Sul valore della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
nell’ordinamento italiano*
di Ugo Villani
(in Studi sull’integrazione europea, 2008, p. 7 ss.,
e in Studi in onore di Umberto Leanza, Napoli, Editoriale Scientifica, 2008, vol. II, p. 1425 ss..)

SOMMARIO





















1. L’aspetto centrale della problematica relativa al valore della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano risiede oggi, anche in considerazione delle recenti sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349 [1], nel rango della stessa in rapporto, da un lato, alle leggi ordinarie, dall’altro, alla nostra Costituzione. Questo aspetto, peraltro, non esaurisce la tematica concernente il ruolo della Convenzione in Italia; essa presenta anche altri profili, in parte legati al rango della Convenzione di Roma, in parte indipendenti da tale questione.


In primo luogo, infatti, occorre esaminare se le disposizioni della Convenzione siano suscettibili di ricevere immediata applicazione nel nostro ordinamento (con conseguente possibilità di essere invocate in giudizio dagli individui), ovvero se, a questo fine, si renda necessario un intervento legislativo dello Stato [2]. Questa seconda alternativa si collega ad una concezione in base alla quale lo Stato parte, aderendo alla Convenzione europea, assumerebbe un obbligo nei riguardi degli altri Stati parti, non già nei confronti dell’individuo. Di conseguenza lo Stato sarebbe tenuto ad adempiere tale obbligo, introducendo all’interno del proprio ordinamento le norme necessarie a dare attuazione e riconoscimento ai diritti contenuti nelle Convenzioni; ma, in assenza di tali norme, le disposizioni della Convenzione non potrebbero trovare applicazione, né gli individui potrebbero invocarle a tutela dei propri diritti. Il riconoscimento di una immediata applicazione, al contrario, comporta che le disposizioni della Convenzione, in virtù della sola legge di esecuzione nello Stato parte, siano idonee a produrre tutti i loro effetti giuridici nell’ordinamento interno e, quindi, a conferire agli individui un diritto “giustiziabile”, cioè tutelabile anche in giudizio.


In proposito vari argomenti inducono a ritenere che, di regola, la Convenzione europea sia immediatamente applicabile nel nostro ordinamento, a prescindere da misure statali di attuazione [3]. In questo senso depone, anzitutto, la formulazione dell’art. 1, il quale dichiara che le Parti contraenti “riconoscono” (“reconnaissent”, “shall secure”) i diritti elencati nel testo. Tale formulazione esprime un obbligo immediato e precettivo di rispettare i diritti enunciati nella Convenzione. Essa risulta ancor più eloquente se raffrontata con la formulazione che, in un primo momento, era stata proposta per tale disposizione, la quale prevedeva che gli Stati parti “undertake to secure” i diritti in questione, così dando la sensazione di una norma “programmatica”, destinata ad essere attuata da misure statali, in adempimento dell’impegno assunto. La sostituzione di tale formula con quella presente nell’art. 1 è prova della volontà degli Stati parti di assumere, in virtù della stessa partecipazione alla Convenzione (e della sua esecuzione nel proprio ordinamento), l’obbligo immediato di rispettare i diritti ivi contemplati. Sul punto la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza del 27 marzo 2003, Scordino c. Italia [4], ha osservato che, “en substituant le mot ‘reconnaissent’ au mot ‘s’engagent à reconnaître’ dans le libellé de l’article 1, les rédacteurs de la Convention ont voulu indiquer de surcroît que les droits et les libertés du Titre I seraient directement reconnus à quiconque relèverait de la juridiction des Etats contractants”.


Un ulteriore argomento a sostegno della immediata applicabilità delle disposizioni della Convenzione europea può ricavarsi dall’art. 13, il quale espressamente stabilisce che ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella stessa Convenzione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale.


Merita poi di essere sottolineato che la legge italiana che dispone l’autorizzazione alla ratifica della Convenzione europea (legge 4 agosto 1955 n. 848) contiene altresì l’ordine di esecuzione, il quale, nel provvedere all’adattamento del diritto italiano alla Convenzione stessa, comporta il riconoscimento nel nostro ordinamento dei diritti in essa previsti ed esprime la volontà del legislatore di dare “piena ed intera esecuzione” alla stessa, non di … rinviare tale esecuzione all’emanazione di ulteriori, successive misure legislative.


Né va trascurato, da ultimo, che, tra le diverse interpretazioni possibili delle disposizioni della Convenzione, va preferita quella che tutela nella maniera più efficace i diritti da esse riconosciuti, in conformità del criterio ermeneutico, enunciato dall’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969 (corrispondente al diritto internazionale consuetudinario), secondo il quale i trattati devono essere interpretati alla luce del loro oggetto e del loro scopo. Tenuto conto che la Convenzione di Roma è evidentemente diretta ad assicurare la protezione dei diritti umani ivi riconosciuti, l’interpretazione qui sostenuta appare infatti informata ad un favor per tali diritti.


Il riconoscimento della immediata applicabilità delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo presuppone, peraltro, che esse siano self-executing, cioè abbiano un contenuto completo, autosufficiente, idoneo a consentire che esse siano effettivamente applicabili pur in assenza di norme statali di integrazione. Va precisato, inoltre, che l’indicato carattere della Convenzione europea non esclude che possano risultare opportune, o persino necessarie, norme statali dirette ad assicurare un pieno godimento dei diritti contemplati dalle disposizioni della Convenzione e una loro più efficace tutela, per esempio, nei confronti di violazioni provenienti da privati, o predisponendo procedimenti di riparazione in caso di mancato rispetto (come con la c.d. legge Pinto del 24 marzo 2001 n. 89), o, ancora, elevando certi diritti a rango costituzionale (come con la legge costituzionale del 23 novembre 1999 n. 2 che ha integrato l’art. 111 Cost. con disposizioni sul giusto processo).


Legata all’immediata applicabilità della Convenzione di Roma è l’idoneità delle sue disposizioni, a prescindere da un eventuale rango superiore alle leggi ordinarie, a determinare l’abrogazione (o la modificazione) di tali leggi, se anteriori all’entrata in vigore in Italia della Convenzione stessa, in caso d’incompatibilità tra il loro rispettivo contenuto. Il carattere immediatamente precettivo delle disposizioni della Convenzione si esplica, infatti, anche nell’effetto di un’abrogazione (o modificazione) tacita delle leggi anteriori incompatibili, alla luce dei consueti principi relativi alla successione delle leggi nel tempo (art. 15 delle preleggi al codice civile). Tale effetto abrogativo, già riconosciuto dalla Corte costituzionale riguardo a norme internazionali generali sopravvenute, immesse nell’ordinamento italiano in virtù dell’art. 10, 1° comma, Cost.[5], è stato affermato dalla Corte di cassazione, sezioni unite, nella sentenza del 10 luglio 1991 n. 7662. In questa sentenza la Corte ha dichiarato l’avvenuta abrogazione dell’art. 34, 2° comma, del R.D.L. 31 maggio 1946 n. 511, nella parte in cui escludeva la pubblicità della discussione della causa nel giudizio disciplinare a carico di magistrati, per contrasto con la regola della pubblicità delle udienze sancito dall’art. 6 della Convenzione europea.


2. Il rango delle norme della Convenzione di Roma immesse nell’ordinamento italiano rappresenta da tempo l’aspetto principale, e forse più controverso, concernente il valore della stessa Convenzione in Italia. Anteriormente alla riforma dell’art. 117 Cost., effettuata con legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3, non erano mancati tentativi di attribuire alle sue disposizioni un rango costituzionale, applicando l’art. 10, 1° comma, Cost., in quanto riferito anche alla norma di diritto internazionale generale “pacta sunt servanda”, oppure facendo leva sull’art. 2 Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”), considerato come una “clausola aperta” idonea a ricomprendere non solo i diritti contemplati dalla stessa Costituzione, ma anche nuovi diritti emergenti dagli atti internazionali in materia, o ancora qualificando la Convenzione europea come un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni ai sensi dell’art. 11 Cost. [6]. Tuttavia l’opinione prevalente, fatta propria anche dalla Corte costituzionale, era nel senso che la Convenzione europea, da un punto di vista formale, avesse il rango di legge ordinaria; ciò in quanto, di regola, le norme internazionali immesse nell’ordinamento italiano hanno lo stesso rango dell’atto normativo con il quale si dà ad esse esecuzione in Italia [7] e la Convenzione europea è stata eseguita con legge ordinaria.


