La Toga ieri, oggi e domani.
di Domenico Bove

A parte un timido appello alla pazienza di chi mi legge, devo dire che non è mai agevole iniziare un discorso, tanto più quando il tempo a disposizione per partorirlo è breve e l’argomento in oggetto si presenta tanto vasto quanto importante, e chi lo affronta nutre in se la naturale vocazione a non sottovalutarne e pretermetterne alcun aspetto.
L’incipit poi è fondamentale.
Ho sempre ritenuto che, anche al di fuori della professione, il modo in cui si inizia un discorso, contenga in sé già metà del risultato finale ossia, conquistare l’attenzione e convincere della propria attendibilità, portando per mano l’ascoltatore lungo un percorso, logico prima che tecnico, alle conclusioni, che se si è operato bene, sembreranno scontate ed inevitabilmente giuste.
Al di là però della tecnica oratoria ovvero della retorica, che certamente insegnano come far valere le proprie argomentazioni, non indugiando talvolta nel sofismo e nel puro esercizio intellettuale, nel redigere questa breve relazione, nel selezionare l’argomento e le argomentazioni, mi son fermato a riflettere su quanto tutto ciò, l’oratoria, la frase ad effetto, il sofismo, l’escamotage, siano termini che da tempo risalente ormai, nell’immaginario collettivo, costituiscono gli elementi identificativi di una professione spesso amata ed al contempo vituperata dalla gente.
Vituperata ( nel senso di ingiustamente infamata ) perché, colpa di un radicato retaggio culturale, che non rende giustizia alla dignità ed alla dimensione del ruolo paraistituzionale, la nostra professione è talvolta dipinta come quella di affaristi senza etica o morale, fraudolenti racconta chiacchiere, furbetti, mangia soldi, e chi più ne ha più ne metta.
Chi dovesse seriamente ritenere ciò, non ha fatto i conti con il dato fondamentale in base al quale, l’avvocato non ha alcun “ cilindro magico “ capace di risolvere tutti i mali del mondo in base al suo grado di cialtroneria o di “ saperci fare con le parole “ ( in una accezione chiaramente negativa che riduce il professionista a poco più che un venditore di ciance ), del resto abbiamo pur sempre da confrontarci in prima linea con i giudici i quali, a meno da non volerli ritenere degli sprovveduti, non se la fanno certo raccontare facile.
D’altra parte e consequenzialmente rispetto al primo asserto, v’è il dato in base al quale è la legge il referente principale dell’avvocato ( come già per i giudici ex art. 101, comma 2 Cost. ) per cui, il suo ruolo non può che essere quello altissimo di garante della sua corretta interpretazione ed applicazione ogni qual volta se ne prospetti l’operatività, e dunque garante dei diritti dei suoi assistiti, ed in una dimensione più ampia, degli uomini.
Non sto esagerando, non lo credo affatto, considerato che sono proprio, la Costituzione prima ed il preambolo al nostro Codice Deontologico poi, ad offrire validissimo e referenziato supporto alle mie argomentazioni.
Operare quella quotidiana metamorfosi interpretativa attraverso la quale, per primi siamo chiamati ad adattare la fattispecie astratta al caso concreto, trasformare la carta di un codice in vita vissuta, non è opera certamente per avventurieri, faccendieri o improvvisatori, quanto invece richiede costante studio, preparazione e dedizione al diritto nonché alle vicende umane che sono sottoposte alla nostra attenzione.
Tale binomio, “ Diritto – Essere Umano “, destinato a ritornare spesse volte in argomento nel corso della trattazione, non può e non deve leggersi come una mera e vaga affermazione di principio, bensì piuttosto come chiave di lettura dell’intero ordinamento giuridico e delle figure destinate a muoversi ed operare a vario titolo al suo interno, in quanto, il diritto non può che nascere per soddisfare ed incorporare le esigenze di tutela e gli interessi che si formano, muovono e sviluppano in grembo ad una comunità di esseri umani, ed a questi torna come catalizzatore di condotte, imponendosi alla comunità, richiedendo agli individui il rispetto dei suoi stessi precetti.
Orbene, in questa dialettica continua, se non vi fosse bisogno dell’intervento di un intercessore, e bastassero i giudici da soli a garantire la corretta applicazione e fruizione del diritto, quale sarebbe il significato del “ diritto ad agire in giudizio “ per tutelare i propri diritti o interessi legittimi senza chi conosca ed assicuri al quisque de populo la conoscenza degli strumenti attraverso i quali farli valere?
