DISAPPLICAZIONE DELL’OBBLIGATORIETÀ DELLA MEDIA CONCILIAZIONE
PER CONTRASTO DELLA CORTE DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA

L’OUA fa propria la delibera del Consiglio dell’Ordine di Firenze.


Alle innumerevoli questioni di incostituzionalità da sollevare davanti ai giudici (avvalorate dalla mirabile ordinanza del TAR del Lazio di rimessione alla Corte Costituzionale) si aggiunge la istanza di disapplicazione dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo n. 28/2010, proposta dal Consiglio dell’Ordine di Firenze (prof. avv. Gaetano Viciconte) e fatta propria dall’OUA.
La disciplina che introduce l’obbligatorietà della mediazione merita, infatti, di essere disapplicata per contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la cui portata, ai sensi dell’art. 52, terzo comma, della Carta, corrisponde a quella dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Le norme introdotte dal D.Lgs. n. 28/2010, riguardante sia le liti transfrontaliere che quelle interne, pongono seri problemi di compatibilità con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Per alcuni aspetti normativi e per le difficoltà di attuazione pratica che il predetto decreto legislativo probabilmente incontrerà, il “diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice” viene limitato in modo grave e sproporzionato rispetto allo scopo fatto valere di ridurre il carico di lavoro degli uffici giudiziari.
Va osservato che la Corte di giustizia UE fin dalla sentenza Johnston,C-22/84 del 15 maggio 1986 ha tratto dalla tradizione costituzionale comune e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il principio generale del diritto al controllo giurisdizionale.
La nozione di “ricorso effettivo dinanzi a un giudice ” riconosciuto dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali, corrisponde (articolo 52/3 della stessa Carta) a quella elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Con giurisprudenza costante dopo la sentenza Golder c. Regno Unito del 21 febbraio 1975, la CEDU ritiene che il diritto di effettivo accesso al giudice, pur non espressamente menzionato all’art. 6 della Convenzione, sia un diritto presupposto rispetto a quelli ivi elencati e costitutivi del processo equo. In numerose sentenze tale diritto è stato ritenuto particolarmente importante nel sistema della Convenzione, poiché si tratta di una condizione essenziale dello stato di diritto e della “preminenza del diritto” menzionata nel Preambolo della Convenzione. E si tratta di un diritto che deve essere “concreto ed effettivo”.
A tale diritto possono legittimamente essere poste limitazioni, a condizione che però esse rispondano a uno scopo legittimo, siano proporzionate rispetto allo scopo e non colpiscano il diritto di accesso al giudice nella sua essenza.
La Corte di Giustizia ha esaminato una fattispecie simile alla obbligatorietà della mediaconciliazione stabilita in Italia nella sentenza R.A. del 18 marzo 2010, C-317, 318, 319, 320/08 concernente la normativa italiana (art. 84 D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259) che prevede un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale davanti al Co.re.com, come condizione di procedibilità dei ricorsi giurisdizionali in talune controversie civili. La Corte ha affermato che tale normativa non è tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli dalla direttiva “servizio universale” (direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, 2002/22/CE), in quanto:
il risultato della procedura di conciliazione non è vincolante nei confronti delle parti interessate e non incide sul loro diritto ad un ricorso giurisdizionale;
la procedura di conciliazione non comporta, di regola, un ritardo sostanziale nella proposizione di un ricorso giurisdizionale. Infatti, il termine per chiudere la procedura di conciliazione è di trenta giorni a decorrere dalla presentazione della domanda e, alla scadenza di tale termine, le parti possono proporre un ricorso giurisdizionale, anche ove la procedura non sia stata conclusa;
la prescrizione dei diritti è sospesa per il periodo della procedura di conciliazione;
i costi derivanti dalla procedura di conciliazione dinanzi al Co.re.com sono inesistenti.
