REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE


Composta dai sigg. magistrati:




  • Dott. Ernesto Lupo presidente


  • Dott. Agostino Cordova consigliere


  • Dott. Ciro Petti consigliere


  • Dott. Silvio Amoresano consigliere


  • Dott. Santi Gazzarra consigliere


Ha pronunciato la seguente


SENTENZA


Sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Bari nei confronti dí (omissis), nato a (omissis) il (omissis), (omissis), nata (omissis) il (omissis), (omissis), nato a (omissis) il (omissis), (omissis) nato a (omissis) il (omissis) e (omissis), nato a (omissis) il (omissis), avverso la sentenza del tribunale di Bari sezione distaccata di Monopoli del 27 marzo del 2009;
Udita la relazione svolta in udienza dal consigliere dott. Ciro Petti;
sentito il sostituto procuratore generale dott. Francesco Salzano, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso del P.M.;
sentito il difensore (omissis), il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
letti il ricorso e la sentenza denunciata; osserva quanto segue


IN FATTO


Il tribunale di Bari, sezione distaccata di Monopoli, con sentenza del 27 marzo del 2009, assolveva (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) dai reati loro rispettivamente ascritti per l’insussistenza dei fatti.
Agli imputati si erano contestati i seguenti reati:
A tutti:
a) il reato di cui agli artt.110 c.p.,142 lett. g) e 18 T D.Igs n. 42/04, 44 lett. c) D.P.R. 380/01, perché, i primi tre, nella loro qualità di proprietari e committenti, il quarto quale titolare della ditta esecutrice dei lavori “(omissis)”, realizzavano in località (omissis) del Comune di (omissis), censita in catasto a foglio di mappa n. (omissis), n. (omissis) immobili destinati a civile abitazione, in territorio coperto da boschi e, pertanto, sottoposto a vincolo paesistico, senza la preventiva autorizzazione;
b) il reato di cui agli artt.110 cp, 181 D.Igs n. 42/04, 44 lett. c) D.P.R. 380/01, perché, nelle medesime qualità di cui sopra, realizzavano i detti immobili in ambito B “valore rilevante”, del P.U.T.T. e del paesaggio approvato con delibera di G.R. n. (omissis) senza la preventiva autorizzazione;
c) del reato di cui agli artt. 110 cp, D.P.R. 08/09/1997 n. 357 come mod. dal D.P.R. 12/03/2003 n. 120, 44 lett. c) D.P.R. 380/01, perché, nelle medesime qualità di cui sopra, realizzavano i detti immobili in zona SIC (proposto Sito di Importanza Comunitaria), senza il preventivo rilascio da parte dell’autorità della valutazione di incidenza ambientale;
d) il reato di cui agli artt. 110 cp, 30 e 44 lett. c) D.P.R. 380/01, perché, nelle medesime qualità di cui sopra, realizzavano i detti immobili che comportavano trasformazione edilizia ed urbanistica dei terreni, in violazione dell’art. 14 delle N.T.A. del P.R.G. non essendo stato sottoposto il relativo piano di lottizzazione (approvato da C.C. di (omissis) il (omissis) con deliberazione n. (omissis)) al preventivo parere della Soprintendenza ai Monumenti e in violazione della normativa paesistica ambientale di cui ai capi che precedono; il (omissis) perché nella sua qualità di dirigente della Ripartizione tecnica del Comune di (omissis), rilasciava i permessi di costruire n. (omissis) del (omissis) pratica n. (omissis) a favore di (omissis) e (omissis) e n. (omissis) dell'(omissis) pratica n. (omissis) a favore di (omissis) e (omissis) e n. (omissis) dell'(omissis) pratica n. (omissis) a favore di (omissis), così consentendo i lavori abusivi;
