Giudici nazionali e Corti d’Europa
nella prospettiva dell’adesione dell’Unione Europea alla CEDU
di ANTON GIULIO LANA

La tutela dei diritti fondamentali in Europa vede, come noto, il coinvolgimento di varie istanze giurisdizionali, nazionali e sovranazionali. Accanto ai giudici comuni, sono impegnate in questa delicata e irrinunciabile funzione, da un lato, la Corte europea dei diritti dell’uomo e, d’altro lato, ormai da molti anni ed in maniera crescente, la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea.


L’interazione tra i sistemi nazionali, comunitario e convenzionale di protezione dei diritti pone una considerevole serie di problemi, che sono stati e sono tuttora oggetto di una messe pressoché incommensurabile di studi. In questa sede, si intende concentrare la nostra attenzione su un aspetto ben preciso della questione generale dell’integrazione tra gli evocati sistemi di tutela, un aspetto da sempre presente nella dinamica dei rapporti tra giurisdizioni nazionali e sovranazionali e che ha trovato, da ultimo, apparente soluzione con l’entrata in vigore, il 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona: si tratta, in una parola, del problema dell’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle conseguenze che detta adesione avrà o potrebbe avere sul piano dei rapporti tra giudici nazionali e sovranazionali.


Prima di tutto, il dato normativo: il novellato art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (corrispondente all’ex articolo 6 del TUE) stabilisce oggi, al suo primo comma, che «l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati», precisando poi che le «disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni».


Il comma secondo prevede che «l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», precisando che «tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati».


Il terzo e ultimo comma, infine, ribadisce il consolidato principio, già espresso dalla Corte di giustizia nella sua giurisprudenza e recepito formalmente dal Trattato di Maastricht nel 1992, che i «diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».


Due, quindi, le novità essenziali in tema di tutela dei diritti.


La prima consiste nell’acquisizione da parte della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di valore giuridico vincolante. Essa ha, infatti, lo «stesso valore giuridico dei Trattati», e come tale dovrà essere applicata da tutti i giudici nazionali. La vexata quaestio intorno al carattere obbligatorio o meno della Carta proclamata a Nizza nel 2000, al suo mero valore politico ed alla sua funzione di semplice ausilio interpretativo appare oggi risolta definitivamente e senza ambiguità nel senso della sua piena efficacia come fonte normativa vincolante per le istituzioni comunitarie e quelle nazionali che agiscono nel quadro del diritto comunitario, ivi compresi – dunque – i giudici. Se un’ambiguità permane, essa riguarda piuttosto la seconda parte della norma, laddove si ribadisce che le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati: pur essendo cristallino nella sua formulazione teorica, tale principio potrebbe dare adito a problemi interpretativi di non poco conto, potendo in teoria le istituzioni comunitarie fondarsi sulle esigenze di tutela sancite nella Carta per spingere le proprie competenze normative oltre il rigido muro di separazione di competenze tra Unione e Stati membri sintetizzato dal principio di attribuzione sancito dall’art. 7 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.


La seconda novità consiste, appunto, nel prefigurare l’adesione dell’Unione alla CEDU. Su questo punto è, tuttavia, necessaria una precisazione.


Nel 1996 la Corte di giustizia aveva emesso un parere (parere 2/94) con cui aveva sostanzialmente negato la possibilità per la Comunità Europea di accedere alla CEDU, in ragione del difetto di un apposito fondamento normativo che consentisse tale accesso. Mancava, cioè, la previsione a livello di Trattati di una competenza in tal senso. La mancanza di una formale adesione alla Convenzione europea, peraltro, non impediva, e di fatto non ha impedito, alla Corte di giustizia di (continuare a) utilizzare il testo della CEDU quale principale fonte ispiratrice (insieme alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri) per la sua attività di garanzia dei diritti fondamentali nel quadro del ordinamento comunitario. I diritti stabiliti dalla Convenzione entravano, però, a far parte del diritto comunitario nella veste di «principi generali» dell’ordinamento comunitario medesimo, e dunque venivano proiettati in tale ordinamento attraverso il «filtro» della Corte di giustizia.


Che cosa, dunque, è cambiato con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona?


Ciò che è certo è che esso ha fornito all’Unione Europea la base normativa necessaria per procedere all’adesione: l’art. 6, comma 2 consente oggi all’Unione di divenire parte della Convenzione, superando con ciò l’ostacolo evidenziato dalla Corte nel 1996. La novità è senz’altro rilevante, ma l’entusiasmo deve forse essere contenuto dalla constatazione che affinché l’adesione sia perfezionata dovrà intervenire un formale atto di adesione. Fino ad allora nulla cambierà sul piano dei rapporti formali tra le fonti e, di conseguenza, tra le giurisdizioni.