Alla luce delle indicate prescrizioni non si può ritenere che vi sia compatibilità del D.Lgs. n. 28/2010 con il “diritto al giudice” riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il D.Lgs. n. 28/2010 all’art. 5 comma 1, introduce l ’obbligo, a pena di improcedibilità della domanda, di esperire il procedimento di mediazione prima di esercitare in giudizio un’azione relativa ad un vastissimo ambito di materie. Non si tratta di una qualunque procedura amministrativa prodromica alla introduzione della causa avanti al giudice, ma di procedura obbligatoria che riguarda controversie già in atto e precede immediatamente l ’azione giudiziale cui una parte (normalmente già assistita da un avvocato, articolo 4 comma 3) ha ormai deliberato di far ricorso. La procedura di mediazione, se ha successo, si conclude con un accordo il cui verbale costituisce titolo esecutivo (articolo 12 comma 2), assimilabile quanto agli effetti alla sentenza del giudice (a differenza del caso esaminato e ritenuto compatibile con il diritto di accesso al giudice dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza sopra ricordata).
Sussiste, dunque, una analogia ed equivalenza evidente tra la procedura di mediazione e quella giudiziaria. La prima, tuttavia, non prevede che la parte sia assistita da avvocato, pur trattandosi di una procedura “alternativa ” (ADR – Alternative Dispute Resolution), che, se la mediazione ha successo, conduce allo stesso risultato di una decisione giudiziaria, vincolante per le parti. E perfino la dichiarata irrilevanza nel successivo giudizio di ciò che è avvenuto nella procedura di mediazione infruttuosa, è solo parzialmente vera, così come si ricava dalla disciplina delle spese di giudizio delineata all’articolo 13.
Le considerazioni che precedono, inducono ad assimilare la procedura di mediazione obbligatoria a quella giudiziaria,di cui rappresenta un’alternativa (quanto a risultato) e una fase antecedente obbligatoria (quanto a procedura).
Ma se così è, è necessario che le essenziali garanzie procedurali siano assicurate anche nel procedimento di mediazione, idoneo a definire la controversia. In particolare, occorre che alle parti sia assicurato l’esercizio della “facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare ” (articolo 47 comma 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione). In caso diverso il diritto di accesso al giudice dovrebbe essere reso possibile prevedendo una fase ulteriore giudiziaria (Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dalla sentenza Le Compte,Van Leuven e De Meyere c. Belgio,del 23 giugno 1981, §§ 44,51). Ma questa ulteriore possibilità è esclusa, mentre la procedura di omologa da parte del presidente del Tribunale (articolo 12 comma 1 del D.Lgs. n. 28/2010) non assicura l’accesso al giudice, perché non corrisponde ai requisiti propri del processo equo di cui agli articoli 47 della Carta dei diritti fondamentali e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e perché, in ogni caso, i limiti del controllo effettuato escludono che si tratti della decisione di un giudice di piena giurisdizione.
Né si può sostenere che la natura delle controversie assoggettate all’obbligo di esperire il procedimento di mediazione non richieda particolari garanzie procedurali, in particolare quella derivante dalla difesa tecnica. Le materie che il legislatore ha indicato per definire il campo dell’obbligo di esperire la procedura di mediazione, talora implicano complesse valutazioni e concernono rilevanti interessi.
Della complessità delle necessarie valutazioni (per le parti e per il mediatore) è consapevole lo stesso legislatore, che, infatti, prevede la possibilità che il mediatore ricorra ad esperti ed anche la possibilità della nomina di mediatori ausiliari quando si tratti di controversie che “richiedono specifiche competenze tecniche ” (articolo 8).
Nel corso della procedura di mediazione, le parti non assistite da avvocato non sono certo in grado di consapevolmente determinarsi nei casi complessi e specialmente in quelli in cui il mediatore ritiene necessario il contributo dell’esperto (un significativo esempio può essere quello delle cause in materia di responsabilità professionale medica, in cui almeno una delle parti non è esperta della specifica materia).