e) del reato d cui agli artt. 110 c.p. 44 lett. c) D.P.R. 380/01, perché, nelle medesime qualità di cui sopra, realizzavano i detti immobili sulla base di permessi di costruzione illegittimi ed inefficaci. Fatti accertati in (omissis), località (omissis), in data (omissis).
Il tribunale, per quanto ancora rileva in questo grado, a fondamento della decisione osservava:
relativamente al reato di cui al capo b), che dalla stessa relazione del consulente del pubblico ministero e dalla testimonianza dell’architetto (omissis) emergeva che l’area in questione rientrava tra i territori già costruiti e quindi non soggetta alla normativa del PUTT;
relativamente al reato di cui al capo c), che la valutazione dell’impatto ambientale era stata chiesta solo dopo i1 sequestro degli immobili perché non poteva essere sollecitata prima ossia al momento dell’approvazione del piano di lottizzazione (omissis) e del rilascio dei successivi permessi di costruire, in quanto il d.P.R. 8 settembre 1997 n. 357, nella sua versione originaria, assoggettava a procedura di verifica ambientale soltanto i piani urbanistici o di settore di interesse nazionale regionale o provinciale tra i quali non rientravano i piani di lottizzazione, inseriti solo a seguito delle modificazioni introdotte con il d.P.R. del 12 marzo del 2003 n. 120; d’altra parte, solo con il decreto del Ministero dell’Ambiente del 25 marzo del 2005 era stato redatto il primo elenco dei proposti siti d’importanza comunitaria; pertanto, poiché al momento dell’approvazione del piano di lottizzazione non erano state ancora approntate le necessarie cartografie, non era possibile richiedere ed ottenere la VIA;
relativamente al reato di cui al capo E) osservava conseguentemente che i permessi di costruire erano validi ed efficaci.
Ricorre per saltum il pubblico ministero limitatamente all’assoluzione per i reati di cui ai capi B), C) ed E), deducendo:
relativamente al reato di cui al capo b), la violazione delle norme incriminatici e l’erronea applicazione delle nome tecniche di attuazione del P.U.T.T (Piano Urbanistico Territoriale Tematico) giacché nelle zone non edificate ma oggetto di pianificazione edificatoria il vincolo non si applica a condizione che i programmi pluriennali non siano scaduti mentre nella fattispecie il programma vigente al 1990 era scaduto poiché le sue previsioni non erano state realizzate; inoltre la zona in questione non si poteva includere tra i ” territori costruiti” per i quali operava la deroga alla normativa paesaggistica;
relativamente al reato di cui al capo c), la violazione del d.P.R. n 357 del 1997 come modificato dal d.P.R. n 120 del 2003 nonché la violazione del Decreto Ministeriale dell’Ambiente del 3 aprile del 2000, in quanto l’elenco e le cartografia in cui rientrano gli immobili in questione erano stati redatti sin dal mese di aprile del 2000; il contenuto del decreto del 2005 richiamato dal tribunale è perfettamente sovrapponibile a quello del 2000.
Con riferimento al reato sub e) deduce conseguentemente l’inefficacia dei permessi di costruire per le violazioni innanzi indicate.
Resistevano al ricorso gli imputati con memoria


