complesso della questione, secondo la Corte Costituzionale, diversamente da quanto eccepito dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Trani, non sono fondate le questioni di legittimità dell’art. 32, commi 5,6,7, della legge 183/2010 in relazione agli articoli 24,111 e 117 della Costituzione.-
Infatti, nel motivazione della Corte Costituzionale si legge quanto appresso: “Circa la violazione dell’art. 24 Cost. specificamente denunciata dal giudice rimettente, essa non sussiste. In realtà, come già si è osservato, la normativa di riforma – nel dettare una disciplina con effetti retroattivi – ha certamente inciso soltanto sul profilo sostanziale delle regole del risarcimento del danno prodotto dall’illegittima apposizione di una scadenza al contratto di lavoro, preservando, del resto, il nucleo della tutela richiesta dal ricorrente con le proposte domande di caducazione del termine e di ristoro del pregiudizio economico sofferto a cagione dell’interruzione del rapporto”.
Per quanto riguarda, poi, la violazione dell’art. 32, commi 5,6,7, della legge 183/2010 in relazione all’art. 117 della Costituzione, ma soprattutto dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come sostenuto dagli Ermellini e dal Tribunale di Trani, è necessario soffermarsi sul punto.-
Ad avviso dei giudici a quibus, in contrasto con il parametro costituzionale integrato dall’art. 6 CEDU (cui il rimettente pugliese affianca quelli tratti dagli artt. 11 e 111 Cost.), le disposizioni censurate segnerebbero un’ingiustificata intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, tale da influire sulla decisione di singole controversie o su un gruppo di esse. Con ciò, i lavoratori, già precariamente assunti, sarebbero privati di una parte dei diritti già riconosciuti in loro favore dalla normativa previgente, in difetto di “ragioni imperative di interesse generale”, che possano eccezionalmente autorizzare, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, un intervento del legislatore volto ad incidere sui processi in corso.-
Secondo la Corte Costituzionale neanche questa eccezione è fondata, perché “Con specifico riguardo all’art. 6 CEDU, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ripetutamente riconosciuto che «Se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo, sanciti dall’art. 6 ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia .[8]–
L’esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo evidenzia che il veto al legislatore d’interferire nell’amministrazione della giustizia è inteso ad evitare ogni influenza sulla soluzione giudiziaria di una controversia (o di un gruppo di controversie) di cui sia parte lo Stato, salvo che per imperative ragioni d’interesse generale.-
In effetti, pressoché in tutti i casi sopra richiamati, la violazione dei diritti sanciti dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU è stata ravvisata nel fatto che lo Stato fosse intervenuto in modo decisivo al fine di garantirsi l’esito favorevole di processi nei quali era parte.-
Alla luce dei princìpi enunciati dalla giurisprudenza europea, il contrasto denunciato dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Trani non sussiste.–
Ricorrono, infatti, tutte le condizioni in presenza delle quali la Corte di Strasburgo ritiene compatibili con l’art. 6 CEDU nuove disposizioni dalla portata retroattiva volte a regolare, in materia civile, diritti già risultanti da leggi in vigore.-
Questo perché, secondo la Corte, in primo luogo, la innovativa disciplina in questione è di carattere generale. Sicché, essa non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perché le controversie su cui essa è destinata ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine. Anzi, a ben vedere, lo Stato-datore di lavoro pubblico a termine, cui la regola della conversione del contratto a termine non si applica ai sensi dell’art. 36, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), non figura neppure tra i destinatari delle disposizioni censurate.-
Inoltre sussistono in ogni caso, con riferimento alla giurisprudenza della CEDU, motivi per giustificare un intervento del legislatore con efficacia retroattiva.-
Non è, dunque, sostenibile che la retroattività degli effetti dell’art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 – come disposta dal successivo comma 7 – abbia prodotto un’ingerenza illecita del legislatore nell’amministrazione della giustizia, onde alterare la soluzione di una o più controversie a beneficio di una parte, realizzando, viceversa, la parificazione di situazioni di fatto identiche, a prescindere dalla data di introduzione del giudizio.-
Né, di conseguenza, vi è la violazione del principio del giusto processo, in quanto il legislatore, attraverso il Collegato Lavoro, non ha voluto privilegiare nessuna parte, tanto meno quella pubblica.-