Merita di essere segnalato che, a differenza di ciò che è stabilito per la procedura di mediazione di cui al D.Lgs. n. 28/2010, nella normale procedura civile avanti il Conciliatore, la legge comprensibilmente stabilisce stretti limiti di valore della causa (euro 516,46), perché la parte possa agire personalmente (art. 82 Codice di procedura civile). Ed anche a livello comunitario l’assenza della difesa tecnica è ammessa restrittivamente. Il Reg.CE 11 luglio 2007 n. 861/2007, all’articolo 10 ammette infatti che la rappresentanza da parte di un avvocato o di altro professionista del settore legale non sia obbligatoria, secondo il Procedimento europeo per le controversie di modesta entità (valore non eccedente euro 2.000), con esclusione comunque di una serie di materie, tra le quali si ritrovano alcune di quelle invece indicate all’art. 5 comma 1, del D.Lgs. n. 28/2010 (come quelle relative alle successioni, locazioni, diffamazione). E proprio in tema di “diffamazione a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità ” è interessante ricordare che la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Steel e Morris c. Regno Unito del 15 febbraio 2005) ha ritenuto che la natura della controversia civile instaurata richiedesse, ai fini dell’equità del processo, la difesa tecnica dei convenuti e che essa fosse loro assicurata mediante l’ammissione al gratuito patrocinio. Nella procedura di mediazione di cui si tratta, invece, la difesa tecnica non trova alcuna menzione.
Gli interessi in gioco in gran parte delle procedure di mediazione che il D.Lgs. n. 28/2010 rende obbligatorie e nel corso delle quali la parte dispone del proprio diritto, sono certo molto più gravi e sensibili di molti di quelli che la legge ritiene richiedano l’assistenza dell’avvocato nella procedura davanti al giudice. Senza contare che il giudice offre alle parti una garanzia maggiore rispetto al mediatore, il quale è imparziale rispetto agli interessi delle parti, ma non rispetto all’esito della mediazione (nell’ipotesi di successo della mediazione le indennità previste sono aumentate. (articolo 17, comma 4, lett. c).
Ma anche altri aspetti della disciplina della procedura di mediazione,che il D.Lgs. n. 28 rende obbligatoria,vanno segnalati perché tali da rendere inaccettabilmente dispendioso e defatigante il percorso da compiere prima di poter accedere al giudice.
La procedura non è gratuita (a differenza di quella considerata dalla Corte di giustizia UE nella sentenza sopra riportata). I costi della procedura sono rilevanti e si incrementano quando il mediatore si avvalga di esperti (articolo 8 comma 2). La possibilità di accedere al gratuito patrocinio (articolo 17) non esclude il rilievo del costo della procedura ai fini della valutazione della sua compatibilità con il diritto di accesso al giudice.
Il termine stabilito per lo svolgimento del procedimento di mediazione è di 4 mesi, più lungo quindi di quello considerato accettabile nella sentenza sopra menzionata della Corte di giustizia UE.
A differenza di quanto avviene nella procedura di cui all’articolo 410 Codice di procedura civile, l’effetto interruttivo della prescrizione e della decadenza non è legato al deposito della istanza di mediazione, ma alla comunicazione alle altre parti dell’avvenuto deposito. L’effetto, quindi, è condizionato dalla attività del personale addetto alla segreteria dell’organismo di mediazione e dalle prevedibili disfunzioni del servizio. Vero è che la comunicazione a controparte può essere effettuata anche a cura della parte istante (articolo 8 comma 1), ma solo dopo che il responsabile dell’organismo di mediazione abbia designato il mediatore e fissato la data del primo incontro tra le parti. L’introduzione della domanda di mediazione, quindi, non comporta di per sé stessa la sospensione del decorso dei termini di prescrizione e di decadenza. Si tratta di un profilo particolarmente grave perché l’enorme campo di applicazione della nuova condizione di procedibilità dell’azione – improvvisamente definito dal legislatore senza alcuna considerazione dei costi e tempi per la messa in opera di strutture operative adeguate- rende facile prevedere che i tempi di azione degli organismi di mediazione non potranno essere brevi.
