Cari amici, riprendo la consuetudine – spero gradita – di aggiornarVi sulla mia attività di delegato presso l’Organismo Unitario dell’Avvocatura, dopo un’estate lunga e bollente e non soltanto dal punto di vista climatico.


La nostra categoria è stata fatta oggetto di pesanti attacchi, alcuni dei quali – ahinoi – trasformatisi in provvedimenti normativi (manovra e manovra bis), redatti non tanto (o non soltanto) per vere e proprie esigenze di cassa di uno Stato in gravissima crisi economica, ma piuttosto per assecondare spinte di potentati economici, sostenuti da maitres a penser (o presunti tali), che su tutti i principali giornali italiani  hanno invocato “fantomatiche“ liberalizzazioni delle professioni.


Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: un nuovo (ennesimo) aumento del contributo unificato, esteso, per la prima volta – sia pure con ampie fasce di esenzione – al processo del lavoro e previdenziale, oltre che a quello tributario ed alle procedure in tema di separazione e divorzio; la punitiva (nei confronti degli avvocati) imposizione di indicare nell’atto introduttivo del giudizio, oltre al codice fiscale, anche l’indirizzo PEC, laddove la maggior parte della Pubbliche Amministrazioni e degli stessi Uffici Giudiziari, con cui gli avvocati dovrebbero interloquire tramite posta elettronica certificata, non ne sono tuttora dotati; la scellerata previsione, in caso di violazione della disposizione predetta, di un ulteriore aumento (pari al 50%) del contributo unificato; la previsione di sanzioni disciplinari obbligatorie (che neppure il Consiglio dell’Ordine potrà impedire, con evidente violazione della riserva in tema di giurisdizione disciplinare riconosciuta agli Ordini ed, in secondo grado, al CNF), nel caso di mera contestazione (e non già di vero e proprio accertamento!) di un certo numero (4 in giorni diversi, in un quinquennio) di mancate fatturazioni; l’introduzione di alcuni principi (fra i quali mi sembra opportuno segnalare le nuove regole sulla disciplina con separazione fra le funzioni meramente amministrative di Ordini e CNF da quelle disciplinari, che sarebbero affidate a organismi di disciplina diversi, nonché le norme a tutela della concorrenza: dal patto di quota lite, alla libera pubblicità, fino alla pattuizione per iscritto del compenso) cui dovranno uniformarsi le leggi professionali, con non meglio giustificate eccezioni per le professioni sanitarie, i farmacisti ed i notai; la revisione della geografia giudiziaria con un taglio di numerosi Tribunali minori (in Puglia l’unico a rischiare concretamente la chiusura sarebbe quello di Lucera), e ancor più drastico di sezioni distaccate (dovrebbero residuare solo quelle circondariali) e di uffici del  Giudice di Pace, con delega al Governo per rendere operativo, attraverso l’emanazione di decreti legislativi, il nuovo assetto geografico degli uffici giudiziari.


E’ inutile continuare con l’elenco delle (quasi tutte nefaste) novità, mi soffermo un attimo sulla mediazione, sulla quale registriamo un comportamento schizofrenico del legislatore, che, per un verso (d.m. 145 del 6/7/2011) codifica la prassi, suggerita dall’OUA nel suo vademecum dell’aprile 2011, e seguita dalla maggior parte degli organi di conciliazione pubblici, istituiti cioè da Camere di Commercio e Ordini Professionali, di fare pagare un importo minimo (variabile fra €. 40,00 e €. 50) a coloro che abbiano dato inizio ad un procedimento di mediazione, a cui l’altra parte non abbia preso parte. Per altro verso,  è stata introdotta nella legge di conversione del d.l. 138/2011, al comma 35 sexies dell’art. 2, la disposizione in virtù della quale “Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio“. Il che vale anche nei casi in cui quella parte risulti vittoriosa nel giudizio.


Si tratta di norma assurda e meritevole di un nuovo rinvio alla Corte Costituzionale. Appare, invero, poco conforme ai principi costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo applicare una sanzione a chi, consapevole dell’infondatezza dell’avversa domanda, non partecipi al procedimento di mediazione (peraltro molto oneroso) e risulti poi vittorioso nel successivo giudizio.