Proviamo quindi ad immaginare quali conseguenze potrebbe avere l’adesione formale dell’Unione Europea alla Convenzione sul piano dei rapporti tra giudici, analizzando separatamente, per quanto possibile, la prospettiva dei giudici nazionali, della Corte di giustizia e della Corte di Strasburgo.


Per quanto riguarda i primi, ed in particolare i giudici italiani, non si può non partire da un sintetico richiamo dell’assetto attuale dei rapporti tra fonti e tra giurisdizioni, oggi piuttosto chiaramente definito dalla giurisprudenza costituzionale.


Quanto al rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie – e, conseguentemente, tra giudici nazionali e Corte di giustizia – si ricorderà come il contrasto tra norme comunitarie direttamente applicabili e norme interne deve essere risolto da tutti gli operatori giuridici, ed in primis dai giudici comuni, facendo prevalere le prime attraverso la non applicazione delle seconde (ferma restando la necessità di procedere poi all’abrogazione in via legislativa della norma interna a fini di chiarezza e di certezza).


A questa modalità, che alcuni hanno definito «generale» o «ordinaria», di prevalenza del diritto comunitario, se ne aggiungono altre – definite dalla medesima dottrina «speciali» o «straordinarie» – in cui la Corte ha affermato la propria competenza. La prima di tali ipotesi è quella in cui la norma nazionale risulti in potenziale contrasto con norme comunitarie non direttamente applicabili: in questo caso il giudice italiano, anziché procedere autonomamente alla disapplicazione (o, se si preferisce, non-applicazione) del diritto interno a vantaggio di quello comunitario, dovrebbe sollevare una questione di legittimità costituzionale di fronte alla Consulta. [Questo, almeno, a livello teorico: nella prassi, però, ciò che è dato rilevare è che il contenzioso che avrebbe dovuto passare attraverso la strada della questione incidentale di costituzionalità ha, in realtà, finito «per incanalarsi in quella del rinvio alla Corte di giustizia». E ciò è avvenuto anche grazie alla posizione assunta dalla stessa Corte costituzionale, che ha, con una serie di prese di posizione successive su aspetti specifici, largamente incoraggiato i giudici comuni a imboccare la strada di Lussemburgo, sulla base della convinzione per cui ogni questione che coinvolga un problema di interpretazione del diritto comunitario deve previamente essere risolta dal giudice che di quel diritto rappresenta l’interprete ultimo, cioè, appunto, la Corte di giustizia].


Le altre ipotesi in cui la Corte costituzionale ha ritenuto di mantenere ferma la propria competenza anche quando entri in gioco un problema di diritto comunitario, sono quella in cui la norma comunitaria violi i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inviolabili della persona umana (c.d. «controlimiti»), nel qual caso il sindacato avrà luogo attraverso il filtro dell’esame della legge di esecuzione dei Trattati; l’ipotesi in cui la legge interna impedisca o pregiudichi la perdurante osservanza dei Trattati, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei loro principi; l’ipotesi, infine, di impugnazione in via d’azione di leggi regionali da parte dello Stato o di leggi statali da parte della Regione per contrasto tra queste ed il diritto comunitario [ed è proprio nell’esercizio di questa competenza che la Corte costituzionale ha, per la prima volta, sollevato direttamente una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia].


Quanto ai rapporti tra CEDU e ordinamento interno – e, conseguentemente, tra giudici nazionali, Corte costituzionale e Corte di Strasburgo – con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 (in materia di indennità di espropriazione) la Corte costituzionale ha affrontato per la prima volta espressamente la questione dei rapporti tra legislazione nazionale e obblighi internazionali alla luce delle modifiche apportate all’art. 117, comma primo, Cost. dalla legge cost. n. 3 del 2001, prendendo in considerazione tutte le principali ipotesi ricostruttive elaborate dalla dottrina in merito alle conseguenze riconducibili alla modifica dell’art. 117, primo comma, Cost.


Da un lato, la Corte ha escluso la possibilità di valutare i rapporti tra diritto interno e diritto internazionale pattizio in modo analogo a quanto attualmente avviene nell’ambito delle relazioni tra diritto interno e diritto comunitario, negando cioè la facoltà per i giudici comuni di disapplicare le norme interne contrastanti con le disposizioni della CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo. La Corte ha, infatti, affermato che “la distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita […] nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza […], sono sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto”. A conferma di ciò, la Corte sottolinea come la stessa revisione del Titolo V della Costituzione abbia tenuto distinte le due ipotesi, attraverso il disgiunto riferimento ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.


Dall’altro lato, la Corte ha confermato l’esclusione della possibilità di ricondurre le norme della Convenzione nel quadro dell’art. 10, primo comma, Cost., il quale riguarda esclusivamente il diritto internazionale consuetudinario, e non quello di natura convenzionale. Secondo il giudice costituzionale, il nuovo art. 117, comma primo, Cost. deve essere interpretato sistematicamente all’interno del complessivo disegno costituzionale, non essendo possibile ritenerlo né “una mera riproduzione in altra forma di norme costituzionali preesistenti” né una disposizione “operante soltanto nell’ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni”.


