IL COLLEGATO LAVORO 2010
ART 32 DELLA LEGGE 183/2010
“L’INDENNITA’ ONNICOMPRENSIVA”
PROFILI PROBLEMATICI, PRIME PRONUNCE ED
AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA NUOVA DISCIPLINA
di MicheleAlfredo Chiariello
SOMMARIO
• Precedenti legislativi e ratio dell’intervento legislativo;
• L’indennità onnicomprensiva;
• L’applicabilità della nuova disciplina ai giudizi pendenti.–
PRECEDENTI LEGISLATIVI E RATIO DELL’INTERVENTO LEGISLATIVO
Tra le tante modifiche apportate alla L. 183/10, quelle più dirompenti sul piano pratico sembrano essere quelle relative al contratto a termine. Non a caso, una norma della predetta legge, l’art. 32, è specificamente dedicata al contratto a termine, con il seguente titolo: “Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato“; ciò fa capire l’interesse mostrato dal legislatore nei confronti di questo istituto.-
Il legislatore negli ultimi anni è intervenuto con una certa frequenza nel diritto de lavoro con l’intento di modificare la regolamentazione di alcuni istituti, in relazione ai quali, giustamente, si può richiamare la felice similitudine che descrive il diritto del lavoro come un «cantiere aperto [1]».-
A questo destino non si è sottratta la disciplina del contratto a termine, che, dopo una fase di tranquillità, succeduta alla l. 18 aprile 1962, n. 230, è stata interessata da varie incursioni legislative, che, con alterne fortune e con ripensamenti, hanno reso un quadro d’insieme, che hanno provocato dibattiti, contrasti in dottrina ed in giurisprudenza, decisioni della Corte costituzionale, che, a loro volta, hanno ulteriormente arricchito la problematica relativa.-
A solo titolo esemplificativo basti pensare al D. Lgs. 368/01.-
Tutti i commentatori dell’epoca erano convinti che la riforma avrebbe provocato, tramite il passaggio dal sistema chiuso a quello aperto, una maggiore flessibilità nel ricorso a questa tipologia contrattuale; tuttavia, la giurisprudenza che si è sviluppata a seguito della richiamata disciplina del 2001, ha invece dimostrato che, con quella riforma, il ricorso al contratto a termine è divenuto paradossalmente meno flessibile, almeno per il datore di lavoro.-
La riforma del 2008 prevedeva una tutela appunto depotenziata nei confronti dei lavoratori a termine che avessero, alla data di entrata in vigore della riforma stessa, un giudizio pendente. Ma anche questo tentativo venne demolito dalla Corte costituzionale, che ne dichiarò l’illegittimità.-
In questa logica complessiva si colloca la l. 4 novembre 2010, n. 183, che con l’art. 32, in maniera particolarmente incisiva, ha modificato la disciplina del contratto a termine, in primo luogo per quanto riguarda la decadenza dalla relativa impugnazione: dispone, infatti, il co. 3 lett. d) che il regime delle decadenze contenuta nell’art. 6 della l. 15 luglio 1966 n. 604, come modificato dal co. 1 della stessa legge n. 183, si applica all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 e successive modifiche, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo. Il successivo co. 4, lett. a), verosimilmente nella logica di evitare un eventuale problema di costituzionalità, precisa che tale normativa si applica anche ai rapporti pendenti alla data in vigore della legge (nel qual caso l’impugnativa va proposta tenendo conto della scadenza del termine), nonché ai contratti a termine stipulati in forza di leggi previgenti al d.lgs. n. 368 e conclusi alla data in vigore della legge in commento, nel qual caso la decorrenza del termine per l’impugnativa è fissata dalla data di entrata in vigore della nuova legge.-
Con questo ardito intervento, quindi, si è introdotta una certa assimilazione, quanto alle decadenze, con il licenziamento invalido, ma, soprattutto, una evidente eccezione alla disciplina dell’azione di nullità, che— come è noto — non è sottoposta ad alcuna prescrizione (art. 1422 c.c.).-
L’intento perseguito dal legislatore è quello di evitare che questa azione, nella specie, possa essere fatta valere a distanza di anni dalla conclusione del rapporto, esponendo il datore di lavoro all’eventualità di essere chiamato a rispondere dei danni patiti dal lavoratore per il periodo intercorrente tra la cessazione del rapporto e la sentenza che accerti la nullità.-
Si tratta di una scelta condivisibile in un’epoca nella quale il ricorso a figure contrattuali flessibili è ampiamente diffuso e nella quale è quanto mai necessario che si abbia chiarezza su questi rapporti, ormai entrati a pieno titolo nell’attuale realtà socio-economica.