Tornando al tema centrale del mio intervento, l’OUA ha fortemente contrastato con documenti ufficiali le novità introdotte dal legislatore, si è anche fatto promotore di emendamenti, veicolati tramite la Commissione Giustizia del Senato, che sono riusciti quanto meno ad evitare una più incisiva equiparazione fra impresa e  libera professione, tradottasi nell’eliminazione nella legge di conversione, rispetto al testo originario dell’art. 3 del D.L. 138/2011 dell’inciso “in  attesa della revisione dell’art.41 della Costituzione”.


Non si tratta di novità di poco conto, perché serve ad evitare ogni confusione fra libera professione ed impresa, che aveva contraddistinto invece il testo originario del d.l.


L’Avvocatura italiana, invero, forte di numerose pronunzie in tal senso anche della Corte di Giustizia Europea, tende a contestare l’equiparazione fra professioni ed imprese, in nome della quale spinte liberiste hanno tentato di far passare provvedimenti iniqui, quali la soppressione degli ordini Professionali, il libero accesso alla professione – senza neppure il filtro di un esame di ammissione – e finanche la perdita di valore giuridico della laurea.


La lettura delle tesi dei fautori di questo selvaggio processo di liberalizzazione in atto lascia sconcertati e ci rende sempre più convinti che non si abbia nessuna conoscenza del fenomeno che si intende disciplinare.


Chi di noi già da qualche anno svolge la professione forense sa  benissimo che gli avvocati si sono quasi quadruplicati negli ultimi 20 anni (i 57.000 avvocati iscritti agli albi del 1990 sono diventati più di 216.000 nel 2010), che la componente femminile è aumentata in modo ancor più rilevante (secondo gli ultimi dati forniti da uno studio delle Camere Civili, le donne iscritte agli albi sono quasi centomila, con una percentuale pari al 45% del totale di circa 216.000), che moltissimi sono i giovani (circa il 60% del totale) e che, con un’enorme differenza rispetto al passato, moltissimi sono gli avvocati che non hanno “ereditato” da uno stretto congiunto lo studio professionale.


Il che equivale a dire che l’accesso alla professione è più che liberalizzato, che il merito è ancora in qualche modo garantito,  che la componente femminile nella nostra professione riesce a trovare spazio ed anche ad affermarsi con maggiore facilità che nelle altre libere professioni e in generale nel mondo del lavoro o in quello della rappresentanza politica.


Peraltro, davvero non si comprende come ad essere fautori del libero accesso alla professione e della scomparsa degli albi professionali e degli ordini, siano gli stessi opinion leaders ed economisti che sostengono – anche con qui con scarsa fantasia e con poca aderenza alla realtà – che la durata dei processi e l’aumento del numero di cause siano dovuti al troppo elevato numero di avvocati.


Ed allora decidiamo una volta per tutte: gli avvocati italiani sono troppi o troppo pochi? L’accesso alla professione è troppo agevole o bisogna renderlo completamente libero? Il numero delle cause aumenterà o diminuirà se l’accesso alla professione sarà privo di qualsivoglia controllo? I parlamentari-avvocati sono una lobby, ovvero sono così deboli ed inascoltati da non essere riusciti ad approvare una riforma della legge professionale che si attende da più di mezzo secolo anni, o la revoca delle lenzuolate di Bersani che il governo di centro-destra si era impegnato ad eliminare sin dal suo insediamento?


Temo che questi falsi problemi possano distogliere l’attenzione da altre più importanti questioni.