La nuova formulazione della disposizione costituzionale rende “inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto alle leggi ordinarie successive”, attraendole contemporaneamente alla competenza della Corte, dal momento che “gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla loro rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni dei legittimità costituzionale”, circostanza che sottrae al giudice comune ogni possibilità di disapplicazione (o non applicazione) del diritto interno.


Si tratta di una delle tante ipotesi di “norma interposta”, di norma, cioè, che integra il parametro di costituzionalità, consentendo la sua concreta operatività: le “norme necessarie a tale scopo” – precisa la Corte – “sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria”. Nel caso specifico, deciso con le sentenze in parola, “il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato”, attraverso quello che viene definito come un vero e proprio “rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente”.


Questo assetto è stato sostanzialmente ribadito dalla più recente sentenza n. 317 del 2009, in cui la Corte costituzionale, attraverso il riferimento al concetto di «compenetrazione delle tutele», ha confermato che «l’integrazione del parametro costituzionale rappresentato dal primo comma dell’art. 117 Cost. non deve intendersi come una sovraordinazione gerarchica delle norme CEDU […] rispetto alle leggi ordinarie e, tanto meno, rispetto alla Costituzione. Con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Se si assume questo punto di partenza nella considerazione delle interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, si arriva facilmente alla conclusione che la valutazione finale circa la consistenza effettiva della tutela in singole fattispecie è frutto di una combinazione virtuosa tra l’obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU […] l’obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme interne una interpretazione conforme ai precetti convenzionali e l’obbligo che infine incombe sulla Corte costituzionale – nell’ipotesi di impossibilità di una interpretazione adeguatrice – di non consentire che continui ad avere efficacia nell’ordinamento giuridico italiano una norma di cui sia stato accertato il deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale. Del resto, l’art. 53 della stessa Convenzione stabilisce che l’interpretazione delle disposizioni CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali». La Corte, insomma, «non solo non può consentire che si determini, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., una tutela inferiore a quella già esistente in base al diritto interno, ma neppure può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale. La conseguenza di questo ragionamento è che il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti».


Che effetto ha sul quadro così rapidamente ricostruito il nuovo articolo 6 del Trattato?


Ad oggi si dovrebbe dire che nessuna conseguenza si è ancora prodotta, proprio perché, come detto, ancora non c’è stata una formale adesione dell’Unione alla CEDU né, di conseguenza, una sorta di formale incorporazione della CEDU nel diritto dell’Unione. Non a caso molte critiche e perplessità ha suscitato una recente decisione del Consiglio di Stato (sentenza n. 1220 del 2010) ove si legge che gli articoli 6 e 13 della CEDU sono «divenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009»: il giudice amministrativo è, infatti, sembrato evocare la possibilità di una diretta applicazione delle norme CEDU sulla base del richiamo del Trattato di Lisbona, con conseguente disapplicazione delle norme interne contrastanti, il che palesemente contrasterebbe con la ricostruzione elaborata dalla Corte costituzionale a partire dalle citate sentenze nn. 348 e 349 del 2007.


Il problema potrebbe però ripresentarsi in un futuro prossimo, quando (e se) l’Unione dovesse realmente divenire parte della Convenzione. In quel caso, infatti, venendo formalmente a far parte del diritto comunitario, il meccanismo della disapplicazione diretta da parte del giudice comune della norma interna contrastante con la norma della Convenzione potrebbe diventare, almeno in teoria, sostenibile. L’unico, eventuale, ostacolo potrebbe essere il difetto di diretta applicabilità (in senso comunitario) della norma convenzionale, il che potrebbe aprire la strada ad una richiesta da parte del giudice comune di un intervento in via pregiudiziale della Corte di giustizia, chiamata a giudicare sulla compatibilità di una norma nazionale in ipotesi contrastante con una norma della Convezione europea divenuta ormai anche norma di diritto comunitario. Utilizzando il rinvio pregiudiziale, cioè, il giudice nazionale potrebbe soddisfare la stessa esigenza oggi soddisfatta dal sollevamento della questione di costituzionalità (secondo – si ripete – il percorso prefigurato dalla giurisprudenza della Consulta).


Tale ultima considerazione ci conduce direttamente al secondo punto di osservazione del problema generale dell’adesione dell’Unione alla CEDU, vale a dire, appunto, la Corte di giustizia.