IN DIRITTO


Il ricorso è fondato
Relativamente al reato di cui al capo b) l’assoluzione si fonda sulla premessa che la normativa del PUTT (Piano Urbanistico Tematico Territoriale) non fosse applicabile trattandosi di “territorio costruito”, come emergeva dalla stessa relazione del consulente tecnico del pubblico ministero. La decisione, ancorché apparentemente avallata dalla consulenza del pubblico ministero, è frutto di un’errata interpretazione della norma e conseguentemente della nozione di “territorio costruito” risultante dalla legge e dallo stesso comma 5 dell’articolo 1.03 delle norme di attuazione del Piano Urbanistico Tematico, il quale comma richiama sostanzialmente il contenuto dell’articolo 146 del decreto legislativo n 490 del 1999. Quest’ultima norma a sua volta riproduce l’articolo 1 della legge n. 431 del 1985 ed anticipa il contenuto dell’articolo 142 del decreto legislativo n 42 del 2004.
Per comprendere i termini della questione è pertanto opportuno analizzare la normativa applicabile alla fattispecie.
Il secondo comma dell’articolo 146 del decreto legislativo n. 490 del 1999, vigente all’epoca della lottizzazione, stabiliva che: “. Le disposizioni previste dal comma 1 non si applicano alle aree che alla data del 6 settembre 1985:
a) sono delimitate negli strumenti urbanistici come zone A) e B)
b) illimitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione, sono delimitate negli strumenti urbanistici, a norma del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, come zone diverse da quelle indicate alla lettera A) e, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadono nei centri edificati perimetrati a norma dell’art. 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865.
Il legislatore del 1999, con la norma citata, dopo avere indicato le zone vincolate, confermando la previgente previsione di analogo tenore contenuta nella legge n 485 del 1981, al secondo comma ha contemplato alcune eccezioni, escludendo l’operatività del vincolo legale per tutte le aree che alla data del 6-9-1985 (di entrata in vigore della “legge Galasso”, pubblicata nella G.U. del 22-8-1985) si trovassero in determinate condizioni. La deroga si riferiva a tre ipotesi: la prima riguardava le zone delimitate dagli strumenti urbanistici, come zone A e B; la seconda si riferiva alle porzioni di territorio ricomprese nei programmi pluriennali di attuazione vigenti a tale data, individuate negli strumenti urbanistici, ai sensi del D.M. 2-4-1968, n. 1444, come zone diverse dalle prime due; la terza riguardava i comuni sprovvisti di tali strumenti e concerneva le aree ricadenti nei centri edificati, perimetrati ai sensi dell’art. 18 della legge 22¬-10-1971 n. 865.
Al riguardo va ricordato brevemente che la legge n. 765/1967, introducendo l’art. 41-bis della legge urbanistica n. 1150/1942, aveva stabilito che tutti i comuni, nella formazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, dovessero osservare limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (cd. standards urbanistici). Tali limiti e rapporti sarebbero stati definiti per zone territoriali omogenee, con un decreto del Ministro per i lavori pubblici, poi effettivamente emanato nel 1968, con il n. 1444. Il decreto in parola, all’art. 2, delinea sotto un profilo funzionale sei tipologie di zone omogenee, ognuna individuata con una lettera (da A a F) e caratterizzata da una distinta destinazione urbanistica e potenzialità edificatoria. Ciò consentiva e consente ai comuni di dare piena applicazione a quanto previsto dall’art. 7 della legge urbanistica all’epoca vigente, che prescriveva che il piano regolatore generale suddividesse in zone l’intero territorio comunale, ognuna con la propria connotazione tipologica e funzionale, individuando, tra le altre, quelle contraddistinte da particolari caratteristiche storiche, paesistiche ed ambientali, per le quali avrebbe dovuto anche individuare i relativi vincoli. Ciò precisato, va ricordato che le zone A) vengono definite dal D.M. del 1968 come “le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”; le zone B) sono invece quelle porzioni di territorio “totalmente o parzialmente’ edificate, diverse dalle zone A): si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5°/o (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq”.
In questo ambito, pertanto, l’art. 146 intendeva escludere in assoluto l’operatività della tutela legale per tutte quelle zone già completamente o fortemente edificate ed urbanizzate (zone B), rispetto alle quali le eventuali valenze paesaggistiche risultavano sostanzialmente già cristallizzate; nonché per quelle zone in relazione alle quali gli strumenti urbanistici avessero già autonomamente proceduto ad una ricognizione degli elementi di rilievo storico, paesistico ed ambientale ed alla individuazione del relativo regime vincolistico (zone A).