INDENNITA’ ONNICOMPRENSIVA
A distanza di poco più di 2 mesi dall’entrata in vigore, le novità apportate dal Collegato lavoro – legge n. 183/2010 – stanno dando adito ad ampi dibattiti e, conseguentemente, si iniziano a registrare i primi orientamenti giurisprudenziali.-
Infatti, copiose risultano essere le sentenze applicative delle nuove regole sull’impugnazione del contratto a termine e sulle conseguenze risarcitorie nei casi di conversione del contratto, in base a quanto previsto dall’art. 32 della legge n. 183/2010 [2].-
Pertanto, senza voler trattare qui della disciplina del contratto a termine e, in particolare, dell’effetto della declaratoria di nullità del termine apposto al contratto, la presente trattazione mira a fare un primo punto sugli orientamenti che si stanno affermando da parte della giurisprudenza.-
L’art. 32 [3], dal comma 5 in avanti, si concentra, sui contratti di lavoro a tempo determinato. In particolare, il comma 5 prevede, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato (evidentemente per difetto dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dal Dlgs n. 368/2001), la condanna del datore di lavoro a risarcire il lavoratore con un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8, legge n. 604/1966 [4]. –
Prima di entrare nel merito delle prime pronunce giurisprudenziali sul punto, è opportuno soffermarsi sulle diverse posizioni dottrinali in merito alla natura di questa problematica “indennità onnicomprensiva”, se sostitutiva (della conversione del rapporto e di ogni indennità risarcitoria ad essa connessa), alternativa o aggiuntiva rispetto alla disciplina generale.-
È stata prospettata la tesi che, non prevedendo la norma espressamente la condanna all’indennità come alternativa alla dichiarazione di nullità del termine, non vengono meno gli effetti che a tale accertamento conseguono, ossia, oltre alla continuità del rapporto ed al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate, anche l’indennità in oggetto.-
E’ stata poi prospettata la considerazione che, in tema di licenziamento illegittimo, il lavoratore ha diritto al risarcimento che va dall’illegittimo recesso alla reintegra (e comunque in misura non inferiore a cinque mensilità), nonché, qualora non opti per la continuazione del rapporto, a 15 mensilità (art. 18, co. 5, l. 20 maggio 1970, n. 300).
La tesi non si sottrae a rilievi critici.-
L’originario co. 4 bis aggiunto al d.lgs. n. 368 con l’art. 21 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133, del quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, prevedeva «unicamente» il pagamento di un indennizzo.-
La mancata riproduzione di tale avverbio nel co. 5 dell’art. 32 fa pensare che il legislatore non abbia più voluto escludere la dichiarazione di conversione del rapporto (e, quindi, della permanenza del vincolo tra le parti), ma non pure prevedere un indennizzo che si aggiunge al risarcimento per il periodo nel quale il lavoratore non è stato messo in condizione di prestare la sua opera.-
E che il legislatore abbia voluto intendere questo è dimostrato dal fatto che, essendo la dichiarazione di nullità del termine accompagnata dal diritto al ristoro dei danni per il periodo in cui il rapporto non ha avuto esecuzione, il co. 5 parla di «condanna […] al risarcimento del lavoratore, stabilendo un’indennità onnicomprensiva», espressione che ovviamente non può che riferirsi a quel danno, che il lavoratore ha subito. Del resto, proprio il richiamo alle conseguenze risarcitorie del licenziamento illegittimo, nel quale è previsto un indennizzo minimo pari a cinque mensilità, conferma che con l’art. 32 si è voluto forfettizzare il danno, sia pure in una fascia compresa tra 2,5 e 12 mensilità.-
Per un altro orientamento, completamente opposto, l’indennità di cui si parla deve essere considerata aggiuntiva anche al diritto del lavoratore di percepire le retribuzioni perdute dal giorno della messa in mora a quello della sentenza. Ancora una volta rileva il dato testuale della norma, che lega la condanna al pagamento dell’indennità alla conversione a tempo indeterminato del rapporto (che, come si è detto, è il frutto di una domanda diversa da quella, eventuale, finalizzata alla ricostituzione del rapporto). Ciò porta inevitabilmente a concludere che l’indennità rappresenta la sanzione all’illegittima apposizione del termine e non alla disdetta del contratto, tanto più che la quantificazione dell’indennità si fonda sui criteri ex art. art. 30 c. 3 L. 183/10 (dimensioni e condizioni dell’attività esercitata al datore di lavoro, situazione del mercato del lavoro locale, anzianità e condizioni del lavoratore, comportamento delle parti), che nulla hanno a che vedere con i requisiti relativi al pagamento delle retribuzioni perdute a seguito della disdetta del contratto (offerta della prestazione lavorativa, mancanza di fonte alternativa di reddito). Sul punto, come detto, è già intervenuta la giurisprudenza di merito [5] la quale, appigliandosi al semplice tenore letterale della norma, che qualifica l’indennità risarcitoria come onnicomprensiva, sostiene che la stessa sia da intendersi inclusiva di ogni risarcimento spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato (coerentemente a tale orientamento, anche dai lavori preparatori, nel dossier di documentazione del DDL 1441quater f, si desume che la previsione del risarcimento del danno si aggiunge e non sostituisce il ripristino del rapporto di lavoro […] non vi sia conflitto tra la conversione a tempo indeterminato e quella di definizione di risarcimento, anzi i due termini coabitano”); così si pronunciano Tribunale Milano 29 novembre 2010 nn. 4966 e 4971; 2 dicembre 2010, n. 5058, Tribunale di Trani 24 novembre 2010, n. 6808; Tribunale di Bari, 30 novembre 2010 n. 15017, Tribunale di Milano 29 novembre 2010 nn. 4966 e 4971; 2 dicembre 2010, n. 505; 11 gennaio 2011 e Tribunale Roma 16 dicembre 2010, n. 2970: quest’ultimo, in riferimento all’indennità risarcitoria, specifica che essendo “onnicomprensiva”, esclude che possa permanere il diritto del lavoratore al risarcimento da mora accipiendi relativamente al periodo tra la cessazione del rapporto e la sentenza dichiarativa della nullità del termine.-