Dalla prospettiva della Corte di giustizia, si deve, infatti, in primo luogo, osservare come, nello scenario prospettato dal nuovo art. 6 del TUE, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si troverebbe a convivere con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la quale, a sua volta, vivrebbe all’interno dell’ordinamento comunitario una sorta di «doppia vita», l’una in quanto fonte di matrice convenzionale risultante dall’adesione formale dell’Unione alla CEDU, l’altra nella veste di «principi generali» del diritto dell’Unione. A ciò si aggiungano le varie Costituzioni nazionali, vincolanti per i giudici dello Stato nonché elemento di cui l’Unione Europea dichiaratamente fa mostra di tener conto laddove afferma che l’Unione «rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali».


Lo scenario della convivenza tra Carte dei diritti potrebbe forse tradursi, sul piano dei rapporti tra giudici, in un ulteriore rafforzamento del ruolo della Corte di giustizia quale garante ultimo dei diritti fondamentali nello spazio dell’Europa unita, a ciò ulteriormente legittimata – se ancora ve ne fosse bisogno – dalla «disponibilità» di una serie di cataloghi reciprocamente integrati. D’altro lato, questo rafforzamento potrebbe nello stesso tempo e paradossalmente trasformarsi in una sorta di “disorientamento” della Corte di giustizia, che si troverebbe appunto a poter (e dovere) utilizzare una serie di parametri di giudizio non sempre coincidenti nel loro contenuto prescrittivo, e costretta a prendere in considerazione tanto le singole carte costituzionali così come interpretate dalle Corti costituzionali nazionali, quanto il significato normativo della disposizioni della Convenzione europea così come interpretate dalla Corte di Strasburgo.


Si giunge così, in questa rapida panoramica, all’ultimo punto di osservazione, quello cioè che prende come riferimento il piano dei rapporti tra Corte di giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo.


L’adesione dell’Unione alla CEDU, infatti, riproporrebbe con rinnovato vigore la questione delle relazioni tra le due Corti sovranazionali. Si tratterebbe, cioè, di capire che tipo di conseguenze potrebbe avere, quanto allo sviluppo del dialogo tra la giurisdizione di Strasburgo e quella di Lussemburgo, una chiarificazione formale dei rapporti sostanziali tra Unione Europea e sistema CEDU.


In primo luogo si potrebbe riproporre per l’ordinamento comunitario la questione, già affrontata a livello dei singoli ordinamenti interni, relativa al rango delle norme internazionali e alle diverse modalità con cui è possibile assicurare, se del caso, la prevalenza delle norme esterne su quelle interne (questione che, come noto, gli stessi Stati membri dell’Unione Europea risolvono in modo non sempre coincidente).


In secondo luogo si tratterebbe di capire come giungere ad una regolazione dei rapporti tra le Corti di Lussemburgo e Strasburgo: è, cioè, possibile immaginare una sorta di formale «subordinazione» della prima alla seconda, secondo uno schema analogo a quello fatto proprio dalla giurisprudenza della Corte costituzionale a partire dalle sentenze 348 e 349 del 2007?


Si tratta di domande cui non si pretende qui di dare risposta. Tuttavia, due brevi osservazioni sono possibili.


La prima concerne il fatto che già oggi la Corte di giustizia utilizza con sempre maggior frequenza la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, prendendola espressamente in considerazione ai fini dell’interpretazione delle disposizioni convenzionali che fungono da parametri di giudizio in veste di principi generali del diritto comunitario.


La seconda considerazione riguarda, invece, il fatto che secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo “la Convenzione non esclude il trasferimento di competenze ad organizzazioni internazionali, a condizione che i diritti garantiti dalla Convenzione continuino ad essere riconosciuti. Tale trasferimento non fa dunque venire meno la responsabilità degli Stati membri” (così sentenza Matthews c. Regno Unito del 18 febbraio 1999).


La Corte di Strasburgo ha, cioè, da tempo, affermato nettamente la propria competenza ratione materiae a controllare la “convenzionalità” degli atti nazionali che danno attuazione al diritto comunitario non solo derivato, ma anche originario, anticipando, quindi, in via di fatto la sottoposizione dell’attività dell’Unione Europea al rispetto delle esigenze della Convenzione.


Se da un punto di vista sostanziale l’adesione dell’Unione alla Convenzione sarebbe, quindi, il passaggio finale di un percorso iniziato molto tempo fa, dal punto di vista delle relazioni tra giurisdizioni essa renderebbe ancor più indispensabile quel famigerato “dialogo tra le Corti” ancora oggi troppo timidamente posto in atto, rivelando una volta di più come l’idea della collaborazione tra i giudici in Europa risulti un elemento essenziale nel cammino verso l’unità europea e, quel che più conta, verso una più efficace tutela dei diritti umani nell’ambito della vecchia Europa.


Avv. ANTON GIULIO LANA
(Direttore dell’Osservatorio sulla Giurisprudenza CEDU e componente del
Comitato esecutivo dell’Unione forense per la tutela dei diritti dell’uomo)