Un’interessante ordinanza in materia di capacità distintiva di marchi d’insieme
composti da denominazioni geografiche e parole di uso comune.

di Roberto Manno

L’ordinanza in commento affronta alcune interessanti questioni riguardanti una “nuova” figura di segni distintivi, ossia i domain names. Con il nuovo codice della proprietà industriale, infatti, i domain names (già qualificati in tal senso da un lungo iter giurisprudenziale) sono stati espressamente inseriti tra i segni distintivi previsti dall’art. 22 cpi, che a sua volta ha sancito expressis verbis il principio dell’unitarietà dei segni distintivi.
Tale principio tuttavia non può essere interpretato nel senso di estendere a qualsiasi domain name, in quanto tale, le prerogative dei segni distintivi, tra cui in primis lo ius excludendi nei confronti di altri segni (ex art. 22: tutti i segni) uguali o simili.
Affinchè ciò avvenga, infatti, è necessario che il domain name possegga i necessari requisiti di validità di ogni segno distintivo: novità, liceità, capacità distintiva (ex artt. 12,13 e 14 cpi).
L’utilità di tale premessa è evidente allorchè spesso, sulla rete internet, sono utilizzati quali domain names aziendali denominazioni sprovviste di capacità distintiva o di originalità.
La rete internet, e in particolar modo il sistema DNS che regola (tecnologicamente) l’allocazione e l’uso dei domain names, rende possibile ciò che nel mondo reale è vietato proprio dalla disciplina in materia di segni distintivi, e cioè disporre in via esclusiva di una determinata denominazione, creando situazioni di monopolio sull’uso di denominazioni che appartengono al pubblico dominio.
Come non possono esistere due utenze telefoniche identiche, così non possono esistere identici domain names (ovviamente mi riferisco alla parte “disponibile” del doman name, vale a dire i second level domain, quella che precede il punto che a sua volta precede i vari country code o top level domain – .it/.es/.com/.biz etc…) [1]. Tuttavia, poiché l’unico criterio seguito – tranne poche eccezioni – nell’assegnazione del domain name è il “first come, first served”, è ben possibile acquisire e utilizzare in via esclusiva sull’intera rete denominazioni generiche e descrittive come ad esempio vodka.com; scarpe.it; house.biz e via discorrendo.
Tali esempi si collocano aldifuori della disciplina dei segni distintivi, che sanzionano con la nullità assoluta la mancanza di capacità distintiva ovvero la descrittività di ogni segno.
Eppure, ciò non impedisce al domain name generico/descrittivo di sfruttare economicamente l’immediatezza con cui il segno raggiunge un mercato potenzialmente illimitato, imponendo la propria presenza a tutti gli operatori di una determinata filiera.
Ciò trova conferma nel valore con cui sono stati ceduti domain name nel cd. “mercato secondario”, [2] quali ad esempio vodka.com (3 milioni di dollari), nello sviluppo di un’intera industria dedita alla compravendita di domini; nella conversione dell’alto traffico generato dai siti generici in ricavi pubblicitari, agevolati da business models come google/adsense.
In tale contesto, è apprezzabile come il tribunale di Bari, Sez. Spec. PII abbia stabilito alcuni importanti principi in materia di conflitto tra domain names assai simili, composti da elementi geografici abbinati a termini di uso comune, sui quali il ricorrente intendeva far valere diritti esclusivi ai sensi della disciplina in materia di segni distintivi, in particolare la tutela prevista per il cd. “marchio debole”.
Oltre alla tutela reale del proprio segno distintivo il ricorrente, lamentando la violazione della correttezza professionale, chiedeva la concessione dei provvedimenti cautelari ex art. 700 cpc. anche sulla base dell’azione personale per concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c.
I siti contraddistinti dai rispettivi domain names per i quali era controversia, infatti, prestavano identici servizi editoriali e informativi, con la sola differenza che i primi erano caratterizzati dall’insieme “nomecittà+LIVE”, mentre i secondi dall’insieme “nome città+LIFE”.
Rilevava tuttavia il Giudice che solo in presenza di validi segni distintivi è possibile accertare l’eventuale confusorietà tra essi ai fini sia della concorrenza sleale (ex art 2598 co. 1 c.c., ossia adozione di segni distintivi altrui al fine di trarre in confusione i consumatori) che di altre violazioni di natura reale. L’esame della combinazione “nome città+LIVE” portava a ritenere tale segno privo di qualsiasi capacità distintiva in relazione ai servizi così contraddistinti.
Coerentemente all’indirizzo della Suprema Corte – vedi sentenza n. 7488 del 2004 – il giudice ha escluso che la possedesse alcuna capacità distintiva, respingendo conseguentemente le domande del ricorrente.
Nell’ordinanza in commento è assai interessante il riferimento alla distinzione tra “marchi composti” e “marchi d’insieme”, operata in giurisprudenza dalla Corte di Cassazione – vedi sentenza n. 7488 del 2004, in cui il ricorrente lamentava l’illegittimità della decisione di appello che negava ad un marchio composto da termini privi carattere distintivo quella protezione che, seppur minima, avrebbe consentito di affermare l’illiceità di altre successive denominazioni simili. Sul punto, “…osserva la corte che il ricorrente ben consapevole della giurisprudenza che assegna al giudice del merito il potere di accertare in fatto la natura di un segno ovvero di stabilire se esso è dotato della distintività che giustifica la privativa, muova da una contestazione di carattere giuridico, accusando la corte d’appello di avere dimenticato la protezione pur limitata che la legge assegna al marchio debole. Ovvero a quel segno che pur agganciandosi concettualmente in qualche modo al prodotto ha tuttavia una sia pur limitata capacità distintiva, cosicché solo la sua integrale imitazione costituisce contraffazione mentre una pur minima differenziazione la esclude.
La corte di merito tuttavia non ha commesso l’errore preteso giacché ha ragionato in tema di marchio d’insieme, figura giurisprudenziale che a sua volta si distingue dal più ampio genere del marchio complesso. Se quest’ultimo infatti è riconoscibile nel segno che risulta da una composizione di più elementi ciascuno dotato di capacità caratterizzante, la cui forza distintiva tuttavia è affidata ad uno di essi costituente il cosiddetto cuore, assolutamente protetto per la sua originalità, il marchio di insieme è fenomeno commerciale diverso. In esso infatti si ha la mancanza di un elemento caratterizzante (il cosiddetto cuore), essendo i vari elementi tutti singolarmente mancanti di distintività. È invece la combinazione cui tali elementi danno vita, ovvero appunto il loro “insieme”, che può avere, per come viene percepito dal mercato, un valore distintivo più o meno accentuato.
Movendo da tali premesse che trovano il conforto di una diffusa dottrina e di taluni precedenti nella giurisprudenza di merito che hanno per l’appunto determinato l’adesione della dottrina suddetta, e che il collegio ritiene del tutto legittime, la corte di merito è passata alla indagine di fatto che ad esso competeva. Ed alla stregua di questa ha escluso che la parola “color” sia stata da parte della D.spa inserita in un complesso di elementi distintivi, e quindi che sia essa stessa dotata di particolare distintività. Essa infatti, nota la sentenza impugnata, indica in un inglese di comune conoscenza la rilevanza dei colori in taluni prodotti, ed in ciò non implica alcuna originalità. Essa pertanto, conclude il giudice del merito, non può essere assunta quale cuore, nel senso chiarito, del segno in questione.
In definitiva l’accertamento del giudice del merito dopo avere escluso il marchio complesso e con esso la sua complessiva proteggibilità, ha escluso pure, per la struttura del riscontrato marchio di insieme, l’esistenza di un elemento in sé proteggibile per la sua specifica distintività.”
È quindi proprio sulla base della distinzione giurisprudenziale tra cd. “marchi composti” e “marchi d’insieme” che il Giudice ha potuto affermare, nel caso di specie, come sia “del tutto pacifico che il nome della città utilizzato all’interno di un dominio contenente informazioni relative a quest’ultima non ha alcun carattere di fantasia e, quindi, distintivo; lo stesso deve dirsi del termine LIVE, di uso assolutamente comune. Ugualmente non è sufficientemente individualizzante la loro combinazione ove utilizzata per fare riferimento ad un sito di informazione su quella città. In altri termini, la natura forte di un marchio, o più in generale di un segno distintivo costituito da un nome geografico sussiste solo se il detto nome non identifichi un sito che comunque ha ad oggetto quella entità geografica. E’ altresì notorio che in assenza di detti requisiti la tutela potrebbe essere invocata solo in presenza di segni sostanzialmente identici.”