Di diverso tenore è, invece, la decisione del Tribunale di Busto Arsizio 29 novembre 2010, n. 528 che, nel riconoscere la nullità del termine apposto al contratto, per la totale mancanza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive previste dall’art. 1 D.Lgs. n. 368/2001 – si trattava, peraltro, di un lavoratore assunto dalle liste di mobilità ai sensi dell’art. 8 della legge n. 223/1991 – ha dato applicazione alla indicata disposizione, prevedendo, da un lato, la conversione automatica del contratto, per nullità del termine e, dall’altro, la condanna del datore di lavoro al pagamento sia delle retribuzioni nel frattempo maturate, sia dell’indennità risarcitoria prevista dalla norma.-
Alcuni Tribunali, tenendo conto delle impugnative di costituzionalità proposte, hanno emesso alcune pronunce di condanna parziale, cioè solo sulla conversione del rapporto, mentre hanno disposto la prosecuzione della causa per la definizione del risarcimento (Tribunale di Roma 14 dicembre 2010 n. 19913 e Tribunale di Trani 6 dicembre 2010 n. 6952).-
A complicare l’applicazione delle disposizioni sopra riportate si segnalano due ordinanze, con le quali è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale in riferimento alle stesse disposizioni in parola. Infatti, già il Giudice del Tribunale di Trani [6] ha, con ordinanza del 20 dicembre 2010, sollevato la questione di legittimità delle disposizioni di cui ai commi 5, 6 e 7 dell’art. 32, con riguardo agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost., principalmente per la disparità di trattamento, che verrebbe a determinarsi per effetto della previsione di un’indennità omnicomprensiva diretta a “contenere le lungaggini del processo”, per non parlare della perdita del diritto alla ricostruzione previdenziale del rapporto di lavoro. Per il giudice del Tribunale di Trani “non avrebbe alcun senso logico (prima ancora che giuridico) parlare di conversione (e, quindi di ricostruzione ex tunc) di un rapporto, se a questa non si ricolleghi pure il diritto del lavoratore a percepire- così come accade per i licenziamenti illegittimi intimati in area di stabilità reale – tutte le retribuzioni (a partire dalla lettera di messa in mora e fino all’effettiva reintegra, al netto dell’aliunde perceptum) e, soprattutto, il diritto a beneficiare della regolarizzazione della posizione contributiva”.-
A ciò si aggiunge la questione di legittimità avanzata, in riferimento all’art. 32, commi 5 e 6, con ordinanza del 20 gennaio 2011, n. 2112 dalla Corte di Cassazione. Secondo la Cassazione l’indennità, definita come onnicomprensiva, “acquista significato solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore, indennitario o risarcitorio: pertanto, i commi 5 e 6 escludono ogni tutela reale e lasciano la possibile, grave sproporzione fra indennità e danno effettivo, connesso al perdurare dell’illecito”; con ciò dimostrando, non solo di essere in contrasto con i principi di ragionevolezza nonché di effettività del rimedio giurisdizionale di cui agli artt. 3, comma 2, 24 e 111 Cost., ma anche di ledere il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dall’art. 4 Cost: inoltre, la sproporzione tra la tenue indennità ed il danno, che comporterebbe, per contro, lo spostamento sul datore di lavoro di comportamenti da qualificarsi come dilatori, assecondando le lungaggini del processo, sembra contravvenire all’accordo quadro sul contratto a tempo determinato e alla direttiva comunitaria 1999/70, che impone agli stati membri di “prevenire efficacemente l’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.-
Per i sostenitori di questa tesi, una diversa interpretazione porrebbe seri dubbi di legittimità costituzionale della norma, in particolare nel caso in cui la durata del processo fosse tale da rendere l’indennità in questione insufficiente a coprire il reale depauperamento del lavoratore. In primo luogo, si configurerebbe la violazione dell’art. 3 Cost., giacché due lavoratori a termine, che avessero subito lo stesso illecito, sarebbero trattati diversamente, ottenendo un risarcimento sufficiente o incongruo a seconda della durata del processo. Il lavoratore a termine sarebbe trattato differentemente, quanto alla tutela risarcitoria, anche rispetto a ogni altro lavoratore, che abbia illegittimamente perduto il posto di lavoro nell’ambito della tutela reale: quest’ultimo percepirebbe l’integrale ristoro delle retribuzioni perdute (ex art. 18 SL o in base ai principi comuni nel caso di licenziamento nullo o di applicazione dell’art. 27 D. Lgs. 276/03), a differenza del lavoratore a termine che, nonostante la tutela reale, potrebbe percepire un trattamento risarcitorio insufficiente a coprire tutte le retribuzioni perdute [7].-
In secondo luogo, verrebbe violato l’art. 36 Cost., giacché il lavoratore (pur in pendenza del rapporto, per effetto della ricostituzione a opera del giudice) sarebbe almeno in parte privato della retribuzione equa e sufficiente. Infine, sarebbe violato il principio del giusto processo ex art. 24 Cost.: evidentemente, il limite al risarcimento massimo incentiverebbe comportamenti processuali dilatori da parte del datore di lavoro.-
Qui di seguito si riporta la tesi del Prof. Antonio Vallebona [8] , che appare fortemente condivisibile: “L’«indennità» assorbe qualsiasi «risarcimento», come risulta dall’aggettivo «onnicomprensiva» che appalesa l’intenzione del legislatore di predeterminare e non di accrescere il risarcimento. Assorbe, quindi, sicuramente il risarcimento da mora accipiendi per il periodo dalla fine del lavoro alla sentenza dichiarativa della nullità del termine, secondo la qualificazione del consolidato orientamento anche delle Sezioni Unite, che, coerentemente con la natura risarcitoria e non retributiva del credito, impone l’offerta della prestazione e ammette la detrazione dell’aliunde perceptum e percipiendum.