Per una migliore, e più rapida, comprensione della decisione della Corte Costituzionale, in questa sede si riepilogano i punti determinanti della motivazione della sentenza [9]:
a) che la limitazione a un’indennità variabile fra 2,5 e 12 mensilità del risarcimento dovuto al lavoratore in caso di dichiarazione di nullità del termine apposto al suo contratto di lavoro è legittima perché la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa non ha copertura costituzionale, purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento;
b) che l’adeguatezza ricorre nella specie, tanto più ove si consideri che non vi è stata medio termine alcuna prestazione lavorativa;
c) che la normativa impugnata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi, in quanto al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente a un’indennità di chiara valenza sanzionatoria, che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità, né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta; al datore di lavoro per altro verso assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data di interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore alla stabilizzazione;
d) che la nuova normativa è applicabile anche nei processi di secondo grado e di cassazione;
e) che la disparità di trattamento determinata dall’eccessiva durata dei processi in alcuni uffici giudiziari sono inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non discendono dalle disposizioni legislative censurate;
f) che l’ordinamento predispone particolari rimedi, come quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonché gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle controversie, di cui alla legge 24 marzo 2001 n. 89 (equa riparazione);
g) che il contratto di lavoro subordinato con una clausola viziata (quale appunto quella appositiva del termine) non può essere assimilato ad altre figure illecite, come quella, obiettivamente più grave, dell’utilizzazione fraudolenta della collaborazione coordinata e continuativa.
La prima diretta conseguenza della decisione della Corte Costituzionale è individuabile nella circostanza che, in caso di conversione di contratto a tempo determinato, il risarcimento del lavoratore illegittimamente estromesso alla scadenza del termine deve essere ragguagliato ad una indennità omnicomprensiva da liquidare tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto, allo stesso modo di come previsto dai criteri dettati dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali). Inoltre il limite massimo dell’indennità è ridotto alla metà in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purché stipulati con le organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione anche a tempo indeterminato di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie.-
Per autorevole dottrina [10], questa decisione pecca, tra l’altro, di astrattezza e può avere conseguenze negative per il funzionamento della giustizia.-
Infatti, “la sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2011 pecca, tra l’altro, di poca concretezza , in particolare quando definisce meri eventuali inconvenienti i pregiudizi che derivano ai lavoratori precari dalla lentezza della giustizia. La Corte non ignora che, nella maggior parte dei Tribunali, il tempo necessario all’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro è notevolmente superiore a 12 mensilità. Questa realtà non può essere ignorata, perché l’eguaglianza deve realizzarsi nei fatti (art. 3 della Costituzione). Rendendosi conto di ciò la Corte ha indicato come possibile rimedio alla lentezza dei processi la richiesta di misure cautelari e l’azione diretta ad ottenere l’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo. L’indicazione pecca di superficialità e non considera gli inconvenienti che potrebbero essere prodotti dai rimedi suggeriti, in termini di moltiplicazione delle controversie e di oneri finanziari per lo Stato. In particolare l’equa riparazione normalmente richiesta per i danni non patrimoniali, nel caso di processi relativi a contratti di lavoro a termine dovrebbe comprendere anche il pregiudizio patrimoniale della mancata percezione della retribuzione per l’intera durata della controversia”.-
Sembra opportuno, riportare qui, di seguito la tesi del Prof. Antonio Vallebona, che appare fortemente condivisibile: “L’«indennità» assorbe qualsiasi «risarcimento», come risulta dall’aggettivo «onnicomprensiva», che appalesa l’intenzione del legislatore di predeterminare e non di accrescere il risarcimento. Assorbe, quindi, sicuramente il risarcimento da mora accipiendi per il periodo dalla fine del lavoro alla sentenza dichiarativa della nullità del termine, secondo la qualificazione del consolidato orientamento anche delle Sezioni Unite, che, coerentemente con la natura risarcitoria e non retributiva del credito, impone l’offerta della prestazione e ammette la detrazione dell’aliunde perceptum e percipiendum.