La crisi dell’avvocatura è una crisi di immagine, ma anche e soprattutto una crisi economica. Ai grandi numeri che  precedono e che riguardano la quantità  degli avvocati (uomini, donne e giovani) fanno da preoccupante contraltare quelli relativi al loro reddito in costante e preoccupante discesa


Anche qui, messo per un attimo in disparte il tema dell’evasione fiscale, i numeri sono devastanti nella loro triste e fredda realtà: oltre 55.000 avvocati iscritti agli albi non si iscrivono alla Cassa Forense, in quanto non raggiungono il reddito minimo; oltre 50.000 avvocati, infatti, hanno un reddito pari o addirittura inferiore a 0; oltre il 20% non supera il reddito annuo di 10.000,00 euro; il 35% (e cioè la fascia più ampia) si colloca nella forbice reddituale che va da €. 10.000 ad €. 43.250.000 annui; meno del 5%  sono i colleghi che superano questo limite fino ad €.150.000,00; soltanto il 4% supera i 150.000,00 di reddito.


Durante il Congresso di Genova di Novembre scorso, una delle relazioni più apprezzata è stata quella del Prof. Victor Uckmar, che ha tracciato con molta chiarezza ed altrettanta durezza il quadro del declino economico dell’avvocatura italiana, che ha risentito moltissimo della crisi economica che ha colpito il mondo occidentale a partire dall’inizio del nuovo millennio, con le punte disastrose del 2008: grandi studi che intervengono con profondi tagli di personale, in corrispondenza di vistose riduzioni di fatturato; giovani e meno giovani non in grado persino di iscriversi alla cassa di previdenza, ovvero, se iscritti, di pagare con puntualità i contributi; generalizzata carenza di fiducia verso la soluzione giudiziaria delle controversie, per la loro durata incerta e, comunque, eccessiva e per costi spesso insostenibile per imprese e privati, a loro volta attanagliati dalla crisi.


Nei giorni del solleone e in quelli immediatamente successivi, la politica forense si è interrogata su quali forme utilizzare per protestare contro gli interventi legislativi innanzi citati e ancor più per contrastare lo sciagurato disegno di ulteriore liberalizzazione delle professioni.


Rispetto ad un atteggiamento più aggressivo, proprio dell’OUA – che nella scorsa primavera aveva dato vita ad un forte movimento di protesta contro la mediaconciliazione, culminato nelle due manifestazioni di Roma (ai teatri Capranica ed Adriano) e in quella di Napoli, che aveva avuto l’indubbio successo di mettere al centro del dibattito politico-forense l’Organismo e di compattare intorno allo stesso l’avvocatura di base – ha, invece, prevalso (e l’assemblea dell’OUA si è prontamente uniformata), un atteggiamento di dialogo e proposta. Non alzare di nuovo le barricate, ma discutere con il potere politico in vista del raggiungimento di obiettivi, quali una profonda revisione dell’istituto della mediazione,  la definitiva e rapida approvazione della riforma della legge professionale, da circa un anno impantanata presso la Commissione Giustizia della Camera, l’apertura di un tavolo di confronto con il Ministero, affinché ogni intervento legislativo ed amministrativo (si pensi per esempio all’annoso e delicato tema della geografia giudiziaria) venga discusso e concordato con l’avvocatura e non calato dall’alto, come, invece, le ultime esperienze (dalla mediazione in poi) insegnano.


In questa ottica, l’OUA si è posto l’ambizioso obiettivo di organizzare, il 6 e 7 ottobre 2011, cento manifestazioni pubbliche in altrettanti Tribunali italiani per condividere con la base, con l’opinione pubblica e con i media, le proposte che un’avvocatura matura  e indipendente intende sottoporre all’esame del mondo politico.


Anche a Trani avremo modo di incontrarci ed  il Consiglio dell’Ordine e la Consulta delle Associazioni, che ho ritenuto di coinvolgere in questa iniziativa, stanno decidendo le modalità di svolgimento della manifestazione, che andremo ad organizzare ed i cui dettagli non mancheremo di comunicarvi tramite il sito internet dell’Ordine.


Un’ultima notizia prima di salutarVi. Da qualche tempo sul sito dell’OUA (www.oua.it) viene giornalmente pubblicata una rassegna stampa molto ben curata, in grado di fornire un aggiornamento costante e puntuale sulle notizie di politica forense e non solo.


Vi saluto molto cordialmente.


Avv. Domenico Monterisi.