Pertanto non è proponibile una valutazione in termini di retribuzione con riferimento all’art. 36 Costituzione, anche perché qui manca la prestazione lavorativa.-
Del resto la ragionevolezza, in conformità all’art. 3 Costituzione, del regime speciale, sotto tutti i punti di vista, è sicura perché sostituisce la liquidazione del risarcimento, finora effettuata caso per caso dal giudice anche mediante presunzioni semplici o giurisprudenziali sull’aliunde perceptum e percipiendum, con una indennità comunque dovuta a prescindere da un danno effettivo. I limiti dell’indennità predeterminati dal legislatore tengono conto, in un equilibrato bilanciamento degli interessi, del vantaggio per il lavoratore derivante dal mantenimento della regola di «conversione», senza neppure decadenza in caso di violazione delle regole sulla successione di contratti, e della intollerabile incertezza sull’ammontare del risarcimento appunto sostituendo una valutazione legale tipica alle ricordate presunzioni.
Non può dirsi, dunque, con superficialità che il nuovo regime sia per definizione peggiorativo del precedente per il lavoratore, poiché, in un mercato del lavoro con tanti posti rifiutati dagli italiani, da rendere necessarie sanatorie per centinaia di migliaia di extracomunitari, che li occupano, sarebbe davvero arduo sostenere che la diligente ricerca di una qualsiasi occupazione, tutte con pari dignità, possa normalmente superare i dodici mesi. Né potrebbe affermarsi che, nelle more a volte lunghissime della sentenza di “conversione” ormai per definizione irrilevanti nel nuovo regime indennitario, il lavoratore possa restare in panciolle, sol perché non trova un’occupazione professionalmente equivalente a quella che spera di ottenere con detta sentenza. Il precedente regime, nei casi di lassismo giurisprudenziale, incentivava l’ignavia o, peggio, il lavoro nero, sicché la valutazione del nuovo regime non può prescindere da questa fondamentale considerazione, se davvero si hanno a cuore le sorti di un Paese che non può più consentirsi ipocrisie e condotte speculative”.-
Del resto, quand’anche si ritenesse il nuovo regime sfavorevole per il lavoratore rispetto al precedente, agevolmente sarebbe escluso qualsiasi dubbio di costituzionalità non solo per le assorbenti ragioni esposte, ma anche perché il legislatore ben può, nell’esercizio della sua ragionevole discrezionalità, ripartire tra le parti i rischi dell’incertezza in un processo lungo, evitando che questo possa accrescere la posta in gioco oltre un certo limite.-
Né si pongono problemi di conformità al diritto comunitario, che da un lato lascia al legislatore nazionale la scelta di prevedere «se del caso» la trasformazione, qui comunque confermata ex nunc, in contratto a tempo indeterminato della serie illegittima di contratti a termine, come è stato riconosciuto proprio per l’esclusione di tale regola nella disciplina italiana del lavoro pubblico, e dall’altro lato, ove pure fosse configurabile un regresso del livello generale di tutela, consente arretramenti purché riferibili ad un «valido motivo» di politica legislativa, qui, come si è visto, tuttavia, da dimostrare.-
Appare ragionevole anche la riduzione alla metà dell’indennità in esame, qualora, secondo la lettura preferibile, il lavoratore già occupato a termine scelga di non avvalersi del diritto all’assunzione a termine o a tempo indeterminato previsto dal contratto collettivo preferendo far valere la nullità del termine con le conseguenze di legge (art. 32, comma 6).-
Non è leso, infatti, il diritto di azione in giudizio e resta salvo, in caso di vittoria del lavoratore, l’accertamento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, riducendosi solo l’indennità per il passato quale incentivo alla adesione alla soluzione pacifica concordata dalle organizzazioni sindacali «comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».-
Alla luce di quanto la giurisprudenza sta producendo sul punto, appare chiaro che il dibattito, seppure ancora agli inizi, stante la recentissima promulgazione della legge, dopo un lungo travaglio, è ormai aperto; sicchè, dato il contrasto dottrinale e giurisprudenziale, doverosa è l’attesa di una pronuncia interpretativa della Corte Costituzionale.-
APPLICABILITA’ DELLA DISCIPLINA
Altra e connessa problematica su cui i giudici hanno iniziato a pronunciarsi [9] è data dalla previsione di cui al comma 7 dello stesso art. 32 [10], il quale riconosce l’applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6 anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del Collegato. Sul punto, si registrano due tesi contrapposte: la prima sostiene l’applicabilità della nuova norma ai soli giudizi pendenti in primo grado (Corte d’Appello di Roma 30 novembre 2010); la seconda, ritiene, invece, che la stessa debba essere riferita a tutti i giudizi, ivi compresi quelli in Cassazione (Cass. 20 gennaio 2011, n. 2112).-