Tale soluzione comportava, in primo luogo, che le disposizioni della Convenzione europea fossero subordinate alla Costituzione italiana; e, in secondo luogo, che esse, come potevano abrogare una legge ordinaria preesistente, così potevano essere abrogate o modificate da una legge ordinaria successiva. Se questa era la conseguenza che derivava da una considerazione strettamente limitata al rango delle disposizioni della Convenzione, a queste, tuttavia, si finiva per attribuire una particolare forza di resistenza nei confronti di leggi ordinarie successive. A tale risultato si giungeva attraverso due vie. Anzitutto, sul piano interpretativo, era stata sostenuta la teoria secondo la quale le disposizioni della Convenzione (o, più precisamente, le corrispondenti norme immesse nell’ordinamento italiano mediante l’ordine di esecuzione della stessa) avrebbero un carattere di specialità, riferito al procedimento concernente la loro formazione, e sarebbero sorrette dalla volontà dello Stato che gli obblighi nascenti dalla Convenzione siano rispettati; di conseguenza, nel caso di incompatibilità tra leggi ordinarie (successive) e disposizioni della Convenzione, queste ultime sarebbero destinate a prevalere, in forza, appunto, del loro carattere speciale, salvo che il legislatore manifesti in maniera chiara e non equivoca la propria determinazione di abrogare o modificare disposizioni della Convenzione [8].


Anche la Corte costituzionale, nella sentenza del 19 gennaio 1993 n. 10, aveva affermato una particolare resistenza passiva della Convenzione europea (nonché del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966) nei confronti di leggi successive, motivandola sulla base di un carattere “atipico” della sua fonte giuridica. La Corte aveva dichiarato che le disposizioni della Convenzione (come del citato Patto del 1966) sono “norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria”.


Così formulata, la forza di resistenza della Convenzione europea sembrerebbe opponibile anche ad una espressa volontà abrogatrice (o modificatrice) del legislatore ordinario, poiché questo non potrebbe intervenire su una fonte che si pone, se non a livello superiore, in un contesto differente (“atipico”) rispetto alla legislazione ordinaria. Tale affermazione della Corte costituzionale, tuttavia, è restata isolata; inoltre essa non offre una motivazione esauriente, né risulta sicura per quanto concerne il suo ambito applicativo; ci si può chiedere, infatti, se riguardi tutti i trattati (fondandosi, così, su una base formale o procedimentale) o se, al contrario, sia limitata ai trattati sui diritti umani (ponendosi, in tal caso, su un fondamento materiale o contenutistico).


Al di là di questa sentenza, più volte la Corte costituzionale aveva dichiarato che le norme contenute in accordi internazionali a tutela dei diritti umani (quale il Patto sui diritti civili e politici del 1966) non possono essere assunte, in quanto tali, come parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi, pur riconoscendo, in specie nelle sentenze del 29 gennaio 1996 n. 15, che esse “hanno una grande importanza nella stessa interpretazione delle corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione” [9].


3. Nella sentenza da ultimo richiamata la Corte costituzionale aveva affermato che un’eventuale contraddizione con le norme convenzionali ricordate da parte di leggi interne non determinerebbe di per sé, cioè indipendentemente dalla “mediazione” di una norma della Costituzione, un vizio di incostituzionalità. Come la stessa Corte costituzionale ha chiarito nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 24 ottobre 2007, oggi tale mediazione esiste ed è costituita dall’art. 117, 1° comma, Cost., novellato dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3. Esso, infatti, dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (oltre che della Costituzione e dell’ordinamento comunitario).


Com’è noto, all’indomani dell’introduzione di tale disposizione nella Costituzione italiana sono state proposte in dottrina diverse tesi interpretative. Da una parte, si è ritenuto che essa abbia un ambito limitato ai soli rapporti della potestà legislativa statale con quella regionale [10]; dall’altro, al contrario, che essa sia idonea, in principio, a determinare un adattamento automatico dell’ordinamento italiano ai trattati dei quali l’Italia sia parte [11].


La Corte costituzionale, nelle citate sentenze del 24 ottobre 2007, accoglie invece una tesi intermedia, sulla scorta di un’autorevole dottrina [12]. Essa, con riguardo alla sedes materiae, rileva anzitutto che questa non è sufficiente a giustificare una interpretazione ristretta ai rapporti tra la competenza legislativa dello Stato e delle regioni, che sarebbe in contrasto con lo stesso enunciato dell’art. 117, 1° comma. Osserva inoltre che, anche se l’operatività del vincolo derivante da tale norma fosse limitata all’interno del titolo V della Costituzione, quest’ultimo definisce ogni tipo di competenza legislativa, sia dello Stato, esclusiva o concorrente, che delle regioni, per cui la suddetta disposizione sarebbe in ogni caso idonea ad estendere all’intera materia legislativa il rispetto degli obblighi internazionali.


Quindi la Corte costituzionale afferma che l’art. 117, 1° comma, pur non conferendo alle disposizioni della Convenzione europea un rango costituzionale, impone al legislatore ordinario il limite del rispetto degli obblighi internazionali (convenzionali); pertanto una legge ordinaria che fosse incompatibile con una disposizione della Convenzione verrebbe a violare lo stesso art. 117, 1° comma, e sarebbe, di conseguenza, incostituzionale.


Le disposizioni della Convenzione – come si è detto – non assurgono al rango costituzionale; invero l’adattamento dell’ordinamento italiano a tali disposizioni non è avvenuto mediante un procedimento costituzionale, ma tramite l’ordine di esecuzione contenuto nella legge ordinaria; sicché, sotto questo profilo, esse tenderebbero a conservare il rango di legge ordinaria. Ma l’art. 117, 1° comma, attribuisce alle stesse disposizioni della Convenzione europea una particolare forza di resistenza, poiché vieta di legiferare in contraddizione con le stesse. Le disposizioni della Convenzione europea fungono così da norme interposte (tra la legge ordinaria e la Costituzione), nel senso che il suddetto articolo opera un rinvio mobile alle norme convenzionali, per cui queste costituiscono parametro di valutazione della legittimità costituzionale della legge italiana. Per tale via alle disposizioni della Convenzione europea (come di ogni altro accordo internazionale) viene riconosciuta una posizione intermedia tra la legge ordinaria e la Costituzione, in altri termini un rango subcostituzionale.


Alla luce di tale impostazione una legge ordinaria incompatibile con la Convenzione europea, violando l’art. 117, 1° comma, è destinata ad essere dichiarata incostituzionale ad opera della Corte costituzionale (come è accaduto nelle due sentenze del 24 ottobre 2007).


La tesi accolta dalla Corte costituzionale solleva peraltro un problema di carattere intertemporale (che non è emerso nei procedimenti conclusi con le citate sentenze del 24 ottobre 2007). Considerato che l’art. 117, 1° comma, in principio opera (come qualsiasi norma) pro futuro, il limite al legislatore coincidente con il rispetto delle disposizioni della Convenzione europea dovrebbe riguardare solo le leggi emanate successivamente alla legge costituzionale n. 3 del 2001. Quelle anteriori a tale legge costituzionale sarebbero, invece, immuni da eventuali vizi di incostituzionalità e, in principio, applicabili dal giudice comune, pur se contrastanti con norme della Convenzione [13].