Quale la sorte del ” diritto di difesa “ senza chi faccia da traduttore in termini giuridici delle istanze, DELLE VERITA’ del comune cittadino, apolide o straniero che venga abbandonato a se stesso nella giungla delle disposizioni di legge, spesso poco chiare e d intellegibili persino agli operatori del settore?
Non può certo pretendersi dal comune cittadino la perfetta conoscenza della legge, sostanziale e processuale, in tutte le sue variegate sfumature.
E’ appena il caso di ricordare la celebre sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988 che demolì il dogma dell’insuperabilità dell’art. 5 c.p., mitigandolo con un principio di “ possibile ignoranza non colpevole – scusabile “, una sorta di rivoluzione copernicana dei principali assetti dogmatico – interpretativi in tema di colpa e responsabilità penale.
Mutuando il pensiero di J.J.Rousseau, a proposito dell’effettività del diritto potremmo dire che, riconoscere a taluno un diritto senza fornirgli gli strumenti per esercitarlo e tutelarlo rende quel diritto vuoto, praticamente inesistente, tam quam non esset.
E’ come dire che, una bella macchina ( istituto giuridico – diritto ) senza benzina ( strumento di tutela – azione giuridica ) e chiavi ( avvocato per accedervi ) resta solo un oggetto fine a se stesso.
E dunque la professione è anche Amata ed apprezzata, perché, al di fuori dell’ambito di chi la esercita e che dunque ha sposato tale professione, ed oserei dire anche vocazione, tra la gente, l’avvocato appare come il riferimento principale attraverso il quale ottener giustizia delle proprie ragioni, ovvero serena dimora, rifugio dai fantasmi dei propri torti, comprensione e rassicurazione qualificata a fronte dei peccati perpetrati.
Tale condivisa sensazione era avvertita già da chi, ben prima di me affrontava la problematica del ruolo dell’avvocato, e della classe forense in una società in precipitosa evoluzione, in una società in cui, al di là di quel che ne volessero raccontare certi noti romanzieri, l’avvocato era sempre meno “azzeccagarbugli “ e sempre più un tecnico del diritto.
Poiché, data la mia giovane età e la modestissima esperienza di cui mi faccio portatore, mi si potrebbe obiettare che non posseggo ancora gli anni sufficienti per poter compiere simili affermazioni di largo respiro, proverò a mettermi sulle spalle di chi, senza possibilità di smentita, avrebbe ottenuto il facile plauso del lettore, una persona ed un collega che, per merito della sua sconfinata cultura ed acume intellettuale, è sempre stato definito dai suoi commentatori, come un giurista “ lungimirante ”.
Sto parlando di Piero Calamandrei, il noto giurista fiorentino, che, padre del Codice Civile del 1942 insieme ad altri illustri nomi quali Carnelutti e Redenti, raccontava spesso nei suoi scritti, già agli albori del secolo scorso, con una piacevole sfumatura ironica e sulle note di una serie di piacevoli aneddoti, la professione dell’avvocato, la sua dimensione aulica tanto quanto la sua quotidiana normalità, nonché l’eterno confronto di quello con i suoi eterni riferimenti principali, ossia i clienti ed i giudici.
Diceva il Calamandrei che, i clienti, liberandosene, scaricano i loro problemi, le loro ansie e preoccupazioni, il gravoso peso dei quali grava, da quel momento, sul professionista. Non va dimenticato, poi, che l’avvocato è continuamente pressato dai clienti che vogliono resa subito giustizia ed ai quali deve rendere conto delle disfunzioni di un sistema, che non sono a lui addebitabili.
E’ evidente che tanto ciò era, ed è possibile, in quanto l’avvocato rappresenta per il cliente la personificazione di uno strumento di giustizia, di uguaglianza e quindi di democraticità.
Dalla sobria analisi sin qui svolta, ne emerge una figura fondamentale nel macrosistema giustizia, una figura che, sul piano per così dire formale, si impone come fondamentale ingranaggio nel complesso e dinamico meccanismo della evoluzione del cd. Diritto Vivente, nonché strumento di attuazione dei principi costituzionali previsti dagli artt. 24 e 111 della Costituzione.