Più articolata era ed è la seconda ipotesi di esclusione, che prende in considerazione le quattro rimanenti zone omogenee (C, D, E ed F), ove non si riscontrano i caratteri delle prime due, poiché ancora in larga parte inedificate o destinate ad insediamenti abitativi e commerciali, oppure industriali o latamente produttivi, ovvero per i quali sia previsto un utilizzo agricolo o, ancora, la realizzazione di impianti ed attrezzature di interesse generale.
Con riferimento a queste zone il legislatore dell’epoca (la normativa non è cambiata perché l’articolo 142 del Codice Urbani attualmente vigente riproduce sostanzialmente il contenuto dell’articolo 146 ora in esame) ha sancito dunque l’inapplicabilità della tutela legale solo per quelle porzioni di territorio aventi una destinazione urbanistica diversa dalle zone A) e B) che alla data di entrata in vigore della “Galasso” risultassero incluse in programmi pluriennali di attuazione (PP.PP.AA.). Questi ultimi rappresentano uno strumento di programmazione economico-temporale introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 13 della cosiddetta “legge Bucalossi” o “legge suoli” (legge n 10 del 1977). La norma anzidetta aveva disposto che l’attuazione degli strumenti urbanistici generali dovesse avvenire sulla base di piani pluriennali, aventi validità temporale variabile dai tre ai cinque anni, la cui funzione era quella di delimitare le aree e le zone – incluse o meno in piani particolareggiati o in piani convenzionati di lottizzazione – nei quali dovevano realizzarsi, anche a mezzo di comparti, le previsioni di detti strumenti e le relative urbanizzazioni. La funzione di questi programmi era pertanto quella di individuare, anche cronologicamente, le fasi di attuazione del piano regolatore generale, evitando uno sviluppo urbano a “macchia d’olio” che, lasciato alla sola iniziativa dei privati avrebbe reso più disorganica ed onerosa la realizzazione dei nuovi insediamenti e delle relative opere urbanizzative. La loro funzione era anche quella di imporre la realizzazione delle previsioni di P.R.G. (“…debbono realizzarsi..”), tanto che lo stesso art. 13 consentiva al Comune di espropriare le aree incluse nei P.PA. qualora nei. tempi dagli stessi indicati gli aventi titolo non avessero presentato istanza di concessione edilizia.
Proprio per tale ragione, sia la “legge Galasso”, che il decreto legislativo n 490/1999, che il nuovo codice Urbani hanno inteso salvaguardare l’attività programmatoria già posta in essere dai Comuni alla data del 6-9-1985, senza condizionare con la nuova forma di tutela legale interventi pianificatori già stabiliti in specifici ambiti territoriali.
La terza ipotesi di esclusione della tutela legale contemplata dal secondo comma dell’art. 146, faceva invece riferimento a quelle parti di territorio che, sempre alla data di entrata in vigore della “Galasso”, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, generali o particolareggiati, ricadessero nei “centri edificati”, così come perimetrali in applicazione dell’art. 18 della legge n. 865/1971. Quest’ultima disposizione aveva imposto alle amministrazioni comunali non dotate di strumenti urbanistici di individuare le aree edificate o urbanizzate, mediante “delimitazione dei centri edificati con deliberazione adottata dal consiglio comunale”. La stessa norma chiariva che “il centro edificato è delimitato, per ciascun centro o nucleo abitato, dal perimetro continuo che comprende tutte le aree edificate con continuità ed i lotti interclusi. Non possono essere compresi nel perimetro dei centri edificati gli insediamenti sparsi e le aree esterne, anche se interessate dal processo di urbanizzazione”. Ne discende che, anche in questo caso, la norma non ha inteso applicare la tutela legale con riferimento ad aree il cui assetto urbanistico fosse sostanzialmente già definito, similmente a quanto già disposto per le zone B), nell’ipotesi prima analizzata.
Dal tenore letterale della norma dianzi