A tale conclusione, peraltro, può opporsi che il limite derivante dal citato art. 117, 1° comma, ha non soltanto un’efficacia “negativa”, nel senso che esso vieti di legiferare in futuro in maniera contrastante con preesistenti accordi internazionali, ma anche un effetto “positivo”: cioè che l’art. 117, 1° comma, esprima la volontà di garantire, a livello costituzionale, l’osservanza degli accordi eseguiti in Italia. Una siffatta volontà sembra prescindere dalla circostanza che la legge ordinaria segua la novella del 2001 o sia ad essa preesistente, in quanto tende a rafforzare tutti gli accordi dei quali l’Italia sia parte mediante una garanzia costituzionale [14]. Essa, pertanto, comporterebbe non solo l’incostituzionalità (originaria) delle leggi in conflitto con accordi internazionali successive alla legge costituzionale n. 3 del 2001, ma anche l’incostituzionalità (sopravvenuta) di quelle anteriori all’introduzione del nuovo art. 117, 1° comma.


Sia pure in maniera implicita, sembra questa l’opinione della Corte costituzionale, la quale, nelle sentenze del 24 ottobre 2007, ha dichiarato l’incostituzionalità, per contrasto con la Convenzione europea, di leggi anteriori alla riforma costituzionale del 2001.


4. Come si è osservato, l’art. 117, 1° comma, pur attribuendo alla Convenzione europea (come agli altri accordi internazionali) una particolare forza di resistenza rispetto alla legge ordinaria, non provvede a rinviare alla stessa al fine di immettere le sue disposizioni nell’ordinamento italiano (a differenza di quanto fa l’art. 10, 1° comma, Cost., per le norme del diritto internazionale generale). Il conseguente rango subcostituzionale che così, in principio, assume la Convenzione europea (o, più esattamente, la legge italiana di esecuzione della stessa) implica che essa resti subordinata al rispetto della Costituzione e che le sue disposizioni siano soggette allo scrutinio di compatibilità con la Costituzione da parte della Corte costituzionale. Come la stessa Corte ha osservato, in particolare nella sentenza n. 348 del 24 ottobre 2007, sarebbe invero paradossale che una legge ordinaria fosse considerata incostituzionale per contrasto con una disposizione, a sua volta in conflitto con la Costituzione.


Ora, potrebbe sembrare che l’ipotesi di un contrasto tra una disposizione della Convenzione europea e una norma costituzionale sia puramente teorica, posto che, in linea di principio, vi è una sostanziale corrispondenza tra i diritti umani riconosciuti dalla Convenzione europea e dalla Costituzione italiana.


Tuttavia è possibile che il grado d’intensità della protezione dei diritti umani sia differente nei due testi. Nell’ipotesi in cui il livello di protezione garantito dall’ordinamento italiano sia più elevato di quello accordato dalla Convenzione europea, per vero, non dovrebbe porsi neppure una questione d’incompatibilità. Lo stesso art. 53 della Convenzione europea, infatti, dichiara che nessuna delle disposizioni della Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti (tra l’altro) in base alle leggi di ogni Parte contraente. Pertanto, alla luce della stessa Convenzione, è destinata ad applicarsi la norma interna, se più favorevole alla tutela del diritto in questione.


Deve osservarsi, peraltro, che un raffronto tra le disposizioni della Convenzione europea e quelle della Costituzione, sotto il profilo della protezione più elevata, non sempre è praticabile. Il riconoscimento di un diritto umano implica, sovente, una corrispondente limitazione di un altro diritto umano, sicché ciò che in ciascun testo (convenzionale o costituzionale) viene in rilievo non è, in assoluto, la maggiore o minore protezione di un singolo diritto, ma il rapporto, il contemperamento fra differenti diritti. Per esempio, il diritto alla riservatezza e il diritto all’informazione (rispettivamente contemplati dagli articoli 8 e 10 della Convenzione europea) comportano inevitabilmente una reciproca limitazione; risulta, di conseguenza, impossibile stabilire se sia maggiormente protettivo dei diritti umani un ordinamento che tuteli in maniera più elevata il diritto alla riservatezza, a discapito del diritto all’informazione, o, viceversa, uno che privilegi il diritto all’informazione, con parziale sacrificio della riservatezza.


Il contrasto tra la Convenzione europea e la Costituzione italiana può sussistere, poi, nell’ipotesi in cui la Costituzione ponga a un diritto umano limiti più rigorosi di quelli previsti (o consentiti) dalla Convenzione europea. Si pensi ai limiti al diritto di proprietà volti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale” contemplati dall’art. 42, 2° comma, Cost., che potrebbero risultare più intensi di quelli consentiti dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea. Il problema potrebbe riguardare l’istituto della occupazione acquisitiva, che permette alla pubblica amministrazione di acquisire la proprietà di un bene, pur in assenza di un regolare procedimento espropriativo, sulla base della realizzazione di un’opera di pubblico interesse. Come la Corte costituzionale ha sottolineato nella sentenza del 24 ottobre 2007 n. 349, nel caso da essa deciso la questione di costituzionalità riguardava solo il profilo relativo alla misura della liquidazione del danno; ma, ove si ponesse un problema rispetto all’istituto in quanto tale, sarebbe probabilmente inevitabile un confronto tra la disciplina costituzionale del diritto di proprietà e quella risultante dall’art. 1 del suddetto Protocollo, posto che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte giudicato che l’istituto dell’occupazione acquisitiva è in contrasto con tale norma [15].


Il contrasto tra le disposizioni della Convenzione e quelle costituzionali può emergere anche a seguito della interpretazione seguita dalla giurisprudenza (europea o nazionale). Per esempio, riguardo alla violazione del diritto alla durata ragionevole del processo l’art. 2, 3° comma, della legge n. 89 del 2001 stabilisce che l’equa riparazione riguardi solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, cioè solo per il ritardo rispetto alla durata ragionevole; al contrario, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con alcune sentenze del 10 novembre 2004 (Zullo c. Italia e Pizzati c. Italia), ha dichiarato che la riparazione sia commisurata a ciascun anno dell’intera durata del processo, non solo agli anni di ritardo. Ebbene, con una recente sentenza del 7 gennaio 2008 n. 31, la Corte di cassazione ha dichiarato (a torto o a ragione) che il criterio di liquidazione adottato dalla Corte europea non può essere accolto, perché in contrasto con l’art. 111, 2° comma Cost., secondo il quale “il processo deve avere comunque un tempo di svolgimento o ‘ragionevole durata’ (…) e il legislatore deve conformarsi agli obblighi internazionali assunti, di cui all’art. 117 Cost., solo se questi non contrastino con i principi e le norme della carta costituzionale” [16].


Ora, qualora si verifichi un contrasto con norme costituzionali di una disposizione della Convenzione europea (verosimilmente nella interpretazione che ne dia la Corte di Strasburgo), essa non può evidentemente operare come parametro di legittimità costituzionale della legge ordinaria. In questo senso le citate sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007 sono univoche. La sentenza n. 348, inoltre, dichiara che essa va “espunta” dall’ordinamento giuridico, senza precisare, peraltro, in quale maniera tale risultato debba realizzarsi, se non aggiungendo “nei modi rituali”. A nostro parere l’operazione suddetta dovrebbe consistere nella dichiarazione di incostituzionalità della legge italiana di esecuzione della Convenzione europea, nella misura in cui determina l’ingresso della disposizione in questione nel nostro ordinamento. Tenuto conto che il problema di incompatibilità con la Costituzione si porrebbe, presumibilmente, rispetto ad una determinata interpretazione della disposizione effettuata dalla Corte europea, in concreto la declaratoria d’incostituzionalità riguarderebbe l’obbligatorietà della sentenza contenente tale interpretazione, con il risultato che essa sarebbe ineseguibile in Italia.