Quanto all’art. 24 Cost., nel ricordare che esso, ai commi 1° e 2° stigmatizza gli inviolabili diritti di azione e difesa in giudizio quali irrinunciabili presupposti per la attuazione e realizzazione di tutti i diritti e le libertà le cui formulazioni, altrimenti, rischierebbero di sortire l’effetto di un mero esercizio di stile, al 3° comma enuncia il principio in base al quale “ Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione “.
Chiaramente l’istituto cui principalmente questa norma fa riferimento è quello del Patrocinio a Spese dello Stato di cui già all’art. 98 c.p.p. e disciplinato attualmente dal T.U. sulle Spese di Giustizia del 2002 nonché dal D.lgs. n.116/2005 per quel che riguarda le controversie transfrontaliere.
Tale istituto, come poc’anzi detto, ha la funzione di realizzare quel principio di effettività del diritto ed uguaglianza dinanzi alla legge garantendo a chi si trovi al di sotto di una determinata soglia di reddito la possibilità di rivolgersi ad un avvocato per ottenere quelle prestazioni essenziali alla realizzazione dei predetti diritti, i quali, altrimenti ragionando, resterebbero frustrati facendo della giustizia uno strumento a disposizione di pochi, ossia, con grande probabilità, delle sole classi più agiate.
Ovviamente strumento di concreta realizzazione di questi principi, aldilà dell’istituto giuridico, è l’avvocato.
Mi tornano utili, onde dimostrare l’esistenza di una Costituzionalizzazione dell’attività forense, del diritto all’esercizio, nonché della funzione della stessa, le argomentazioni utilizzate dalla Suprema Corte di Cassazione a S.U. in una recente pronunzia in materia di responsabilità professionale medica, nella quale la Suprema Corte si è trovata ad affrontare preliminarmente il nodo cruciale della rilevanza del consenso informato al trattamento medico-chirurgico al fine di “ scriminare “ una attività che per sua natura è evidentemente, in astratto, capace di incidere profondamente su beni giuridici fondamentali quali l’integrità fisica, la libertà di autodeterminarsi, nonché l’incolumità stessa delle persone.
Non è questa la sede in cui affrontare la complessa problematica suaccennata, mi preme solo però fare un necessario parallelo tra le due attività professionali in parola, ossia quella del medico e dell’avvocato.
Nella predetta sentenza, n. 2437/2009, la S.C. in sintesi aderisce tra le righe, ma trovando per altra via il fondamento legittimante l’attività medico-chirurgica, alla tesi già proposta in dottrina dal MANTOVANI, ossia che essa rappresenti l’esteriorizzazione dell’ ” esercizio di un diritto “ ( per Mantovani tale espressione è da leggere ex art. 51 c.p. ), diritto che si pone come necessario corollario della corretta lettura dell’art. 32 della Costituzione.
Se si legge infatti tale disposizione, dal 1° comma, si evince che in essa non è solo, astrattamente ed aridamente enunciato il fondamentale diritto alla salute del cittadino ( e più in generale degli uomini come diritto inviolabile tra quelli annoverabili nell’art. 2 Cost. ) e quindi alla tutela della salute stessa, ma che tale effettività del diritto si realizza completamente solo attraverso la predisposizione di un sistema sanitario che assicuri le cure “ gratuite “ agli indigenti ( uguaglianza ).
Ora, premesso che naturalmente questo confronto deve essere letto con gli opportuni adattamenti alle fisiologiche differenze che esistono tra le due professioni, è palese che vi sia una profonda similarità tra l’enunciato di cui all’art. 24 comma 3° ( Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione ) e quello di cui all’art. 32 comma 1°, quanto alla previsione di strumenti di tutela e di realizzazione dei diritti cui le norme fanno riferimento ( Giustizia e Salute ).
Sicché secondo quell’orientamento dottrinario, e secondo la stessa Cassazione, è in questa previsione da ritrovarsi il fondamento legittimante l’attività medico-chirurgica, senza però ( aggiungono gli ermellini ) doversi far riferimento ad alcuna causa di giustificazione ( né ex art. 50, né ex art. 51 c.p. ).