richiamata, vigente all’epoca del fatto, appare palese che l’esclusione si riferiva alle zone già antropizzate. La perimetrazione consiliare, nei casi in cui era consentita ossia per comuni sprovvisti di pianificazione territoriale, doveva essere effettuata in base all’articolo 18 della legge n. 865 del 1971 e riguardare centri già edificati alla data di entrata in vigore della legge “Galasso”. In altre parole la deliberazione consiliare poteva individuare aree già edificate, ma non poteva considerare, al fine di escludere le autorizzazioni previste dalla legge, “territorio costruito” zone dell’ambito comunale non edificate. La deroga si giustificava per le zone già costruite o in procinto di esserlo in base a programmi validi all’epoca della Legge Galasso, ma non per le zone non ancora edificate. Per queste ultime non v’era l’esigenza di sottrarle alla normativa paesaggistica proprio perché non ancora edificate. Se il piano non era attuato cadeva la ragione della deroga ed il vincolo si riespandeva, in quanto l’operatività della deroga posta dall’art. 1 secondo comma della legge n 431 del 1985 e poi dall’articolo 146 del decreto legislativo n 490 del 1999, presupponeva l’attualità del piano. Tale effetto non poteva essere eluso con una proroga o una rinnovazione (cfr su questi temi Cass n 11716 del 2001; n 1151 del 2000).
La disciplina normativa dianzi richiamata è stata sostanzialmente riprodotta nelle norme attuative del Piano Urbanistico Tematico Paesaggistico della Regione Puglia. Invero, il comma 5 dell’art. 1.03 delle norme tecniche di attuazione di tale piano dispone testualmente: che le norme contenute nel Piano non “Trovano applicazione all’interno dei territori costruiti che vengono, anche in applicazione dell’articolo 1 della legge n 431 del 1985 cosi definiti:
1) aree tipizzate dagli strumenti urbanistici vigenti come zone omogenee ” A” e “B”;
2) aree tipizzate negli strumenti urbanistici come zone omogenee “C” o come zone turistiche, direzionali, artigianali, industriali, miste se, alla data del 6 giugno del 1990, incluse in uno strumento urbanistico esecutivo (Piano Particolareggiato o piano di lottizzazione) regolarmente presentato e, inoltre le aree incluse, anche se in percentuale in Programmi Plulennali di Attuazione approvati alla stessa data;
3) aree che, ancorché non tipizzate come zone omogenee “B” dagli strumenti urbanistici vigenti: o ne abbiano di fatto le caratteristiche (ai sensi del D.M. n 1444 del 1968) vengono riconosciute come regolarmente edificate (o con edificato già sanato ai sensi della legge n. 431 del 1985) e vengono perimetrale su cartografia catastale con specifica deliberazione del Consiglio Comunale; o siano intercluse all’interno del perimetro definito dalla presenza di maglie regolarmente edificate, e vengono perimetrale su cartografia catastale con specifica deliberazione del Consiglio comunale. Come appare palese le norme tecniche di attuazione del PUTT riproducono sostanzialmente le tre ipotesi di deroga previste dalla legge nazionale, la quale peraltro non poteva essere derogata da norme tecniche regionali. Quindi, anche in base alla normativa contenuta nel Piano, la deliberazione Comunale poteva perimetrare le zone già costruite alla data del 6 giugno del 1990, ma non considerare edificate zone che non lo erano al fine di sottrarle all’applicazione delle norme di attuazione del Piano.
Richiamata la normativa applicabile alla fattispecie, si osserva, da un lato, che trattasi di suolo agricolo non edificato, sito in prossimità di un bosco e non nel perimetro urbano continuo come delineato dall’articolo 18 della legge n 865 del 1971 prima richiamata e, dall’altro, che la perimetrazione richiamata dal tribunale sarebbe stata effettuata con deliberazione del 1° giugno del 2005, integrativa di una precedente deliberazione del 2003 e, quindi, in epoca successiva al mese di giugno del 1990, termine ultimo fissato nel piano per la programmazione edificatoria esclusa dal rispetto della normativa paesaggistica.
Il difensore dei ricorrenti nella memoria difensiva, dopo avere premesso che l’area in questione sarebbe stata “pacificamente” inclusa nel “territorio costruito” con deliberazione anzidetta, sostiene che il pubblico ministero non censura la sentenza che ha preso atto dell’esistenza delle deliberazione, ma la legittimità stessa della deliberazione. Il che secondo il difensore sarebbe inammissibile.
Il rilievo non è esatto. Invero, il pubblico ministero sostiene che con la deliberazione comunale prima richiamata il Consiglio Comunale aveva sì considerato la zona in questione esclusa dall’obbligo dell’autorizzazione, ma non perché perimetrata in base al punto 3 del comma 5 dell’articolo 1.03 delle norme tecniche di attuazione del Piano Urbanistico Territoriale Tematico e Paesaggistico, ma perché si era ritenuto, peraltro per errore, che essa fosse già inclusa in un piano pluriennale, ossia perché si era ritenuto che fosse operativa la deroga di cui al punto due della legge e delle norme tecniche, senza peraltro considerare che tale deroga era comunque divenuta inefficace perché il piano