Tale conseguenza appare di non lieve gravità, per quanto concerne la posizione dell’Italia rispetto all’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea (art. 46 della Convenzione), nonché i rapporti fra tale Corte e quella costituzionale. Tuttavia una siffatta possibile conseguenza si determinerebbe, secondo la stessa sentenza n. 348 della Corte costituzionale, solo in casi estremi. Infatti la dichiarazione di incompatibilità della disposizione della Convenzione europea (nell’interpretazione data dalla sentenza della Corte europea) con la Costituzione non conseguirebbe ad un automatico raffronto, ma solo ove risultasse insanabile il contrasto tra il vincolo derivante dagli obblighi convenzionali e gli altri interessi costituzionalmente protetti e non fosse in alcun modo possibile un ragionevole bilanciamento tra gli stessi. E un tale bilanciamento potrebbe essere favorito da quel “margine di apprezzamento” che la Corte europea riconosce in qualche misura agli Stati nell’adempimento dei loro obblighi di rispettare i diritti contemplati della Convenzione.


5. La qualificazione, operata dalla Corte Costituzionale nelle sentenze del 24 ottobre 2007, della Convenzione europea quale atto munito di una particolare forza passiva, ma comunque di rango subordinato alla Costituzione, non esclude che singole disposizioni del¬la stessa corrispondano a norme generali di diritto internazionale. Ciò può dirsi con certezza, per esempio, per il divieto di tortura (art. 3) e per quello di schiavitù (art. 4); ma potrebbe sostenersi che tale sia anche la presunzione d’innocenza (art. 6, par. 2), o l’irretroattività della legge penale (art. 7), come ipotizza la Corte d’appello di Bologna nell’ordinanza del 21 marzo 2006 con la quale ha sollevato alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, lett. a), c.p.p., nella parte in cui esclude dai casi di revisione l’ipotesi in cui, con sentenza definitiva, la Corte europea abbia accertato l’assenza di equità del processo. E i casi di coincidenza tra disposizioni della Convenzione europea e norme di diritto internazionale generale sarebbero destinati ad ampliarsi alla luce dell’elenco di queste ultime contenuto nelle “osservazioni generali” n. 24 del 1994, formulato dal Comitato dei diritti umani istituito nell’ambito del Patto internazionale sui diritti civili e politici, in merito alle riserve al Patto da considerare inammissibili, in quanto concernenti disposizioni corrispondenti a norme di diritto internazionale consuetudinario.


Nelle ipotesi in cui disposizioni della Convenzione europea corrispondano a norme internazionali generali, esse trovano riconoscimento nell’ordinamento italiano, a prescindere dalla legge di esecuzione della Convenzione, in virtù dell’art. 10 Cost. L’adattamento dell’ordinamento italiano avviene, pertanto, a livello costituzionale, così conferendo alle norme in questione un rango costituzionale.


La conseguenza pratica di tale qualificazione costituzionale non è percepibile tanto nei confronti di una legge ordinaria incompatibile (la quale risulterebbe incostituzionale già ex art. 117, 1° comma), quanto nei rapporti con la stessa Costituzione. I diritti riconosciuti a livello di diritto internazionale generale, avendo rango costituzionale, non sono subordinati, infatti, all’intera Costituzione, ma solo a quel nucleo irrinunciabile dei “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” e dei “diritti inalienabili della persona”, che costituiscono un limite insuperabile all’ingresso delle norme generali di diritto internazionale nell’ordinamento italiano [17]. Pertanto, considerato che è l’intero ordinamento italiano che si conforma a tali norme generali, comprese quindi le norme costituzionali, non è azzardato ritenere che, qualora sussistessero divergenze nel contenuto dei diritti umani in questione, anche in relazione ai loro “contorni” o ai loro rapporti, tra le norme internazionali generali e la nostra Costituzione, quest’ultima – fatti salvi i suddetti principi irrinunciabili – dovrebbe cedere il passo a dette norme internazionali.


6. Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice comune, ove ravvisi un conflitto insanabile tra le disposizioni della Convenzione europea e una legge statale (successiva), dovrebbe sottoporre la questione di costituzionalità di tale legge alla Corte costituzionale per violazione del limite alla potestà legislativa derivante, in base all’art. 117, 1° comma, Cost., dagli obblighi internazionali (o, se del caso, per contrasto con l’art. 10, 1° comma).


È noto, peraltro, che secondo una corrente giurisprudenziale, sostenuta autorevolmente anche dalla Corte di cassazione, nel caso di contrasto di una legge statale con disposizioni della Convenzione europea, purché queste ultime abbiano un contenuto sufficientemente preciso e completo, lo stesso giudice comune dovrebbe direttamente applicare le disposizioni della Convenzione, disapplicando la contrastante legge interna [18]. La “disapplicazione” del diritto interno incompatibile con la Convenzione (che già nella sua formulazione terminologica richiama il tema dei rapporti tra il diritto interno e il diritto comunitario) è giustificata talvolta in nome di una natura sovraordinata delle norme della Convenzione europea. Ora, ben può riconoscersi tale natura in base all’art. 117, 1° comma, Cost. (se non, addirittura, un rango costituzionale ex art. 10, nei limiti entro i quali quest’ultimo possa venire in rilievo). Peraltro, come hanno chiaramente statuito le più volte citate sentenze del 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349, posto che il contrasto della legge ordinaria con disposizioni della Convenzione europea si risolve in una violazione dello stesso art. 117, 1° comma, Cost., in un sistema di controllo della costituzionalità delle leggi centralizzato, qual è il nostro, il giudice comune non ha il potere di disapplicare la legge statale ritenuta incostituzionale, ma è tenuto a sollevare la questione alla Corte costituzionale.


Né, in principio, può ritenersi che il fenomeno della disapplicazione di disposizioni interne confliggenti con il diritto comunitario (direttamente applicabile), affermato dalla nostra Corte costituzionale a partire dalla sentenza dell’8 giugno 1984 n. 170, possa trasferirsi alla sfera dei rapporti tra legge statale e Convenzione europea. Come la Corte costituzionale ha sottolineato nelle sentenze del 24 ottobre 2007, il primato del diritto comunitario, dal quale discende la disapplicazione del diritto interno confliggente, si fonda sulla limitazione di sovranità, consentita dall’art. 11 Cost. (ed effettuata, in conformità di tale disposizione, dal legislatore ordinario) a favore di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni. A seguito di tale limitazione (o, meglio, trasferimento parziale) di sovranità il nostro ordinamento si ritrae per consentire che le norme comunitarie direttamente applicabili possano spiegare la loro piena efficacia, con la pratica conseguenza della disapplicazione (o “non applicazione”) delle leggi statali confliggenti.


Varie ragioni inducono ad escludere che l’art. 11 Cost. possa applicarsi alla Convenzione europea. Anzitutto il trasferimento di sovranità appare fenomeno più consono ad una organizzazione che, mediante le sue istituzioni, i suoi atti, i suoi procedimenti, sia idonea ad esercitare i poteri sovrani in questione, come accade per la Comunità europea attraverso atti normativi quali i regolamenti. Inoltre non sembra ammissibile una limitazione di sovranità in una materia così sensibile come quella dei diritti umani, costituenti un patrimonio irrinunciabile del nostro ordinamento giuridico [19]. L’inammissibilità di una siffatta limitazione di sovranità è confermata dall’osservazione che, anche nei confronti del diritto comunitario, i diritti fondamentali non operano ai fini di limitazioni di sovranità, ma quali “controlimiti” all’applicabilità e al primato delle disposizioni comunitarie, le quali non possono in alcun caso pregiudicare tali diritti.


In alcune sentenze, peraltro, la disapplicazione di norme interne in contrasto con disposizioni della Convenzione europea è motivata non in base ad una generica superiorità della stessa, ma, in maniera più puntuale, per una sua appartenenza allo stesso diritto comunitario. Essa, infatti, sarebbe stata ormai recepita nei principi generali del diritto comunitario e, pertanto, si gioverebbe del supporto costituzionale fornito dall’art. 11, con tutte le conseguenze proprie di tale fondamento e, in particolare, con la disapplicazione ad opera del giudice comune delle leggi nazionali confliggenti con disposizioni (purché self-executing) della Convenzione europea [20].