Preliminarmente, bisogna osservare che attenendosi ad una rigorosa lettura letterale del testo di legge [11], il legislatore si riferisce ai soli giudizi pendenti in primo grado: infatti, il testo di legge l’art. 421 c.p.c., contemplato dalla norma, disciplina i poteri istruttori del giudice di primo grado, mentre i medesimi poteri del giudice dell’appello sono trattati all’art. 437, comma 2, c.p.c.; di qui la conseguenza che, non essendoci nessun riferimento ai poteri in appello del giudice, la norma non apparrebbe riferibile al secondo grado.- A maggior ragione, la norma non contempla i giudizi pendenti avanti la Corte di Cassazione, dove, come tutti sanno, non può esservi istruttoria.-
In ogni caso, la norma sembrerebbe di dubbia legittimità costituzionale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 311 del 2009, ha recepito, in virtù del rinvio realizzato tramite l’art. 117, 1° comma, Costituzione, il divieto di interventi legislativi retroattivi anche in materia civile, contemplando come eccezione la sola ipotesi che tali interventi retroattivi siano dovuti a motivi imperativi di interessi generali, così accogliendo l’interpretazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come proposta in alcune sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Per questo motivo, ogni disposizione retroattiva contenuta nella L. 183/10 è irrimediabilmente illegittima.-
Ma qui, come detto, si verrebbe a creare un notevole, e forse insuperabile, conflitto interpretativo, rispetto a quanto detto a proposito della disciplina dell’indennità onnicomprensiva.-
Altra parte della dottrina, tuttavia, ritiene che l’efficacia retroattiva è pienamente legittima, non trattandosi di norma penale ed essendo assolutamente ragionevole che il nuovo regime speciale investa, nel limite indicato, anche il passato, per le stesse esigenze, che ne hanno consigliato l’introduzione.-
Questa retroattività, oltretutto, soddisfa una esigenza di parificazione di trattamento di situazioni eguali a prescindere dalla data di introduzione del giudizio, evitando così proprio quella disparità, che ha fatto dichiarare incostituzionale la nota ricordata disposizione dell’art. 21, comma 1 bis, L. n. 133/2008, che modificava la disciplina per i soli giudizi in corso.-
Del resto è noto che l’unico limite di costituzionalità alla retroattività della legge in materia civile è la sua ragionevolezza o, meglio, non manifesta irragionevolezza.-
Mentre, nel caso in esame, per il detto orientamento, è completamente fuori luogo invocare la giurisprudenza della CEDU, in quanto: a) la Corte di Strasburgo ritiene che «in linea di principio non è vietato al legislatore di regolare in materia civile con nuove disposizioni retroattive diritti derivanti dalla legge in vigore» (CEDU, sez. III, 2 giugno 2007, c. 12106/03); b) la Corte costituzionale ha affermato che «deve escludersi l’esistenza di un principio, secondo cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto con la Convenzione europea», in quanto «la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto di ingerenza del legislatore» (Corte cost. n. 311/2009); c) un limite alla retroattività della legge civile, in base alla Convenzione europea, è ravvisato solo nella interferenza del legislatore «nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie attraverso norme interpretative, che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per lo Stato parte del procedimento, salvo il caso di ragioni imperative di interesse generale » (Cass. ord. di rimessione n. 400/2008, come riportata da Corte cost. n. 311/2009, che ha rigettato la questione); d) nel nostro caso si tratta di una norma, che non riguarda lo Stato parte, e che ha carattere generale, introducendo una nuova disciplina a regime dell’istituto, la cui retroattività non è conseguentemente diretta a interferire sulla decisione di specifiche controversie, ma a parificare il trattamento di situazioni eguali a prescindere dalla data di introduzione del giudizio, nel rispetto dei processi già decisi in primo grado.-
Pare opportuno, infine, segnalare, il recente orientamento giurisprudenziale in merito all’applicazione retroattiva della nuova disposizione. In particolare, si è chiarito che la retroattività della condanna, di cui all’art. 32, trova un limite qualora si sia già formato un giudicato sulla domanda di risarcimento, avendo quest’ultima un suo carattere di individualità ed autonomia rispetto alla domanda di declaratoria di nullità del termine apposto al contratto. Pertanto, nel caso in cui la statuizione relativa alla condanna risarcitoria non sia stata specificatamente impugnata, sulla stessa si formerebbe il giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c. (Cass. 3 gennaio 2011, n. 65).