Quindi, senza volermi dilungare oltre sulla questione in particolare, se di una sorta di “ esercizio del diritto “ si vuol parlare ( mutuando la terminologia penalistica della nota scriminante ) lo si deve fare con riferimento ad un diritto Costituzionalmente previsto che si pone come naturale garante della effettività del diritto alla Salute.
Resta chiaro però che, come tutti i diritti, esso ha il suo limite fisiologico nell’esercizio lecito, e quindi anzitutto nel generale principio del neminem laedere, che consiste in prima istanza nel non invadere arbitrariamente la sfera di diritto e libertà altrui.
Nel caso di specie, l’esercizio di quell’ attività costituzionalmente legittimata, trova il suo naturale limite di liceità nel consenso del paziente ( nel caso dell’avvocato lo ritroviamo nel mandato ), che non si atteggia a scriminante ex art. 50 c.p., ma a limite di liceità dell’operatività del diritto così ricostruito.
Infatti, secondo quanto sostenuto dalla S.C., nei casi di necessità ed urgenza, in cui tale specifico consenso non sia esigibile, ritrova la sua massima estensione quel diritto costituzionalmente previsto alla naturale tutela della salute che consente al medico di intervenire, con diligenza, anche in assenza di consenso esplicito ed al quale intervento osterebbe solo un espresso rifiuto preventivo del paziente.
Non a caso l’art. 32, 2°comma, afferma che, d’altra parte, nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per previsione di legge.
Quanto detto, mutuando con i dovuti adattamenti le argomentazioni esposte, serve per sottolineare non solo la ovvia Costituzionalizzazione dell’attività forense, ma anche la portata di tale attività quale presidio naturale all’attuazione dei diritti di Azione e Difesa di cui all’art. 24 Cost.


Naturalmente anche per quel che concerne l’attività dell’avvocato, essa deve essere svolta secondo il canone della diligenza.
Venendo allora alla materia deontologica, leggiamo che l’art. 8 del nostro codice deontologico impone all’avvocato di “ adempiere ai propri doveri professionali con diligenza “.
Invero tale sintetica norma va letta nel più ampio contesto di una serie di doveri che a mio avviso ne costituiscono specificazione dei contenuti.
Premesso che, per diligenza nello svolgimento della attività dobbiamo aver presente il canone dell’ Homo eiusdem professionis et condicionis, mutuato dalla terminologia penalistica in materia di colpa, per cui all’avvocato, come a qualsiasi libero professionista, è richiesto un quid pluris di attenzione nello svolgimento della propria attività, è chiaro che questo quid pluris si distilla in una serie di principi che nel complesso realizzano il canone della condotta diligente.
Attenzione però, con ciò dicendo, non ritengo affatto che la responsabilità disciplinare ( geneticamente amministrativa ) del professionista ricalchi il modello della responsabilità penale, tanto è vero che, all’art. 6 del codice deontologico, in argomento di Lealtà e Correttezza, si evince che in particolare “ l’avvocato non deve proporre azioni o assumere iniziative in giudizio con mala fede o COLPA GRAVE “.
La cd. Culpa Gravis è un concetto di matrice civilistica sconosciuto al penale quanto alla sua funzione di criterio ascrittivo di responsabilità in capo al soggetto agente, piuttosto entra in gioco in fase commisurativa della pena ex art. 133 c.p. come gravità del dolo o della colpa.
Inoltre all’art. 5 del codice deontologico, tra i doveri di probità, dignità e decoro, troviamo l’enucleazione del principio di probità come prioritario dovere di non violare la legge penale anche al di fuori dell’attività professionale.
Mentre, però, sul piano disciplinare interessano solo le violazioni dolose della legge penale, sul piano penale evidentemente no! ( più in generale, già ex art. 3, la responsabilità disciplinare trova l’elemento soggettivo fondante nella “ VOLONTARIETA’ ” dell’azione ).
Ed ancora si consideri che sebbene, anche alla luce della sentenza della Corte di Cassazione, S.U. Civili n. 4893/2006, la pendenza di un procedimento penale comporta la necessaria sospensione del procedimento disciplinare instauratosi in ragione di quella, in base alla lettura combinata degli artt. 653 c.p.p. e 295 c.p.c., e secondo il logico principio in base al quale, se la responsabilità disciplinare deriva dalla commissione di un reato, la sentenza definitiva che dovesse esprimersi per l’assoluzione dell’avvocato perché “ il fatto non sussiste, l’imputato non l’ha commesso ovvero il fatto non costituisce reato “ fa cadere automaticamente qualsiasi responsabilità deontologica avente come presupposto la predetta responsabilità penale, deve esser fatta salva però ogni autonoma valutazione sul fatto commesso da parte dell’organo disciplinare.