Formulata in questi termini generali tale giurisprudenza non sembra accoglibile. È bensì vero che i diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono entrati a fare parte dei principi generali del diritto comunitario, grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia, e che tale appartenenza risulta oggi dall’art. 6, par. 2, del Trattato UE. Tuttavia la stessa Corte di Lussemburgo ha costantemente ribadito che i diritti fondamentali (contemplati, in particolare, dalla Convenzione europea) non estendono l’ambito materiale del diritto comunitario, ma ne fanno parte solo nella misura in cui riguardino materie che già, di per sé, rientrino nella competenza di tale diritto. In altri termini, essi vincolano sia le istituzioni europee che gli Stati membri (quali parametri per valutare, rispettivamente, la legittimità degli atti comunitari e il rispetto degli obblighi comunitari da parte di tali Stati), ma solo quando entrino in giuoco in materie che rientrino nel Trattato CE. Al di fuori di tali materie i diritti fondamentali restano estranei al diritto comunitario e, pertanto, non godono del “primato” proprio di quest’ultimo. Come la nostra Corte di cassazione ha avuto modo di sottolineare, non può ritenersi “che si sia determinata un’interposizione del diritto comunitario al rispetto, da parte degli Stati membri della Comunità, della Convenzione firmata a Roma il 4.11.1950” [21].
Se la tesi ricordata non può accogliersi in termini generali, essa, peraltro, risulta applicabile nella misura in cui un conflitto tra una legge italiana e i diritti riconosciuti nella Convenzione europea si determini in una materia rientrante nel diritto comunitario. Si pensi, per ipotesi, a una legge che vieti l’ingresso in Italia di cittadini dell’Unione europea per ragioni di religione, o di opinione politica. Essa, da un lato, sarebbe in contrasto con disposizioni della Convenzione europea (quali gli articoli 9 e 10); dall’altro, riguarderebbe una materia, la libera circolazione delle persone, di sicura competenza comunitaria. Una legge siffatta si porrebbe in contrasto anche con il diritto comunitario e, pertanto, non dovrebbe essere sottoposta al vaglio di costituzionalità della Corte costituzionale ex art. 117, 1° comma, ma dovrebbe essere direttamente disapplicata dal giudice comune, in forza della limitazione di sovranità a favore dell’ordinamento comunitario effettuata ai sensi dell’art. 11 Cost.


7. Il ruolo della Convenzione europea nell’ordinamento italiano non può valutarsi solo con riferimento alle disposizioni della stessa, ma occorre tenere conto anche del “diritto vivente”, quale risulta dalla giurisprudenza della Corte europea, come da quella interna.


La necessità di prendere in considerazione la Convenzione europea quale interpretata dalla sua Corte, necessità che costituisce un punto essenziale nell’impostazione delle sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007, si giustifica particolarmente nella materia in esame. Anzitutto va tenuto presente che la Convenzione europea si qualifica non solo, e non tanto, per i catalogo dei diritti contemplati, quanto per il sistema di tutela giudiziaria da essa istituito, che risulta come il più avanzato e garantista a livello internazionale [22]. In tale sistema un ruolo determinante è assegnato (sia pure in via sussidiaria rispetto ai giudici nazionali, come emerge anche dall’art. 13) alla Corte europea dei diritti dell’uomo, istituita “per assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi protocolli” (art. 19), “la cui competenza (…) si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa” con ricorsi statali o individuali (nonché in via consultiva) (art. 32) e le cui sentenze definitive hanno forza vincolante per gli Stati nelle controversie delle quali siano parti e devono essere eseguite sotto la sorveglianza del Comitato dei ministri (art. 46). È naturale, quindi, che la giurisprudenza della Corte europea, anche a prescindere dagli effetti (limitati alle parti) propri del giudicato, non possa non avere un ruolo essenziale nel chiarimento e nella evoluzione del contenuto dei diritti contemplati dalla Convenzione.


D’altra parte, tenuto conto della funzione sussidiaria della Corte europea rispetto alla tutela giudiziaria statale [23], la giurisprudenza europea viene inevitabilmente a rapportarsi con quella dei giudici nazionali, sicché – come è stato giustamente osservato [24]– oggi il rapporto tra l’ordinamento italiano e la Convenzione europea non è solo un rapporto tra fonti, ma anche tra giudici.


Il ruolo della giurisprudenza appare particolarmente rilevante in considerazione del carattere proprio dei diritti umani: questi ultimi, lungi dall’essere definiti in termini statici e immutabili, rappresentano una categoria di natura essenzialmente storica [25], la quale si sviluppa, si arricchisce, si modifica (anche nei rapporti reciproci tra i diversi diritti) in corrispondenza all’evoluzione sociale, politica, economica, morale, culturale di una collettività. È evidente, pertanto, che nella definizione e nello sviluppo di un diritto per sua natura “vivente”, qual è la materia dei diritti umani, una funzione di primo piano è destinato a svolgere il “diritto vivente” prodotto dalla giurisprudenza.


La consapevolezza del ruolo essenziale della giurisprudenza induce, pertanto, a spostare ora l’attenzione dal tema relativo al rango della Convenzione europea nell’ordinamento italiano a quello concernente il valore della Convenzione europea (e della giurisprudenza della sua Corte) dinanzi ai giudici nazionali e quindi, in primo luogo, sul piano interpretativo.


8. Su tale piano è possibile, forse in larga misura, prevenire la stessa nascita di antinomie tra la Convenzione europea e il diritto italiano o, quantomeno, risolvere tali antinomie senza necessità – di regola – di sollevare una questione di costituzionalità. Nelle sentenze del 24 ottobre 2007, infatti, il rinvio alla Corte costituzionale appare chiaramente come una extrema ratio, da impiegare solo qualora il contrasto tra disposizioni della legge italiana e norme della Convenzione europea non possa risolversi attraverso un’interpretazione delle prime effettuata in conformità con le seconde.


Invero, è pressoché unanime l’orientamento teso ad affermare che il diritto interno deve essere interpretato in maniera conforme agli obblighi internazionali pattizi, in particolare al dettato della Convenzione europea. Come si è già ricordato [26], secondo un autorevole studioso [27]l’ordine di esecuzione esprime la volontà normativa non solo di sottoporre certi rapporti alla disciplina contenuta nella convenzione alla quale si riferisce, ma anche che gli impegni assunti verso altri Stati siano rispettati; una legge successiva potrebbe prevalere, pertanto, solo se riveli la volontà di ripudiare gli impegni internazionali già assunti, non anche se abbia semplicemente un contenuto incompatibile con la convenzione. Nella giurisprudenza della Cassazione, già negli anni ‘70, è stata enunciata una presunzione di conformità dell’ordinamento interno agli obblighi internazionali [28], in virtù della quale si deve presumere che lo Stato “non abbia inteso sottrarsi all’obbligo internazionale cui trovasi vincolato, incorrendo nella relativa responsabilità per inadempimento nei confronti degli altri Stati” parti del trattato [29]. Tale presunzione va riferita, più precisamente, al legislatore e si fonda su una coerenza (anch’essa, sino a prova contraria, da presumere) dello stesso; se, cioè, il legislatore ha dato esecuzione, con una propria legge, ad un accordo, non può non presumersi – salvo una evidente volontà contraria – che egli voglia restare fedele all’impegno internazionale da lui stesso attuato nell’ordinamento interno. Oggi questa presunzione di conformità agli obblighi internazionali è rafforzata da una corrispondente presunzione di conformità alla Costituzione, in particolare al più volte citato art. 117, 1° comma, che gli impone di rispettare gli obblighi internazionali.


L’obbligo di interpretazione conforme della legge interna rispetto alla Convenzione europea comporta la conseguenza che, qualora (come il più delle volte accade) la legge interna si presti a differenti interpretazioni, debba imporsi quella che risulti più coerente con il rispetto della Convenzione, anche a costo di qualche forzatura della lettera della norma interna. Può dirsi, in altri termini, che l’interpretazione conforme deve tendere ad assicurare la corretta applicazione della Convenzione europea, adattando al suo contenuto le norme interne, “piegandole” in modo da conciliarle con la Convenzione, beninteso, sino a che ciò sia possibile, cioè sino al punto in cui tali norme non rivelino una chiara volontà del legislatore di contraddire le disposizioni della Convenzione o in cui, comunque, sussista una irriducibile incompatibilità nei contenuti delle norme, rispettivamente, nazionali e della Convenzione europea.