Inoltre, secondo altro orientamento circa l’applicazione dello ius superveniens, in merito alle conseguenze economiche derivanti dalla conversione del contratto di cui all’art. 32, comma 5 e seguenti del Collegato, si è specificato che è necessario che i motivi del ricorso investano specificatamente la questione del risarcimento in maniera diretta e che essi non siano tardivi, generici o non pertinenti. Pertanto, in caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce, infatti, la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze (Cass. 4 gennaio 2011, n. 80).-
A parere di chi scrive, la norma va intesa come riferita solo ai giudizi pendenti in primo grado, come risulta dalla espressa previsione di integrabilità di domande ed eccezioni – non escluso il riferimento ai poteri istruttori di cui all’art. 421 c.p.c., caposaldo del processo di primo grado – e non dei motivi di impugnazione.- Anche perché l’applicazione in grado di appello o in Cassazione non solo prolungherebbe irragionevolmente la durata del processo, tra l’altro costringendo sempre ad una cassazione con rinvio, ma equivarrebbe ad un inopportuno travolgimento di una sentenza già emanata.-
Avv. MicheleAlfredo Chiariello
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Note
- Il Comma 3, estende l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 dello stesso a tutti “i licenziamenti che presuppongano controversie aventi ad oggetto sia la corretta qualificazione del rapporto di lavoro sia la legittimità dell’apposizione del termine al contratto” (lett. a) ed anche all’azione di nullità del termine apposto in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 (disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali) e 4 del D.lgs 368/2001, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo (lett. d).
– Comma 4: Estensione della disciplina della legge sui licenziamenti individuali, così come novellata, ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del D.lgs 368/2001 in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della legge di riforma (lett. a) e già conclusi alla data di entrata in vigore del Collegato e con decorrenza dalle medesima (lett. b).
– Comma 5 (Indennità onnicomprensiva): “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al solo risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
– Comma 6 (Ipotesi di riduzione dell’indennità): “In presenza di contratti o accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto della metà.”
– Comma 7 (Disciplina di cui ai commi 5 e 6 e giudizi pendenti): “Quanto statuito nei due commi precedenti trova applicazione rispetto a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della riforma, con la specificazione per cui, in riferimento a questi ultimi, e ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 del codice di procedura civile”. - Quanto all’ambito di applicazione dell’indennità sostitutiva, si evidenzia come il Collegato utilizzi una formula ampia, riferendosi genericamente “ai contratti a termine”, il che non esclude espressamente tipologie contrattuali diverse dal lavoro a tempo determinato ex art. 368/2001 (nelle prime sentenze, 30 novembre 2010 n. 18986 e 1° dicembre 2010, n. 19101, il Tribunale di Roma, considera pacifica l’applicabilità dell’indennità sostitutiva del risarcimento ai casi di somministrazione irregolare, il tribunale di Milano parrebbe di diverso avviso).-
- È opportuno segnalare che resta la differenza di disciplina rispetto al lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in quanto, ai sensi dell’art. 36, co. 6, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, la violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori non può mai comportare la costituzione di rapporti a tempo indeterminato, ma il lavoratore ha solamente diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni normative.-
- Rassegna di giurisprudenza prelevata dalla banca dati giuridica Lex24 (www.lex24.ilsole24ore.com)
Tribunale Milano 29 novembre 2010 n. 4966: “Nel caso di scadenza di un contratto di lavoro a termine illegittimamente stipulato e di comunicazione da parte del datore di lavoro della conseguente disdetta, non è applicabile – tenuto conto della specialità della disciplina della L. n. 230/1962 e della qualificabilità dell’azione diretta all’accertamento dell’illegittimità del termine come azione di nullità parziale del contratto e non come impugnazione del licenziamento – la norma dell’art. 18 L. n. 300/1970 relativa alla reintegrazione nel posto di lavoro. Il contratto, come dice l’art. 32, c. 5 della L. n. 183/2010, si converte in contratto a tempo indeterminato. In casi del genere, non spetta la retribuzione, e questo anche se la parte ricorrente avesse provveduto ad offrire la prestazione all’azienda, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro. Inoltre, vista l’onnicomprensività dell’indennizzo in tal modo specificato, non va considerato l’aliunde perceptum”.-
Tribunale di Milano 29 novembre 2010 n. 4971 :”L’art. 32, c. 5 della L. n. 183/2010 conferma che all’illegittima apposizione di termine finale al rapporto di lavoro consegue la conversione in rapporto a tempo indeterminato: a tale conversione consegue il diritto del ricorrente al risarcimento del danno da stabilirsi in ?un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604?: pertanto, tale indennità è da intendersi inclusiva di ogni risarcimento spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato”.