pluriennale non era stato attuato. Il Comune, secondo il ricorrente, aveva confuso le varie deroghe previste dall’articolo 146 del decreto legislativo n 490 del 1999 e dal comma 5 della norma di attuazione dianzi richiamata. Per la deroga di cui al punto 2, come sopra precisato, non occorreva alcuna deliberazione comunale perché essa discendeva direttamente dalla legge a seguito dell’inclusione della zona in un piano già approvato alla data di entrata in vigore della legge Galasso, secondo l’articolo 146 del decreto legislativo n 490 del 1999, o alla data del 6 giugno del 1990, secondo le norme tecniche del PUTT. La deliberazione in questione aveva quindi natura meramente ricognitiva. In definitiva, secondo il ricorrente, la zona in questione non era stata inserita in alcun piano pluriennale e comunque, quand’anche fosse stata inserita, la deroga non era più operativa perché il piano era scaduto e l’effetto caducatorio non poteva essere eluso con una proroga e con una rinnovazione. Al di fuori della previsione del piano l’unica zona considerata costruita dal Consiglio Comunale, secondo il pubblico ministero ricorrente, sarebbe quella a Sud del cimitero. Il tribunale aveva erroneamente interpretato sia la deliberazione del Consiglio Comunale che la deposizione dell’architetto (omissis), il quale aveva elaborato il piano. Concludendo, secondo il ricorrente, la zona in questione non sarebbe stata considerata costruita dal Consiglio Comunale con una deliberazione adottata ai sensi del punto tre del comma 5 delle norme tecniche di attuazione del PUTT già richiamate, ma sarebbe stata considerata costruita solo perché ritenuta, peraltro erroneamente, inclusa in un piano pluriennale che era comunque scaduto e quindi inefficace. Questa è la tesi esposta nel ricorso che, come emerge implicitamente dalla stessa memoria difensiva, era stata già prospettata nel corso del giudizio, ma non è stata esaminata dal tribunale, il quale si è limitato ad affermare che la zona era stata inclusa tra quelle costruite con la dianzi menzionata deliberazione comunale senza porsi il problema della legittimità stessa di tale inclusione e senza confutare la diversa interpretazione della deliberazione offerta dalla pubblica accusa. La fondatezza della tesi esposta dal pubblico ministero è invece accreditata non solo dalla relazione dell’architetto (omissis) redatta ad illustrazione del Piano ed allegata al ricorso, ma anche dalla ratio della deroga. Da tale relazione e segnatamente dai punti 15 e 16 emerge che l’Assessore (omissis) aveva chiesto all’architetto (omissis) di chiarire i criteri in base ai quali ricomprendere in apposite perimetrazioni i “territori costruiti”. Il (omissis) ha risposto precisando che “analizzando le aree con criteri urbanistici, nessuna parte del territorio comunale poteva essere considerata “costruita al sensi del D.M. 1444 del 1968, salvo la zona ubicata a sud del cimitero”. Quindi per l’architetto (omissis), che ha redatto il piano poteva considerarsi costruita solo la zona a Sud del cimitero e non pure quella in questione. L’affermazione del (omissis) è conforme alla ratio della deroga prevista dal punto 3 dell’articolo 146 del decreto legislativo n 499 del 1990 e delle norme tecniche di attuazione del PUTT più volte richiamate, giacché si potevano considerare “costruite” solo le zone già edificate. Invero, la perimetrazione non era richiesta per delimitare l’intero territorio comunale, ma per definire, peraltro nei comuni sprovvisti di piano regolatore, gli ambiti già trasformati di fatto dall’edificazione al fine di individuare in modo netto le zone antropizzate, ormai prive di peculiarità paesaggistiche e pertanto non meritevoli di assoggettamento alla normativa vincolistica, e le aree agricole. Ai fini della deroga la nozione di “territorio costruito” era data dalla legge e non poteva essere dilatata dal comune per comprendere zone inedificate al fine di sottrarle alla normativa sui vincoli.
In base alle considerazioni sopra esposte è palese la configurabilità del reato perché si è costruito sulla base di permessi inefficaci, in quanto privi della preventiva autorizzazione paesaggistica che nella fattispecie era necessaria trattandosi di territorio non costruito.
Alla stessa conclusione si perverrebbe quand’anche si aderisse alla tesi dei prevenuti, recepita dal tribunale, ossia se si considerasse quella in questione “zona costruita” in base alla deliberazione più volte menzionata, trattandosi di deliberazione chiaramente illegittima perché in contrasto con le disposizioni normative prima citate, giacché la perimetrazione poteva riguardare solo zone già costruite all’entrata in vigore della legge Galasso, secondo l’articolo 146 del decreto legislativo n 490 del 1999, o alla data del 6 giugno del 1990, secondo le norme tecniche di attuazione del PUTT.