Nella giurisprudenza, anche quando si afferma (ancor prima della riforma costituzionale del 2001) una particolare forza della Convenzione nell’ordinamento italiano, il più delle volte, la prevalenza della stessa viene realizzata, in definitiva, sul terreno interpretativo. Così, per esempio, la Corte di cassazione penale, nella citata sentenza del 10 luglio 1993 (ricorrente Medrano), ha dichiarato che “la particolare forza di resistenza della regola di origine convenzionale comporta che la disposizione della legge (…) deve essere interpretata nel senso che l’applicazione pratica di quest’ultima non può risolversi immotivatamente nella violazione del principio sancito nella norma convenzionale”. E anche la citata sentenza della Corte costituzionale del 19 gennaio 1993 n. 10, la quale – come si è ricordato[30] – riconduce ad una competenza atipica le norme della Convenzione europea e ne dichiara l’insuscettibilità di abrogazione ad opera di leggi ordinarie, in realtà conclude per un’interpretazione della disposizione interna (nella specie l’art. 143, 1° comma, c.p.p., sul diritto ad un interprete) conforme alle disposizioni convenzionali.


Sul terreno interpretativo ci sembra che debba collocarsi anche la giurisprudenza costituzionale che, in passato, ha utilizzato gli atti internazionali sui diritti umani nel contesto dell’art. 2 Cost., il quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Ci riferiamo, in particolare, alla sentenza del 22 ottobre 1999 n. 388, la quale afferma che “i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione (…): non solo per il valore da attribuire al generale riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo fatto dall’art. 2 Cost. (…), ma anche perché, al di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”. Alla luce di tale sentenza è dubbio che possa rinvenirsi un rinvio esplicito dell’art. 2 Cost. alle convenzioni sui diritti umani, sicché non può prospettarsi propriamente una loro “costituzionalizzazione” [31]; esse operano, tuttavia, come strumenti di ricognizione dei diritti umani, in un’ottica storica ed evolutiva degli stessi, che si riflette essenzialmente (come espressamente dichiara la sentenza in esame) nell’interpretazione dell’ordinamento interno, in particolare delle sue disposizioni costituzionali sui diritti umani.


La stessa Convenzione europea, come si è accennato, non può applicarsi solo come un complesso di norme scritte, ma anche – e principalmente – quale diritto vivente, cioè come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale spetta l’ultima parola sull’interpretazione della Convenzione . Come risulta dalla giurisprudenza costituzionale, ed è vigorosamente ribadito nelle sentenze del 24 ottobre 2007, la Corte costituzionale suole riferirsi costantemente alla giurisprudenza della Corte europea, a riprova che essa intende il significato della Convenzione europea per come essa è interpretata dalla Corte di Strasburgo . La giurisprudenza di quest’ultima (al di là degli effetti di giudicato) esprime una “autorité de chose interprétée[34] , nel senso che l’interpretazione della Corte tende a consolidarsi e ad imporre il significato delle disposizioni della Convenzione da essa risultante.


Di conseguenza il dovere di interpretazione conforme del giudice nazionale si estende, dal testo della Convenzione, alla giurisprudenza della Corte europea; e per altro verso – come si è ricordato [35]– il controllo di compatibilità della Convenzione europea con la Costituzione, alla quale è subordinata l’idoneità della stessa a fungere quale parametro di costituzionalità della legge italiana, si sposta dal testo della Convenzione alla giurisprudenza della Corte europea, dalle norme scritte al diritto vivente.


9. Un problema diverso, rispetto all’efficacia sul piano interpretativo della giurisprudenza europea per il giudice nazionale, si pone quando una sentenza della Corte sia invocata nel suo valore di giudicato al fine di ottenerne l’esecuzione in un processo interno. Ci riferiamo, per fare esempi reali, alla richiesta di restituzione in termini per appellare una sentenza, passata in giudicato, resa in un processo in contumacia giudicato dalla Corte europea come comportante una violazione dell’art. 6 della Convenzione; o alla richiesta di dichiarare l’inefficacia (o l’ineseguibilità) di una sentenza, passata in giudicato, a una pena detentiva decretata a seguito di un processo, anch’esso giudicato dalla Corte europea come contrario al diritto all’equo processo di cui al predetto art. 6.


Nei due casi considerati la Corte di cassazione penale, con sentenza del 3 ottobre 2006 n. 32678 (ricorrente Somogy) [36]e con sentenza del 25 gennaio 2007 n. 2800 (relativa al caso Dorigo)[37] , ha affermato che il giudice italiano deve conformarsi alla pronuncia della Corte europea che abbia accertato la violazione di un diritto umano (nella specie all’equo processo), anche se ciò comporti il superamento o la “neutralizzazione” della sentenza statale passata in giudicato. Di conseguenza, nel primo caso, il ricorrente andava rimesso in termini per appellare la sentenza; nel secondo, pur non essendo possibile una restituito in integrum nella forma della revisione del processo (in quanto non contemplata, nella specie, dalla legge italiana), il giudice dell’esecuzione doveva dichiarare l’ineseguibilità della sentenza di condanna e l’inefficacia dell’ordine di esecuzione. La posizione assunta dalla Cassazione penale in tali sentenze si fonda su due argomenti essenziali: da un lato, la natura sovraordinata della Convenzione europea e la conseguente disapplicazione del diritto interno incompatibile con la stessa; dall’altro, l’obbligo dello Stato di eseguire le sentenze della Corte rese nei suoi confronti, obbligo in virtù del quale anche il giudice italiano è tenuto a conformarsi a tali sentenze.


Sul primo argomento abbiamo già rilevato che l’incompatibilità della legge interna con la Convenzione europea (come interpretata dalla sua Corte), se non è risolvibile in via interpretativa, non consente la sua disapplicazione da parte del giudice comune, ma implica che quest’ultimo sottoponga alla Corte costituzionale la relativa questione ai sensi dell’art. 117, 1° comma [38]. Riguardo al secondo argomento va osservato, anzitutto, che, a seguito di una recente evoluzione della giurisprudenza della Corte europea, così come delle prese di posizione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (che, in base all’art. 46, par. 2, sorveglia l’esecuzione delle sentenze), l’originario margine di discrezionalità di cui godeva lo Stato nella scelta dei mezzi di esecuzione della sentenza si è progressivamente ridotto. Sia il Comitato dei ministri che la Corte europea affermano che lo Stato è tenuto ad adottare misure di carattere individuale (o specifico) e generale per l’esecuzione della sentenza; le prime tendono a ripristinare la situazione di fatto e giuridica preesistente alla violazione, essendo la restituito in integrum la maniera più idonea a garantire l’esecuzione della sentenza; nel caso di violazione del diritto all’equo processo di cui all’art. 6 la revisione della sentenza di condanna appare la misura individuale esemplare di restituito in integrum. Le misure generali sono volte, invece, a prevenire ulteriori violazioni, quelle strutturali o sistemiche, derivanti, in maniera pressoché inevitabile, dalla legislazione dello Stato, risultante dalla sentenza della Corte europea di per sé in contraddizione con disposizioni della Convenzione [39].