Tribunale di Milano 2 dicembre 2010 n. 5058: “Quanto alle conseguenze economiche della statuizione dell’illegittimità del termine apposto al contratto si considera che sul punto è intervenuto l’art 32, c. 5 della L. n. 183/2010 che prevede un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604: l’indennizzo è da intendersi come sostitutivo del risarcimento del danno ma si cumula alla conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato”.
Tribunale Roma 16 dicembre 2010 n. 2970: “In riferimento all’indennità risarcitoria di cui all’art. 32, c. 5 della L. n. 183/2010, conseguente alla conversione del contratto a tempo determinato, si specifica che, essendo onnicomprensiva, esclude che possa permanere il diritto del lavoratore al risarcimento da mora accipiendi relativamente al periodo tra la cessazione del rapporto e la sentenza dichiarativa della nullità del termine”.
Tribunale di Milano 25-2-2011: “L’indennità forfettaria prevista nella norma (fra 2,5 e 12 mensilità) deve ritenersi sostitutiva e non aggiuntiva dell’indennità ordinaria”.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro , Ordinanza del 28 gennaio 2011, n. 2112: “L’indennità prevista dall’articolo 32, commi 5 e 6, della legge 4 novembre 2010 n. 183, esclude qualsiasi altro credito, indennitario o risarcitorio, del lavoratore e si applica, alla stregua del comma 7, anche ai giudizi pendenti in Cassazione. Non sono manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 32, commi 5 e 6, della legge citata, con riferimento agli articoli 3, 4, 24, 111 e 117 della Costituzione”.
Tribunale Busto Arsizio Civile, Sentenza del 29 novembre 2010, n. 528: “La mancata indicazione, in forma scritta, delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che giustificano il ricorso alla fattispecie del lavoro a tempo determinato comporta la conversione del rapporto, al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni non percepite dalla messa in mora sino alla riammissione in servizio, nonché, alla luce della recente novella legislativa introdotta con legge n. 183/2010,l’obbligo di corrispondere al prestatore una sanzione economica compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”.
Tribunale di Busto Arsizio, 29 novembre 2010 n. 528: “In caso di nullità del termine apposto al contratto, per la totale mancanza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive previste dall’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 – nel caso di specie si tratta di un lavoratore assunto dalle liste di mobilità ai sensi dell’art. 8 della L. n. 223/1991 – si applica la disposizione di cui all’art. 32 c. 5 della L. n. 183/2010: quest’ultima prevede da un lato, la conversione automatica del contratto, per nullità del termine e, dall’altro, la condanna del datore di lavoro al pagamento sia delle retribuzioni nel frattempo maturate, sia dell’indennità risarcitoria prevista dalla novella: pertanto, l’indennità introdotta dal collegato lavoro è da intendersi in via cumulativa – e non invece, in via alternativa – rispetto alla tutela risarcitoria ordinaria”.
Tribunale di Trani, ordinanza del 20 dicembre 2010: “Le disposizioni di cui ai c. 5, 6 e 7 dell’art. 32, evidenziano un contrasto con riguardo agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost. principalmente per la disparità di trattamento che verrebbe a determinarsi per effetto della previsione di un’indennità omnicomprensiva diretta a contenere le lungaggini del processo, per non parlare della perdita del diritto alla ricostruzione previdenziale del rapporto di lavoro. Non avrebbe alcun senso logico (prima ancora che giuridico) parlare di conversione (e, quindi di ricostruzione ex tunc) di un rapporto, se a questa non si ricolleghi pure il diritto del lavoratore a percepire – così come accade per i licenziamenti illegittimi intimati in area di stabilità reale – tutte le retribuzioni (a partire dalla lettera di messa in mora e fino all’effettiva reintegra, al netto dell’aliunde perceptum) e, soprattutto, il diritto a beneficiare della regolarizzazione della posizione contributiva. Infatti, il lavoratore, che è illegittimamente assunto a termine, finisce per diventare un moderno capite deminutus a cui vengono negati i diritti riconosciuti agli uomini liberi: il che comporta la violazione di una quantità incredibile di norme costituzionali…[…].l’art. 32 della L. 183/2010, omettendo di dare rilevanza alle lungaggini processuali e contenendo ingiustificatamente l’importo risarcibile, finisce per farne pagare il costo solo all’incolpevole lavoratore, nonostante che questi non possa porre in essere comportamenti virtuosi, tesi cioè a limitare l’entità del danno risarcibile”. - Corte d’Appello di Roma 30 novembre 2010 : “In merito al c. 7 dell’art. 32 della L. n. 183/2010, il quale recita ?le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, si opina che la tesi dell’applicabilità della norma sopravvenuta ai soli giudizi pendenti in primo grado meglio si concilia con i limiti derivanti dalle regole che governano il giudizio d’appello, nell’ambito del quale, all’esito del progressivo verificarsi di effetti preclusivi derivanti dal tenore dei motivi di censura e dai comportamenti processuali delle parti, la materia del contendere viene via via a ridursi, con la conseguenza che tutto quanto non risulta essere più dibattuto (o mai dibattuto), resta insensibile alla nuova disposizione legislativa, la cui applicazione presuppone specifiche deduzioni anche in punto di fatto.)”