Ciò vuol dire che, non solo sul fatto penale eventualmente ritenuto sussistente con sentenza penale irrevocabile, l’organo disciplinare conserva autonomia nella valutazione della gravità fatti ormai coperti da giudicato, ma tale autonoma riflessione è conservata anche sul fatto non ritenuto penalmente perseguibile, poiché più in generale, sempre ex. Art. 5 Cod. Deontologioco, potrebbe residuare una responsabilità derivante da una attività che si rifletta comunque sulla sua reputazione professionale o comprometta l’immagine della classe forense.
Quindi in base all’art. 5, anche al di fuori dell’ambito stricto sensu professionale, l’avvocato può esser chiamato a rispondere per attività di vita quotidiana che comunque si fanno portatrici di un disvalore intrinseco capace di macchiare in buona sostanza la predetta nobiltà costituzionale di questa professione.
V’è da osservare inoltre che, soprattutto alla luce della lettura dei predetti doveri di PROBITA’, DIGNITA’ E DECORO, capaci di aprirsi alla vita extraprofessionale dell’avvocato, esiste una tendenziale carenza di tassatività delle ipotesi di responsabilità disciplinare, che in taluni punti si aprono alla discrezionalità dell’organo disciplinare e che fanno più affidamento al buon senso ed alla prassi piuttosto che ad una rigida elencazione tassativa.
Ciò detto, esclusa quindi una sorta di assimiliazione tra responsabilità penale e quella disciplinare, v’è da dire che, il DOVERE DI DILIGENZA invero deve essere letto nella sua portata più ampia come snodo essenziale intorno al quale si costruisce gran parte del codice deontologico.
Infatti oltre ai predetti doveri di lealtà e correttezza, il dovere di diligenza si esprime a chiare lettere e nel senso più ampio nel DOVERE DI FEDELTA’ verso il proprio assistito ( ex art. 7 Cod. Deont., la cui inosservanza può comportare, sussistendone i presupposti, responsabilità penale ex artt. 380 e 381 c.p. ), DOVERE DI DIFESA ( ex art. 11 stesso Codice, che in primo luogo comporta un dovere di prestare la propria attività difensiva anche quando, come accade ex art. 97, comma 4 c.p.p. ne sia richiesto dagli organi giudiziari in base alle leggi vigenti, nonché rende, disciplinarmente rilevante il rifiuto ingiustificato di prestare attività di gratuito patrocinio ovvero la richiesta all’assistito di un compenso per la prestazione di tale attività ); DOVERE DI COMPETENZA e DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE ( ex artt. 12 e 13 ).



Voglio soffermarmi su tali ultime due disposizioni, poiché sono forse il presupposto fondamentale alla piena realizzazione del dovere di diligenza.
Recita infatti l’art. 12 che l’avvocato non deve accettare incarichi che sappia di non poter svolgere con adeguata competenza, ovvero attivarsi al fine di, dinanzi a controversie di particolare impegno e complessità, farsi affiancare da altro collega. L’accettazione di un determinato incarico professionale fa presumere la competenza a svolgere quell’incarico.
E’ chiaro che, anzitutto, la eventuale scelta di farsi affiancare da un collega va ben ponderata, dall’avvocato prima e suggerita all’assistito poi, il quale, da ultimo, eventualmente l’avvallerà o meno, onde evitare un inutile aggravio di spese a carico del cliente.
In secondo luogo, che è ancor più importante, è evidente che tale norma ha la funzione di tutelare l’assistito, onde evitare che possa far affidamento su un professionista incompetente in quel determinato settore o in quella determinata materia.