L’ordinanza affronta, inoltre, la questione dell’acquisto di capacità distintiva da parte di un segno originariamente privo di essa, ai sensi della teoria del cd. “secondary meaning”, attraverso un uso particolarmente intenso e qualificato.
Pur considerando le oggettive difficoltà che una tale dimostrazione incontra nel giudizio cautelare a cognizione sommaria (ma anche nel giudizio ordinario!), il Giudice ha stabilito che gli elementi forniti da parte ricorrente non erano idonei a dimostrare che il segno avesse acquisito, nella mente dei clienti di un certo territorio, un significato ulteriore e secondario rispetto alla somma dei significati degli elementi che lo compongono.
Per tali motivi il Giudice ha argomentato che “…condividendosi quanto affermato in proposito dalla convenuta, che a tal fine non può aversi riguardo alla risalenza nel tempo della registrazione, ma all’effettivo uso del dominio. Ciò che l’imprenditore deve provare non è semplicemente di avere utilizzato e pubblicizzato il marchio ma che tale uso ha generato nel consumatore la nascita di un nuovo significato. Occorre, in sostanza dimostrare che all’epoca dell’utilizzo da parte del concorrente l’utilizzo dei domini in questione aveva già raggiunto una diffusione tale da determinare nel pubblico dei consumatori la convinzione che l’informazione resa in tutti i siti individuati con il nome della città seguita dal suffisso “LIVE” fosse riconducibile alla ditta del ricorrente e non ad un anonimo sito informativo e che, di conseguenza, l’utilizzo del suffisso “LIFE”, simile, ma non identico fosse idoneo a generare confusione tra due specifici prodotti. Detta prova non può ritenersi raggiunta.”