In tale ipotesi non si pone il problema della disapplicazione dell’atto amministrativo, giacché, secondo l’orientamento assunto da questa Corte, a partire dall’intervento delle Sezioni unite del 12 novembre l993, ricorrente Borgia, ormai consolidato, il giudice penale è tenuto ad accertare la conformità tra l’ipotesi fattuale (opera eseguita o eseguenda) e la fattispecie legale identificata dalle disposizioni legislative statali e regionali vigenti nella materia edilizia (Cass Sez III 13 dicembre 2002, Tarini; Cass 21 marzo del 2006 n 21497; Cass n. 26144 del 2008). Secondo tale orientamento, nei casi in cui l’atto amministrativo costituisca elemento della fattispecie penale, la sua valutazione da parte del giudice penale non può prescindere dal rispetto dei principi di tassatività e tipicità della norma penale. Il giudice penale è tenuto ad esaminare l’atto con poteri e finalità sue proprie, senza sindacare l’opportunità e il merito amministrativo né la legittimità, ma procedendo a valutare semplicemente, nei termini richiesti dalla stessa fattispecie incriminatrice, la conformità dell’atto al tipo previsto dalla disposizione penale. Il richiamo al concetto di disapplicazione e agli artt. 4 e 5, 1. cont. amm., non ha, dunque, ragione di essere perché totalmente estraneo alle valutazioni di competenza proprie del giudice penale, il quale, nel valutare la validità dell’atto amministrativo, dove richiesto dalla norma penale, non fa altro che indagare sulla sussistenza o meno di un elemento normativo della fattispecie tenendo presente il bene giuridico tutelato; attività, questa, tipica del giudizio penale, che non può essere dunque delegata ad altro giudice. La conformità all’ordinamento extrapenale dell’elemento normativo e quindi l’indagine circa la sua validità, rileva in quanto e nella misura in cui ciò sia richiesto dal significato impresso alla fattispecie e ad ogni suo elemento dall’interesse penalmente protetto, con l’effetto che la rilevanza penale dell’atto amministrativo (o civile) viene limitata al substrato di fatto necessario e sufficiente, in combinazione con gli altri elementi che connotano la fattispecie criminosa, per 1’offesa del bene tutelato o, se si tratta di elemento costitutivo di segno negativo, per l’esclusione della stessa. La necessità dì controllare la conformità dell’opera alla legge ed agli strumenti urbanistici si desume dallo stesso articolo 6 comma 1 della legge n 47 del 1985 riprodotto nell’articolo 29 del d.P.R. n 301 del 2000. L’articolo 6 ha introdotto il dovere, per chi si appresta ad eseguire un’opera, di osservare, non solo quanto prescritto dalla concessione, ma anche quanto prescritto dalla normativa urbanistica e di piano. Detta norma ha posto delle specifiche posizioni di garanzia, di cui ha precisato anche il contenuto. Di conseguenza il titolare del permesso di costruire, il committente e l’esecutore non possono considerarsi esenti da responsabilità per il semplice fatto di avere conseguito il titolo abilitativo se questo é stato rilasciato in contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici. Tuttavia non ogni vizio dell’atto amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a conferire al comportamento incriminato significato “lesivo” del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di scardinare il principio di tassatività. Quindi, anche a voler prescindere dalla considerazione della originaria volontà del legislatore del 1865, il quale sicuramente non si poneva un problema di costruzione delle norme penali incriminatrici, appare ormai del tutto ingiustificato e superfluo il ricorso, in materia di autorizzazioni amministrative illegittime, agli artt. 4 e 5, 1. cont. amm., in quanto l’esame dell’atto amministrativo che sia elemento della singola fattispecie incriminatice effettuato alla luce del bene giuridico tutelato non è altro che l’espressione della piena ed autonoma cognizione del giudice penale, che non può essere attribuita ad altro giudice o ad organo della pubblica amministrazione.
Fondato è il ricorso anche con riferimento al reato di cui al capo c). Il tribunale, recependo la tesi dei difensori, ha assolto gli imputati da tale reato osservando che: “soltanto con Decreto del Ministro dell’Ambiente del 25 marzo del 2005 è stato redatto il primo elenco dei proposti siti d’importanza comunitaria…Ne consegue che, poiché al momento dell’approvazione del Piano di lottizzazione e del rilascio dei permessi di costruire non erano state ancora approntate le necessarie cartografie, non era possibile neanche richiedere la VIA”.
L’affermazione del tribunale è del tutto erronea e viola precise disposizioni normative. Gli immobili in questione sono ubicati in agro di (omissis) a circa dieci chilometri dalla città, sulla strada provinciale (omissis) in contrada (omissis). I permessi di costruire sono stati rilasciati nel 2005. All’epoca era vigente il D.P.R. 357 del 1997 come modificato dal DPR n. 120 del 2003, il quale all’articolo 5 commi l e 2 per i piani territoriali, urbanistici e di settore ricadenti in siti d’importanza comunitaria, imponeva la valutazione dell’incidenza ambientale del piano. Contrariamente all’assunto del difensore i siti d’importanza comunitaria erano stati inclusi già nel decreto del Ministro dell’Ambiente del 3 aprile del 2000, come risulta dal documento allegato al ricorso.
Tale decreto conteneva tutti i siti già all’epoca proposti divisi in base alle regioni dove erano ubicati. Per la Puglia, tra gli altri, si indica il sito della “Murgia dei Trulli” individuato con il codice identificativo IT 910002. Con l’articolo 2 del citato decreto si precisa che “Le cartografie delle zone di Protezione Speciale e dei Siti d’importanza Comunitaria proposti sono depositati e disponibili per il Servizio conservazione della Natura del Ministero dell’Ambiente e, per la parte di competenza, presso le regioni e le province autonome”. E’ pertanto evidente che la localizzazione del sito incluso nell’elenco era stata individuata. D’altra parte, la segnalazione di un sito al Ministero dell’ambiente da parte delle Regioni o delle Province autonome per la sua comunicazione alla Comunità Europea presupponeva necessariamente l’indicazione dell’ubicazione del sito. Inoltre, i prevenuti, tutti pugliesi residenti a (omissis), non potevano ignorare l’ubicazione della “Murgia dei Trulli” che è nota in tutto il mondo. La riprova della necessità della valutazione dell’incidenza ambientale si trae dallo stesso comportamento della pubblica amministrazione che ha rilasciato i permessi di costruire. Questa, dopo il sequestro degli immobili e dopo che il Corpo forestale dello Stato, che aveva denunciato l’abuso, aveva evidenziato la violazione del D.P.R. n. 357 del 1997, ha ordinato la sospensione dei lavori. Solo a seguito di tale sospensione gli interessati si sono affrettati a chiedere la valutazione dell’incidenza ambientale. Tale valutazione postuma non estingue il reato perché a norma dell’articolo 7 del Decreto del Presidente della Repubblica del 12 aprile del l996, citato dallo stesso difensore, la valutazione dell’incidenza ambientale “deve concludersi con un giudizio motivato prima dell’eventuale rilascio del provvedimento amministrativo che consuete in via definitiva la realizzazione del progetto e comunque, prima dell’inizio dei lavori”. All’epoca del sequestro i lavori erano già iniziati. Il decreto ministeriale del 2005 richiamato dal tribunale, per quanto concerne il sito in esame, non contiene alcun elemento innovativo, ma riproduce quanto già in precedenza disposto con il decreto del 2000
Configurabile è quindi anche il reato di cui al capo c) per la mancata preventiva valutazione d’impatto ambientale.
Dalle considerazioni dianzi svolte discende automaticamente la configurabilità anche del reato di cui al capo E) perché i permessi rilasciati devono considerarsi inefficaci per la mancanza del preventivo nulla osta paesaggistico e della preventiva valutazione d’impatto ambientale.
Questo collegio, nonostante la ritenuta fondatezza del ricorso non può annullare la sentenza impugnata con rinvio, ma deve rilevare e prendere atto che allo stato i reati si sono prescritti essendo maturato il termine prescrizionale prorogato di anni quattro e mesi sei, avuto pure riguardo al periodo dal 20 marzo del 2009 al 24 marzo dello stesso anno durante il quale il dibattimento è stato sospeso a richiesta del difensore. Ai fini della prescrizione la permanenza si deve considerare cessata alla data del sequestro (24 maggio del 2005) poiché con il provvedimento ablatorio l’imputato perde la disponibilità di fatto e di diritto dell’immobile. Qualora, dopo il dissequestro, l’attività edificatoria dovesse proseguire senza la regolarizzazione dell’abuso, l’eventuale ripresa potrebbe dare luogo ad un nuovo reato


P.Q.M,
LA CORTE


Letto l’articolo 620 c.p.p.


Annulla


Senza rinvio la sentenza impugnata in ordine ai reati di cui alle lettere B), C) ed E) dell’imputazione per essere i reati estinti per prescrizione.
Così deciso in Roma l’8 giugno del 2010


Il Presidente
Ernesto Lupo


Il Consigliere estensore
Ciro Petti