Ora, non vi è dubbio che le misure generali abbiano, in principio, contenuto normativo e debbano essere adottate, pertanto, dal legislatore. Per esempio, appariva diretto a dare esecuzione alla sentenza della Corte europea del 9 settembre 1998 nell’affare Dorigo c. Italia, che aveva accertato la violazione dell’art. 6 della Convenzione nel processo sulla base del quale il ricorrente era stato condannato, il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 3 agosto 2007: esso, infatti, prevedeva l’inserimento nel codice di procedura penale, al libro IX, di un titolo IV-bis, diretto a consentire la revisione delle sentenze di condanna a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che avesse accertato la violazione del diritto all’equo processo. Nel caso, deprecabile, ma alquanto realistico, di inerzia del legislatore, il giudice non può “creare” la norma (o modificare quelle esistenti); egli deve sottoporre alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità della legge vigente in quanto, essendo incompatibile con l’obbligo di esecuzione delle sentenze della Corte europea prescritto dall’art. 46 della Convenzione, viola gli obblighi internazionali e, di conseguenza, l’art. 117, 1° comma. È quanto ha fatto, sia pure seguendo un diverso ragionamento, la Corte d’appello di Bologna con la citata ordinanza del 21 marzo 2006, nella quale, con riferimento al caso Dorigo, ha chiesto, sostanzialmente, alla Corte costituzionale una sentenza additiva rispetto all’art. 630 c.p.p., che ricomprenda tra le ipotesi di revisione il caso di inconciliabilità dei fatti stabiliti a fondamento della condanna con la sentenza della Corte europea che abbia accertato l’assenza di equità del processo ai sensi dell’art. 6 della Convenzione.


C’è da chiedersi, peraltro, se il giudice (pur in assenza di adeguati interventi legislativi) possa adottare misure individuali di esecuzione, volte a determinare una restituito in integrum, come ha fatto la Corte di cassazione nelle sentenze testé ricordate, mediante la restituzione nei termini d’impugnazione, o la dichiarazione di ineseguibilità della sentenza di condanna. In linea di principio, non vi è alcun ostacolo a che il giudice provveda all’esecuzione della sentenza della Corte europea; anzi, è da ritenere che anche sul giudice, quale organo dello Stato, incomba il dovere, ai sensi dell’art. 46 della Convenzione europea, di dare esecuzione alle sentenze della Corte europea. È da ritenere, per esempio, che se il giudice, mediante un’interpretazione del proprio ordinamento effettuata in conformità con la sentenza europea, riesca a individuare un provvedimento che garantisca l’esecuzione di quest’ultima, egli debba adottarlo. Tuttavia, l’opera del giudice non può spingersi sino al punto di disporre misure contrarie alla legge italiana: ciò si risolverebbe, infatti, in una disapplicazione della legge, che – per quanto si è osservato – non è consentita al giudice comune.


Tale limite, consistente in definitiva nella subordinazione del giudice alla legge, riguarda invero anche il rispetto del giudicato, il quale si fonda sulla legge. È quindi difficile, sotto questo aspetto, ammettere il potere del giudice di “neutralizzare” – come nelle citate sentenze della Cassazione penale – tale giudicato. Ma deve riconoscersi che è difficile anche accettare l’idea che resti in carcere un condannato in base a un processo che la Corte europea abbia giudicato non equo. Da questo punto di vista è ben comprensibile lo sforzo del giudice, teso a svolgere un ruolo di supplenza e di stimolo rispetto ad un legislatore non sempre attento e adempiente rispetto all’obbligo di eseguire le sentenze della Corte europea. E – deve aggiungersi – non è neppure da escludere, come suggerisce il Procuratore generale presso la Corte di cassazione nel caso Dorigo, che la stessa disciplina del giudicato possa “piegarsi” ad un’interpretazione conforme alla Convenzione europea, poiché, a seguito della dichiarazione della violazione dell’art. 6 della stessa, “il titolo di condanna in effetti non è ancora divenuto definitivo, stante la necessità della rinnovazione del giudizio, con la conseguenza che l’esecuzione della pena residua ancora da scontare in ragione di detenzione domiciliare non poteva essere proseguita, ma doveva farsi cessare”; con la precisazione che “l’art. 5 par. 4 della Convenzione riconosce il diritto a chi ha riportato condanna in un procedimento giudiziario ritenuto non equo dalla Corte di giustizia europea di presentare ricorso al giudice nazionale affinché accerti la legalità della detenzione e, se riconosciuta illegittima, ne ordini la liberazione” e che “tale rimedio esiste nel nostro ordinamento e si identifica nella richiesta di incidente, che dà impulso alla procedura ex art. 670 cod. proc. pen.”. In altri termini, la definitività della sentenza interna andrebbe “interpretata” in maniera conforme all’art. 6 della Convenzione (se non all’obbligo di dare esecuzione alla sentenza della Corte europea).


Quale che sia l’esatta portata della giurisprudenza in parola della Cassazione penale, essa, come si è detto, mette in luce una carenza del legislatore, al quale spetterebbe disciplinare, in maniera organica, i modi e le procedure per adeguare l’ordinamento interno agli obblighi conseguenti alle sentenze della Corte europea. È noto, peraltro, che un intervento di carattere generale è stato effettuato con la legge 9 gennaio 2006 n. 12, contenente disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo [40]. Essa, modificando la legge 23 agosto 1988 n. 400 (“Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri”), stabilisce che il Presidente del Consiglio, direttamente o mediante delega a un ministro, “promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano; comunica tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce”. Tale intervento legislativo, per quanto apprezzabile, appare eccessivamente cauto e non adeguato ad assicurare l’adozione di misure legislative che, dando esecuzione alle sentenze della Corte europea, risolvano le cause “strutturali” delle violazioni. A tal fine sarebbe forse opportuno un meccanismo che, ispirandosi allo strumento della legge comunitaria (prevista annualmente per l’adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dell’appartenenza all’Unione europea [41]), attribuisse al Governo il compito di predisporre un disegno di legge da presentare al Parlamento secondo una certa periodicità (o, in alternativa, ogni qualvolta fosse emanata una sentenza contro il nostro Paese), in modo da garantire lo stato di conformità dell’ordinamento italiano alle pronunce rese dalla Corte europea verso l’Italia. Un meccanismo legislativo “a regime” rappresenterebbe la via più idonea per un corretto adeguamento agli obblighi derivanti dalla Convenzione europea e quindi, in definitiva, anche al precetto dell’art. 117, 1° comma, Cost. Esso, inoltre, gioverebbe alla certezza del diritto e ricondurrebbe a un rapporto corretto ed equilibrato il ruolo del legislatore rispetto a quello del giudice comune, non più costretto a “forzare” (oltre il limite dell’interpretazione conforme) la legge interna, sino al punto di disapplicarla, e a quello della Corte costituzionale, limitato alle ipotesi, di carattere eccezionale, di una legge interna che non dia corretta esecuzione alla sentenza europea o, al contrario, di una sentenza siffatta che (per quanto, eventualmente, eseguita dal legislatore) appaia in contrasto con disposizioni della Costituzione.


Prof. Avv. Ugo Villani


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Note


*Il presente scritto è destinato anche agli Scritti in onore di Umberto Leanza, di prossima pubblicazione.




  1. Per dei primi commenti a tali sentenze cfr. M. CASTELLANETA, Certo il primato dei principi costituzionali, in Guida al Diritto, 2007, n. 44, p. 59 ss.; O. FORLENZA, Solo l’introduzione di criteri flessibili garantisce equità nei risarcimenti, ivi, p. 54 ss.; F. DONATI, La CEDU nel sistema italiano delle fonti del diritto alla luce delle sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007, in Dir. U., 2007, n. 3, p. 14; F. GULLOTTA, I nuovi ristori espropriativi, ivi, p. 19 ss.; A. SACCUCCI, Rango e applicazione della CEDU nell’ordinamento interno secondo le sentenze della Corte costituzionale sull’art. 117, comma 1, Cost: un passo avanti, due indietro?, ivi, p. 26 ss.; U. VILLANI, I rapporti tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Costituzione nelle sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007, ivi, p. 46 ss.; C. ZANGHÌ, La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione: le sentenze del 24 ottobre 2007, ivi, p. 50 ss. L’orientamento delle predette sentenze è stato confermato dalla sentenza della Corte costituzionale del 27 febbraio 2008 n. 39.


  2. Su questa tematica cfr. F. RASPADORI, I trattati internazionali sui diritti umani e il giudice italiano, Milano, 2000; B. NASCIMBENE (a cura di), La CEDU. Profili ed effetti nell’ordinamento italiano, Milano, 2002.