La prova del secondary meaning infatti, risolvendosi sulla prova dell’uso qualificato del segno, deve riferirsi non solo ad un uso di “congrua durata”, ma anche “in connessione con un singolo prodotto (o servizio), supportato da un’ampia pubblicità, e concludersi con un vero e proprio mutamento di significato del segno (da generico a specifico) nella percezione del pubblico” (Vanzetti-Di Cataldo, 1996, 143). Ma a ben vedere solo attraverso specifiche indagini demoscopiche è possibile dimostrare con sufficiente certezza l’acquisto di una vera capacità distintiva, come alcune sentenze della corte di giustizia delle comunità europee hanno stabilito:
“il diritto comunitario non osta a che l’autorità competente, che versi in difficoltà nel valutare il carattere distintivo del marchio di cui si richiede la registrazione, ricorra – alle condizioni previste dal diritto nazionale – a un sondaggio d’opinione destinato a chiarire il suo giudizio” ( CGCE cause C-108/97 e C-109/97).


A parere di chi scrive è proprio l’istituto del secondary meaning ad essere maggiormente interessato dai casi (frequenti) di uso come domain names (e quindi come segno distintivo “in pectore”) di denominazioni originariamente prive di capacità distintiva in quanto generiche e descrittive. Può accadere, infatti, che una denominazione descrittiva/generica (si pensi ad esempio al termine inglese “booking” [3] per servizi di prenotazione alberghiera), utilizzata come domain name in quanto libera al momento della registrazione dello stesso secondo la regola del “first come, first served”, assuma grazie al successo delle attività così contraddistinte una dimensione (anche internazionale) tale da sviluppare una certa (più o meno accentuata) capacità distintiva, azionabile anche nei confronti di altri imprenditori.


L’enorme sviluppo della rete internet e delle attività economiche legate ad essa, infatti, consente all’utilizzatore di un domain name generico/descrittivo, di godere di una situazione di esclusività su un media che difficilmente potrebbe realizzarsi nel mondo reale, dove la concessione di diritti esclusivi su denominazioni è subordinata alla presenza di sufficiente capacità distintiva.[4] A differenza del marchio, la concessione del domain name risponde alla sola regola del “first come, first served”.


Le conseguenze di tale diversità originaria sono molteplici e di non poco momento, come chiaramente mostrato dall’ordinanza in commento.


Avv. Roberto Manno


Note




  1. Per approfondimenti sul sistema di gestione dei domain names, si veda: http://en.wikipedia.org/wiki/Domain_Name_System


  2. Si distingue tra mercato primario, in cui è possibile ottenere l’assegnazione dei domain names direttamente dalle varie registration authorities, e mercato secondario, dove i domini sono invece liberamente compravenduti dai rispettivi assegnatari, a prezzi determinati in molti casi da aste online. Ciò è alla base dei servizi di domain name parking, tra cui www.sedo.com;


  3. Si segnala sul punto una decisione collegiale della Corte arbitrale Ceca, ente nominato dalla Commissione Europea per risolvere le controversie in materia dei domini comunitari “.eu”, accessibile presso http://www.weblegal.it/pubblicazioni.html n. 4687 BOOKING.EU


  4. Sul punto si segnalano, oltre che alle numerose pronunce in materia di azioni di nullità di marchi ex art. 12 d. lgs. 30/2005, le decisioni della divisione di esame dell’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno in materia di marchi comunitari denominativi sprovvisti di capacità distintiva, reperibili presso http://oami.europa.eu