Cassazione, ordinanza 20 gennaio 2011 n. 2112: “Prendendo a fondamento il dato letterale della disposizione di cui al c. 7 dell’art. 32 della L. n. 183/2010, il quale recita ?le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, si ritiene che la stessa debba essere riferita a tutti i giudizi, ivi compresi quelli in Cassazione. Infatti ?la soluzione negativa equivarrebbe a discriminare tra situazioni diverse in base alla circostanza, del tutto accidentale, di una pendenza della lite giudiziaria, in una o altra fase, tra le parti del rapporto di lavoro. Inoltre, l’indennità, definita come onnicomprensiva, acquista significato solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore, indennitario o risarcitorio: pertanto, i commi 5 e 6 escludono ogni tutela reale e lasciano la possibile, grave sproporzione fra indennità e danno effettivo, connesso al perdurare dell’illecito. Con ciò dimostrando, non solo di essere in contrasto con i principi di ragionevolezza, nonché di effettività del rimedio giurisdizionale di cui agli artt. 3, 2° c., 24 e 111 Cost., ma anche di ledere il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dall’art. 4 Cost. La sproporzione tra la tenue indennità ed il danno, che comporterebbe, per contro, lo spostamento sul datore di lavoro di comportamenti da qualificarsi come dilatori, assecondando le lungaggini del processo, sembra contravvenire all’accordo quadro sul contratto a tempo determinato e alla direttiva comunitaria 1999/70, che impone agli stati membri di prevenire efficacemente l’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.
Cassazione 3 gennaio 2011, n. 65 “In merito all’applicazione retroattiva della nuova disposizione di cui all’art. 32, c. 5 e seguenti della L. n. 183/2010, si è chiarito che la retroattività della condanna di cui allo stesso art. 32 trova un limite qualora si sia già formato un giudicato sulla domanda di risarcimento, avendo quest’ultima un suo carattere di individualità ed autonomia rispetto alla domanda di declaratoria di nullità del termine apposto al contratto. Pertanto, nel caso in cui la statuizione relativa alla condanna risarcitoria non sia stata specificatamente impugnata, sulla stessa si formerebbe il giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c”.
Cassazione 4 gennaio 2011, n. 80 “Circa l’applicazione dello ius superveniens, in merito alle conseguenze economiche derivanti dalla conversione del contratto di cui all’art. 32, c. 5 e seguenti della L. n. 183/2010, si è specificato che è necessario che i motivi del ricorso investano specificatamente la questione del risarcimento in maniera diretta e che essi non siano tardivi, generici o non pertinenti. Pertanto, in caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze”.
L’Ufficio del massimario della Corte di Cassazione ha altresì presentato, il 12 gennaio 2011, una approfondita relazione tematica che affronta le “problematiche interpretative dell’art. 32, commi 5-7, della legge n. 183/2010 alla luce della giurisprudenza comunitaria, CEDU, costituzionale e di legittimità”.
La Suprema Corte giunge alla seguente conclusione: “Da tutto quanto ampiamente fin qui rilevato, emerge che, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e comunitariamente adeguata, in linea con il principio di effettività ed adeguatezza delle sanzioni, con il principio di parità di trattamento e con la clausola di non regresso delle tutele, l’indennità di cui all’art. 32, commi. 5-6, della legge n. 183 del 2010 può ritenersi essere aggiuntiva rispetto alle tradizionali tutele (incidendo solo sulla limitazione del danno risarcibile), dovendo escludersi per converso che essa possa essere sostitutiva della conversione del rapporto, o del diritto al pagamento delle retribuzioni da parte del datore che abbia rifiutato la prestazione offerta, pur dopo la scadenza del termine illegittimamente apposto.
Osserva l’Ufficio del Massimario che la nuova disciplina, applicabile anche nei giudizi pendenti, da un lato si riferisce ai casi di “conversione”, dall’altro lato prevede a carico del datore una indennità “onnicomprensiva”; il comma 6 ulteriormente ridimensiona le conseguenze risarcitorie che scaturiscono dall’accertamento della natura indeterminata del rapporto, riducendo della metà l’indennità in presenza di contratti o accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie: la regola attiene all’ipotesi in cui, verosimilmente per far fronte a un contenzioso seriale di notevole dimensione, le parti sociali abbiano predisposto una graduatoria nominativa dei lavoratori già occupati a termine, per i quali sia prevista nel tempo l’assunzione a tempo indeterminato o a termine, e, nondimeno, il lavoratore abbia agito in giudizio per far valere la nullità, senza attendere la maturazione del proprio diritto secondo la convenzione. - Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennita’ di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’articolo 421 del codice.