In proposito, per il significato che assume rispetto al tema qui affrontato, va ricordato che la Corte europea dei diritti dell’uomo, con riferimento al diritto di accesso al giudice ha ritenuto la violazione dell’articolo 6 della Convenzione in casi nei quali la irricevibilità dell’azione dichiarata dal giudice derivava da un vizio dipendente non dal ricorrente, ma dal personale dell’amministrazione pubblica (Platakou c. Grecia dell’11 gennaio 2001; Boulougouras c. Grecia del 27 maggio 2004) ed anche nel caso in cui la procedura amministrativa da seguire obbligatoriamente si sia rivelata inefficace per mancata risposta della amministrazione nei termini di legge (Faimblat c. Romania del 13 gennaio 2009; Maria Atanasiu c. Romania del 12 ottobre 2010, non definitiva).
Per effetto delle esposte considerazioni emerge evidente la sproporzione tra la soluzione adottata e lo scopo perseguito e, di nuovo, quindi, l’incompatibilità con i citati articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Per le ragioni indicate, l’obbligatorietà della mediazione, introdotta dagli artt. 5 e ss. del D.Lgs. n. 28/2010, rappresenta un’interferenza non ragionevole e non proporzionata rispetto allo scopo perseguito, tale da rendere eccessivamente difficile ed oneroso l’esercizio del diritto di accesso al giudice in contrasto con il diritto fondamentale assicurato dagli artt. 24 Cost., 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Di qui ne deriva che il giudice può dichiarare la disapplicazione della norma nazionale per contrasto con un principio generale fondamentale dell’ordinamento europeo.
La Corte di Giustizia, nella sentenza della Grande Sezione del 19 gennaio 2010, nel procedimento C-555/07, Kucukdeveci contro Sweedex GmbH & Co. KG, ha statuito che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati, nel senso che al singolo giudice nazionale è concesso il potere di disapplicazione della legge interna di fronte alla violazione dei principi di derivazione comunitaria, e, in particolare, non soltanto nei rapporti tra i singoli e lo Stato (efficacia diretta verticale), ma anche nei rapporti tra privati, consentendo a un singolo di invocare una norma comunitaria nei confronti di un altro (efficacia diretta orizzontale). Ciò senza alcuna necessità di sollevare né una questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale, né una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia UE.
La sentenza richiamata, pertanto, attribuisce direttamente al giudice nazionale il potere di sindacare la norma legislativa interna in contrasto con un diritto fondamentale europeo.
Tale principio era già stato affermato in precedenza dalla giurisprudenza europea. In particolare, nella sentenza della Grande sezione della Corte di Giustizia, del 22 novembre 2005, C-144/2004 Mangold, è stato affermato che è compito del giudice nazionale, investito di una controversia che metta in discussione un principio generale di derivazione comunitaria, assicurare, nell’ambito di sua competenza, la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale.
In tal senso, si è pronunciato anche il Tar Lazio, II Sezione, con la sentenza del 18 maggio 2010, n. 11984, secondo cui:” In seguito all’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, disposta dall’art. 6 del trattato Ue, come novellato dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore l’1 dicembre 2009, le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli stati membri dell’Unione, e quindi vengono ora ad operare nell’ordinamento italiano, in forza del diritto comunitario, ai sensi dell’art. 11 cost., con il conseguente obbligo per il giudice nazionale di interpretare le norme interne in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario, senza più dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno.”
Pertanto, il rispetto del principio dell’accesso alla giustizia, dopo il Trattato di Lisbona obbliga il giudice nazionale a riconoscere a tale principio efficacia immediata nel processo e per il principio di primazia del diritto comunitario, a disapplicare la norma interna difforme.
Conseguentemente, è fondata la tesi che sostiene che, su richiesta di una delle parti, il Giudice dichiari la procedibilità della domanda, disapplicando l’art. 5 comma 1 del D.Lgs. n. 28/2010, perché in contrasto con il diritto di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, anche, qualora fosse ritenuto necessario, previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE.