LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE
Ordinanza interlocutoria n. 6514 del 22 marzo 2011
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PREDEN Roberto- Presidente –
Dott. URBAN Giancarlo- Consigliere –
Dott. VIVALDI Roberta- Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele- Consigliere –
Dott. LANZILLO Raffaella- rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 30009-2006 proposto da:
P.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dell’avvocato T. P.E., rappresentato e difeso dall’avvocato B. G. giusta
delega a margine del ricorso; – ricorrenti –
contro
C.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio lo dell’avvocato V. M.E., che lo rappresenta e difende giusta delega in calce al controricorso; – controricorrenti –
e contro
L.C. COOP. EDILIZIA S.R.L.; – intimati –
avverso la sentenza n. 3838/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA, SEZIONE SECONDA CIVILE, emessa il 21/06/2005, depositata il 15/09/2005 R.G.N. 10543/2002;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;
udito l’Avvocato G. B.;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio che ha concluso con il rigetto del ricorso.
La Corte esaminati gli atti e i documenti di causa:
RILEVATO IN FATTO E DIRITTO
Che:
– il ricorso per cassazione è stato proposto contro la sentenza della Corte di appello di Roma, che – confermando la decisione di primo grado – ha respinto l’opposizione proposta da P.G. al decreto ingiuntivo n. 115 del 2006, emesso dal Tribunale di Latina su ricorso di C.G., recante condanna del P. al pagamento di L. 70.000.000, oltre accessori e spese;
– il Collegio ritiene di non poter aderire alla suddetta interpretazione, anche alla luce dei principi sul giusto processo di cui all’art. 111 Cost., e che comunque il nuovo principio non possa ritenersi applicabile ai giudizi svoltisi in data anteriore alla pubblicazione della citata sentenza delle sezioni unite.
Quanto al primo punto, il Collegio rileva che il principio enunciato è estraneo al testo letterale dell’art. 645 cod. proc. civ.. e ritiene che esso non trovi supporto in esigenze di carattere sistematico.
In primo luogo la norma autorizza, ma non impone, la riduzione del termine di comparizione, nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo; sicchè appare singolare e disarmonico che il termine di costituzione debba ritenersi sempre ed obbligatoriamente dimezzato, essendo invece facoltativo avvalersi della riduzione del termine di comparizione.
La soluzione si spiegherebbe se vi fosse un principio per cui tutti i termini debbono essere dimezzati, nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo; ma così non è. -Nè sembra corretto trarre argomento dalle disposizioni dettate per il processo ordinario dagli art. 163 bis c.p.c., comma 2, e art. 165 c.p.c., comma 1: sia perchè nel processo ordinario la riduzione del termine di comparizione deve essere appositamente richiesta dalla parte interessata, la quale così accetta consapevolmente la regolamentazione ed i limiti che ne conseguono; sia perchè ivi la riduzione del termine di costituzione è espressamente disposta dalla legge (art. 165 c.p.c., comma 1); sia perchè l’eventuale tardività dell’iscrizione a ruolo non comporta l’improcedibilità della domanda, pregiudicando irrimediabilmente la posizione della parte, ma è sanabile mediante riassunzione (art. 307 cod. proc. civ.).
-Non sembra consentito, pertanto, istituire un parallelismo di disciplina, a fronte di gravi disparità di presupposti e di effetti della proposta regolamentazione.
Infine e soprattutto, l’introduzione in via interpretativa dell’automatica riduzione del termine di costituzione comporta una deroga alla disciplina di diritto comune che aggrava la posizione di una sola delle parti del giudizio, ed in particolare la posizione dell’opponente, che già risulta svantaggiato rispetto alla controparte, nell’esercizio del diritto di difesa, in virtù della peculiare disciplina del processo di ingiunzione.
In un processo in cui colui che riveste sostanzialmente la posizione di convenuto è esposto ad un provvedimento di condanna sommaria e preventiva; deve proporre le sue difese entro un termine perentorio, a pena del passaggio in giudicato della condanna; non può evitare l’esecuzione provvisoria in mancanza di prova scritta; è soggetto a pronuncia immediata di improcedibilità, nel caso di mancata o tardiva costituzione, ecc., l’introduzione in via meramente interpretativa di ulteriori restrizioni e decadenze – quali la riduzione automatica a cinque giorni del termine di costituzione, a prescindere da ogni consapevole scelta di parte (termine che per di più viene applicato dalla giurisprudenza con estremo rigore: cfr. Cass. civ. Sez. 1, 8 marzo 2005 n. 5039) – non pare compatibile con i principi per cui il giusto processo deve svolgersi “in condizioni di parità fra le parti” e deve essere “regolato dalla legge” (art. 111 Cost., comma 1 e 2).
Si aggravano infatti le asimmetrie di disciplina nell’esercizio del diritto di difesa, in danno del solo opponente ed in mancanza di espressa disposizione di legge.
L’interpretazione qui criticata non appare giustificata neppure da esigenze di garanzia della “ragionevole durata del processo”, o del diritto di difesa dell’opposto.
Sulla durata del processo non incidono i termini di costituzione, bensì i termini di comparizione.
Il diritto di difesa dell’opposto non risulta meno tutelato di quello spettante all’opponente, ove si consideri che il termine di quaranta giorni concesso a quest’ultimo per predisporre le sue difese e notificare l’atto di opposizione potrebbe essere ridotto fino a dieci giorni (art. 641 c.p.c., comma 2).
Questo Collegio ritiene, pertanto, che la riduzione alla metà dei termini di costituzione dell’opposto debba ritenersi operante (tutt’al più) nei soli casi in cui l’opponente effettivamente si avvalga del diritto di ridurre alla metà i termini di comparizione.
In subordine e in ogni caso, anche ammesso che si voglia confermare l’interpretazione qui criticata, il principio enunciato dalla Corte di cassazione a sezioni unite con la citata sentenza n. 19246 del 2010, non dovrebbe poter essere applicato ai processi svoltisi in data anteriore, allorchè era consolidata una diversa interpretazione.
Il Collegio condivide in proposito le argomentazioni svolte dalla sentenza n. 15811/2010 della seconda Sezione di questa Corte, secondo cui non è consentito “cambiare le regole del gioco a partita già iniziata”. Ciò comporterebbe la sostanziale violazione, anche qui, del principio di legalità sancito da varie norme della nostra Costituzione ed in particolare dall’art. 111. – In tema di opposizione a decreto ingiuntivo ciò avrebbe conseguenze particolarmente gravi, poichè verrebbe ad esporre l’opponente ad un giudizio di improcedibilità dell’opposizione – con irrimediabile pregiudizio per la difesa delle sue ragioni – sulla base di regole diverse da quelle che egli era in grado di conoscere e di prevedere alla data in cui ha proposto la domanda giudiziale.
Va tenuto presente che, mentre una legge che innovi al diritto preesistente contiene normalmente anche le norme transitorie e la disciplina dei rapporti in corso – e, se non le contiene, è comunque soggetta ai principi generali in materia (art. 10 e 11 delle preleggi, art. 25 Cost., ecc.) – una nuova regola giurisprudenziale nasce del tutto scollegata dai problemi di diritto intertemporale, pur venendo di fatto a rivestire, nella formazione del diritto vivente e concretamente applicato, una rilevanza spesso non inferiore a quella della legge.
La mancata, espressa previsione e disciplina del problema si ricollega al principio generale per cui le regole di origine giurisprudenziale, non avendo forza di legge, non possono formalmente vincolare le parti o gli interpreti, quindi possono essere disattese in qualunque momento, precedente o successivo alla loro formulazione.
Ma trattasi di un principio che esprime un’esigenza di garanzia e che non può essere usato contro se stesso, si da condurre a risultati antitetici a quelli per i quali è stato formulato.
Nel sistema delle fonti del diritto la legge è sovraordinata alla giurisprudenza anche allo scopo di garantire l’uniformità e la certezza delle regole di comportamento, sottraendole alle ondivaghe opinioni e tendenze interpretative.
Nel momento in cui si constata che le interpretazioni giurisprudenziali – ed in particolare quelle della Corte di cassazione – orientano di fatto il comportamento degli operatori del diritto tanto quanto le norme di legge (se non di più, soprattutto là dove la legge non disponga, o quando ne venga integrato il dettato letterale, come nel caso di specie); nel momento in cui la legge formale da il suo avallo ad una tale tendenza, tramite norme quali il nuovo art. 350 bis c.p.c., n. 1), per cui l’inosservanza dei principi giurisprudenziali può costituire causa di inammissibilità del ricorso per cassazione, il problema dell’efficacia nel tempo anche delle regole giurisprudenziali non può essere ulteriormente accantonato e trascurato, soprattutto nelle materie – quali quella processuale – in cui il principio tempus regit actum svolge un ruolo insostituibile di garanzia.
Anche qui il principio per cui il giusto processo deve essere regolato dalla legge richiede e presuppone che il privato abbia il diritto di sapere con certezza quali siano le regole in vigore nel momento in cui agisce, siano esse legali o giurisprudenziali. E, se la legge non provvede in materia, è il caso che la giurisprudenza si faccia carico anche di questo problema.
Trattasi di questione che questo Collegio ritiene di particolare importanza, sulla quale chiede che si pronuncino le Sezioni unite di questa Corte.
P.Q.M.
visto l’art. 374 c.p.c., comma 3, rimette la causa alle Sezioni unite.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2011