Pertanto non è proponibile una valutazione in termini di retribuzione con riferimento all’art. 36 Costituzione, anche perché qui manca la prestazione lavorativa.-
Del resto la ragionevolezza, in conformità all’art. 3 Costituzione, del regime speciale, sotto tutti i punti di vista, è sicura perché sostituisce la liquidazione del risarcimento, finora effettuata caso per caso dal giudice anche mediante presunzioni semplici o giurisprudenziali sull’aliunde perceptum e percipiendum, con una indennità comunque dovuta a prescindere da un danno effettivo. I limiti dell’indennità predeterminati dal legislatore tengono conto, in un equilibrato bilanciamento degli interessi, del vantaggio per il lavoratore derivante dal mantenimento della regola di «conversione», senza neppure decadenza in caso di violazione delle regole sulla successione di contratti, e della intollerabile incertezza sull’ammontare del risarcimento appunto sostituendo una valutazione legale tipica alle ricordate presunzioni.
Non può dirsi, dunque, con superficialità che il nuovo regime sia per definizione peggiorativo del precedente per il lavoratore, poiché, in un mercato del lavoro con tanti posti rifiutati dagli italiani, da rendere necessarie sanatorie per centinaia di migliaia di extracomunitari, che li occupano, sarebbe davvero arduo sostenere che la diligente ricerca di una qualsiasi occupazione, tutte con pari dignità, possa normalmente superare i dodici mesi. Né potrebbe affermarsi che, nelle more a volte lunghissime della sentenza di “conversione”, ormai per definizione irrilevanti nel nuovo regime indennitario, il lavoratore possa restare in panciolle, sol perché non trova un’occupazione professionalmente equivalente a quella che spera di ottenere con detta sentenza. Il precedente regime, nei casi di lassismo giurisprudenziale, incentivava l’ignavia o, peggio, il lavoro nero, sicché la valutazione del nuovo regime non può prescindere da questa fondamentale considerazione, se davvero si hanno a cuore le sorti di un Paese che non può più consentirsi ipocrisie e condotte speculative” [11].-
Infatti, il ragionamento giuridico della Consulta, fondato su presupposti diversi, porta a conclusioni diverse: “la normativa impugnata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso; inoltre si deve tenere presente che il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum e, quindi, anche da questo punto di vista è, addirittura, più favorevole al lavoratore.-”
Secondo chi scrive, quindi, al lavoratore è assicurata la tutela maggiore, pur non ignorando la valenza delle obbiezioni sollevate da parte di chi è portatore di avviso contrario: infatti, la stabilizzazione del rapporto di lavoro è la protezione maggiore che possa essere riconosciuta ad ogni lavoratore (peraltro, precario); a ciò deve aggiungersi che l’indennità copre il periodo che va dalla scadenza del termine a quello della sentenza che ne accerti la nullità e che dichiari la conversione del rapporto di lavoro e poi perché il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum.-
Ed è proprio questo, il punto di rottura con la disciplina precedente: infatti, l’apparato sanzionatorio del termine illegittimo introduce nella nuova disciplina un trattamento più favorevole per il lavoratore, alla luce della circostanza che al medesimo viene riconosciuto il diritto alla conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, oltre ad un risarcimento del danno subito; trattamento, che non è previsto nella disciplina del pubblico impiego, dove è riconosciuto solo il diritto al risarcimento del danno, e non anche alla conversione, nonché nella disciplina comunitaria, dove il risarcimento del danno e la conversione del lavoro a tempo indeterminato sono soluzioni alternative, e non cumulabili, fra loro.-
La disciplina sanzionatoria introdotta dal Collegato lavoro
1)colpisce ogni ipotesi di termine illegittimo, sia nel caso di termine mancante, sia nel caso di abuso del termine, si tratta insomma di ipotesi variegate;