  3. Nella giurisprudenza italiana si veda, in particolare, Cass. pen., sezioni unite, 8 maggio 1989, ricorrente Polo Castro, in RIDU, 1990, p. 419 ss.


  4. Requête n. 36813/97.


  5. Cfr. la sentenza del 15 luglio 1992 n. 329.


  6. In proposito cfr., di recente, D. TEGA, La Cedu e l’ordinamento italiano, in M. CARTABIA (a cura di), I diritti in azione. Universalismo e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, 2007, p. 67 ss., in specie p. 71 ss., alla quale si rinvia per ulteriori riferimenti. Per la ricostruzione dell’art. 2 Cost. quale norma “aperta”, che darebbe un riconoscimento costituzionale anche a diritti non specificamente contemplati dalla Costituzione, va ricordata la nota tesi di A. BARBERA, Art. 2, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, p. 80 ss.; per un esame critico di tale tesi e per ulteriori riferimenti, cfr. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale. Introduzione allo studio dei diritti costituzionali, Padova, 2003, III ed., p. 20 ss.


  7. In dottrina cfr., per tutti, B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2006, VII ed., p. 285; per la giurisprudenza costituzionale si veda Corte cost., 22 marzo 2001 n. 73.


  8. B. CONFORTI, op. cit., p. 294 ss.


  9. Tale sentenza era stata seguita da varie altre pronunce della Corte costituzionale, richiamate e confermate, più di recente, da Corte cost., 23 novembre 2006 n. 393.


  10. Cfr. E. CANNIZZARO, La riforma “federalista” della Costituzione e gli obblighi internazionali, in RDI, 2001, p. 921 ss.


  11. Cfr. G. ZICCARDI CAPALDO, Verso una regolamentazione del rapporto tra ordinamento italiano e trattati internazionali. Contenuti di una riforma possibile dopo le modifiche al Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in G. ZICCARDI CAPALDO (a cura di), Attuazione dei trattati internazionali e Costituzione italiana. Una riforma prioritaria nell’era della comunità globale, Napoli, 2003, p. 17 ss., in specie p. 37 ss.


  12. Cfr. B. CONFORTI, op. cit., p. 292; N. RONZITTI, Introduzione al diritto internazionale, Torino, 2007, II ed., p. 246.


  13. Cfr., anche per ulteriori riferimenti, S. SANTOLI, La disapplicazione di leggi ordinarie in contrasto con la CEDU in Italia e in Francia, in Giur. Cost., 2002, p. 2227 ss., in specie p. 2233.


  14. Cfr. P. IVALDI, L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale, in S. M. CARBONE, R. LUZZATTO, A. SANTA MARIA (a cura di), Istituzioni di diritto internazionale, Torino, 2006, III ed., p. 125 ss., in specie p. 131. A tale conclusione perviene anche A. PACE, op. cit., p. 28 s., il quale rileva che l’art. 117, 1° comma, prevede “una norma di produzione giuridica, che pertanto effettuerebbe un rinvio materiale (o ricettizio) a tutti gli obblighi internazionali, ancorché previgenti”.


  15. In proposito ci permettiamo di rinviare al nostro scritto su L’occupazione acquisitiva dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 2006, p. 23 ss.


  16. Oltre alla citata sentenza, risulta interessante, in quanto anch’essa successiva alle sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007, Cass., 3 gennaio 2008 n. 14.


  17. Cfr. Corte cost., 18 giugno 1979 n. 48 e 22 marzo 2001 n. 73.


  18. Cfr. Cass., 19 luglio 2002 n. 10542 e 23 dicembre 2005 n. 28507; Cass. pen., 25 gennaio 2007 n. 2800.


  19. In questo senso cfr. specialmente la citata sentenza n. 349 della Corte costituzionale.


  20. Cfr. Cass. pen., 10 luglio 1993 (ric. Medrano), in RDI, 1994, p. 531 ss.; più di recente App. Roma, 11 aprile 2002, in Dir. U., 2001, n. 2-3, p. 187 s.


  21. Cass., 19 luglio 2002 n. 10542.


  22. Tale sistema, com’è noto, è stato significativamente perfezionato con il Protocollo n. 11, entrato in vigore il 1° novembre 1998. Su tale Protocollo vedi, per tutti, U. LEANZA, Il Protocollo n. 11 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: nuove prospettive per la tutela internazionale dei diritti dell’uomo, in Studi in onore di Giovanni Maria Ubertazzi, Milano,1999, p. 357 ss.


  23. Tale funzione sussidiaria è confermata dalla condizione di ricevibilità dei ricorsi consistente nel previo esaurimento dei ricorsi interni (art. 35, par. 1); in materia cfr., per tutti, R. PISILLO MAZZESCHI, Esaurimento dei ricorsi interni e diritti umani, Torino, 2004.


  24. M. CARTABIA, La CEDU e l’ordinamento italiano: rapporti tra fonti, rapporti tra giurisdizioni, in R. BIN, G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), All’incrocio tra Costituzione e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, Torino, 2007, p. 1 ss., in specie p. 10 s.


  25. Basti ricordare, in proposito, i classici studi contenuti nel volume di N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990.


  26. Sopra, par. 2.


  27. B. CONFORTI, op. cit., p. 254 s.


  28. Si vedano le sentenze richiamate da T. TREVES, Diritto internazionale. Problemi fondamentali, Milano, 2005, p. 694 s.


  29. In questo senso Cass., 8 giugno 1972 n. 1773.


  30. Sopra, par. 2.


  31. In senso diverso cfr. M. CARTABIA, op. cit., p. 15.


  32. In questo senso Corte cost., 24 ottobre 2007 n. 349.


  33. Cfr., anche per riferimenti, D. TEGA, op. cit., p. 78.


  34. Cfr. E. LAMBERT, Les effets des arrêts de la Cour européenne des droits de l’homme, Bruxelles, 1999, p. 176 ss.; sul punto cfr. le osservazioni di M. CARTABIA, op. cit., p. 18 s.


  35. Sopra, par. 4.


  36. In RDI, 2006, p. 1197 ss.


  37. In RDI, 2007, p. 601 ss.; cfr., inoltre, Trib. Roma, 9 novembre 2006, in Cass. pen., 2007, p. 268 ss.


  38. Sopra, par. 6.


  39. Sui più recenti sviluppi relativi all’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo cfr. La Convenzione europea dei diritti umani e l’esecuzione delle sue sentenze, Napoli, 2003; P. PIRRONE, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2004; L. CAFLISCH, New Practice Regarding the Implementation of the Judgments of the Strasbourg Court, in IYIL, 2005, p. 3 ss.; P. DE STEFANI, L’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo dei diritti umani: panorama europeo e sviluppi recenti nella giurisprudenza italiana, in Pace diritti umani, 2006, n. 3, p. 51 ss.; P. PUSTORINO, Esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani e revisione dei processi penali: sviluppi nella giurisprudenza italiana, in DUDI, 2007, p. 678 ss.; A. TAMIETTI, Un ulteriore passo verso una piena esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di equo processo: il giudicato nazionale non è di ostacolo alla riapertura del processo, in Cass. pen., 2007, p. 1015 ss.; C. ZANGHÌ, Evoluzione e innovazione nelle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 2008, p. ???.


  40. In GURI n. 15 del 19 gennaio 2006; norme per l’esecuzione di tale legge sono state adottate con Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 1° febbraio 2007, in GURI n. 8 del 10 aprile 2007. Non mancano, poi, interventi legislativi volti a dare esecuzione a sentenze della Corte europea in specifiche materie, come il decreto legge 21 febbraio 2005 n. 17, recante disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna, convertito in legge 22 aprile 2005 n. 60 (in GURI n. 94 del 23 aprile 2005).


  41. Il procedimento di adozione di tale legge comunitaria e i suoi contenuti sono regolati attualmente dalla legge 4 febbraio 2005 n. 11, in GURI n. 37 del 15 febbraio 2005.