2) il regime dell’art. 32 della 183/2010, è altamente “democratico”, in quanto tiene conto di tutti i lavoratori indistintamente e non ha diversificazione di tutela, che, viceversa, si ha nel danno da licenziamento, dove vi è un regime differenziato a seconda del numero dei lavoratori (tutela obbligatoria e tutela reale);
3) è modificabile, in quanto bisogna tenere conto che, attraverso l’evoluzione del sistema normativo, è possibile mediante il contratto aziendale modificare il regime legale nazionale.-
Il punto chiave della vicenda, che evidenzia la ragionevolezza della scelta del legislatore, attraverso il recupero della certezza del diritto [12], è un altro.-
Infatti, il comma 1 art 32 stabilisce che il lavoratore ha l’onere di proporre l’azione entro 290 giorni (sotto pena di decadenza) dalla scadenza del termine illegittimo; in questo modo i tempi del processo si riducono, o perlomeno dovrebbero sensibilmente ridursi [13].-
Addirittura, come sostenuto dall’avvocato Pessi delle Poste Italiane [14], in un caso –frequente – di illegittimità formale, il risarcimento forfettario potrebbe addirittura essere maggiore rispetto ai mesi che, effettivamente, sarebbero intercorsi dalla scadenza del termine alla conversione del rapporto di lavoro.-
L’ultimo punto, sul quale effettivamente la Corte Costituzionale omette di pronunciarsi in maniere determinante, è quello del regime contributivo [15].-
Infatti, nel sistema previgente, a seguito della conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, si verificava la regolarizzazione della posizione contributiva, calcolata secondo criteri prestabiliti.-
Ora non vi è più nessuna copertura contributiva, in quanto il diritto alla contribuzione da diritto indisponibile del lavoratore (prima il lavoratore non poteva rinunciare ai contributi, o almeno poteva recuperali l’Istituto di Previdenza in maniera coattiva) ha perso questa caratteristica, diventando diritto disponibile del Legislatore, che lo ha del tutto obliterato.-
Questa novità dirompente, cioè la rinuncia alla regolarizzazione previdenziale ed assicurativa, della quale, come detto, la Corte omette (volontariamente?) di prendere posizione, è solo giustificabile alla luce della circostanza che in ogni caso, dalla scadenza del termine alla sentenza che converte il rapporto di lavoro, non vi è stata nessuna effettiva prestazione lavorativa.-
Avv. MicheleAlfredo Chiariello
Note
- Alcuni Tribunali, tenendo conto delle impugnative di costituzionalità proposte, emisero alcune pronunce di condanna parziale, cioè solo sulla conversione del rapporto, mentre hanno disposto la prosecuzione della causa per la definizione del risarcimento (A solo titolo esemplificativo si indicano le primissime sentenze del Tribunale di Roma 14 dicembre 2010 n. 19913 e Tribunale di Trani 6 dicembre 2010 n. 6952).-
- Questa eccezione – si anticipa qui – è stata rigettata, perché non fondata, in quanto già la stessa Corte di Cassazione ha ragionevolmente ritenuto che la norma debba applicarsi a tutti i giudizi, anche se pendenti in grado di legittimità come quello sottoposto al suo esame, in quanto “Non v’è alcuna ragione di differenziare il regime risarcitorio di situazioni lavorative sostanziali tutte ugualmente sub iudice”.-
- (sentenze Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis, § 49, serie A n. 301-B; Zielinski e Pradal & Gonzalez ed altri, § 57). […] inoltre […] l’esigenza della parità delle armi implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte (si vedano in particolare le sentenze Dombo Beheer B.V. c. Paesi Bassi del 27 ottobre 1993, § 33, serie A n. 274, e Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis, succitata, § 46)» (Agrati c. Italia, 7 giugno 2011, § 58; v., altresì, Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011, § 43, nonché, per una ricognizione dei casi sino ad allora trattati, sentenza di questa Corte n. 311 del 2009)
- Addirittura davanti alla Corte Costituzionale, le Poste Italiane si sono presentate con ben 4 avvocati, cosa che ha suscitato il richiamo del Presidente (“Non si è mai vista una cosa del genere”, afferma, avvertendo gli stessi avvocati che avrebbero avuti poco tempo per parlare- (L’intera seduta è ascoltabile su http://www.radioradicale.it/scheda/336840 )