Infatti la disposizione di chiusura dell’articolo citato esprime il principio che definirei dell’ ” affidamento incolpevole dell’assistito “, per cui una volta che l’avvocato abbia accettato l’incarico, si crea uno stato di quasi-abbandono alle cure di questo da parte del cliente, non potendoglisi addebitare nulla, o quasi nulla, che provenga da una mancanza di competenza, anche sopravvenuta rispetto ad una determinata questione, addebitabile all’avvocato. ( Non sta al cliente l’obbligo di revocarlo a priori )
Si consideri a tal proposito che , sulla scorta di una recente pronunzia della Suprema Corte ( Cass. Pen. Sez. VI, Sentenza n°. 35149/2009 ) è stato ritenuto “ integrante il caso fortuito o forza maggiore l’ipotesi in cui il comportamento omissivo del difensore di fiducia, non attivatosi contrariamente alle aspettative dell’imputato per proporre impugnazione, sia dovuto ad una situazione di imprevedibile ignoranza della legge processuale penale. Ne deriva la legittimità ed il conseguente accoglimento della richiesta di restituzione in termini per la presentazione dei motivi di appello ex art. 175 c.p.p.
Sostiene la Cassazione che, “ se è vero che incombe all’imputato l’onere di scegliere un difensore professionalmente valido e di vigilare sull’esatta osservanza dell’incarico conferito ( già ex Cass. Civ, sez. II , 11 novembre 2003, Sulli; Cass. Civ, sez. I 24 aprile 2000, Bekhit; Cass. Civ, sez. V, 1 febbraio 2000, Battili), non può pretendersi che egli, nell’effettuare la scelta del difensore, verifichi previamente (senza peraltro possedere le relative cognizioni culturali) la sua padronanza di ordinarie regole di diritto che dovrebbero costituire il bagaglio tecnico di qualsiasi soggetto legittimato alla professione forense attraverso il superamento dell’esame di Stato. L’imprevedibilità del fatto dell’avvocato quindi, notoriamente fondante il caso fortuito secondo orientamento radicato in dottrina e giurisprudenza, è idonea a giustificare la rimessione in termini e la reintegrazione nel diritto di difesa.
Quindi, ritornando al caso di sopravvenuta incompetenza rispetto ad una determinata questione, sarà opportuno che l’avvocato valuti di farsi affiancare da altro collega, ovvero rinunzi al mandato avendo cura di mettere il cliente nelle condizioni di poter far utilmente e tempestivamente subentrare altro difensore.
Non a caso esistono norme specifiche disciplinanti la “ rinunzia al mandato “, quali quelle di cui agli artt. 107 e 108 c.p.p., che prevedono in caso di rinunzia al mandato, oltre a ovvi obblighi di comunicazione all’autorità procedente ed all’assistito, uno spostamento della operatività dello stesso al momento in cui la parte non risulti assistita da altro difensore di fiducia o di ufficio e non sia decorso il termine a difesa eventualmente concesso ex art. 108 c.p.p.
Inoltre è significativo il richiamo fatto dall’art. 105, comma 4,c.p.p. alla responsabilità disciplinare dell’avvocato per abbandono della difesa, ed all’obbligo dell’autorità giudiziaria di comunicare al consiglio dell’ordine di appartenenza i casi di abbandono ovvero rifiuto della difesa di ufficio ed ancora il realizzarsi della incompatibilità di cui all’art. 106, comma 4 bis stesso codice ( ossia il caso dell’avvocato che difenda nello stesso processo più imputati che abbiano posizioni configgenti, in quanto uno o alcuni di questi abbiano reso dichiarazioni accusanti nei confronti di altri altrettanto imputati in procedimenti connessi o collegati ).
Quello di evitare incompatibilità, non va confuso con la autonoma previsione deontologica di cui all’art. 16 che si riferisce alle cause di incompatibilità con l’iscrizione o la permanenza nell’albo degli avvocati, bensì è da riportarsi al generale criterio di diligenza, nonché ai doveri di lealtà e correttezza.
La competenza però va assicurata, nel lungo periodo, e sappiamo che quando si parla di processi si parla di LUNGHI PERIODI, tramite una formazione costante.
Ed è qui che l’art. 13 si collega al predetto 12 realizzando un cardine fondamentale del cd. Comportamento diligente dell’avvocato.
E’ infatti dovere dell’avvocato curare la propria preparazione professionale, conservando ed accrescendo le proprie conoscenze, con particolare riguardo ai settori nei quali svolga la propria attività.
Tale previsione va letta in necessario combinato con la precedente in quanto una formazione continua fine a se stessa ha poco rilievo se non fosse che garantisce qualità e competenza alla prestazione, e quindi garantisce quei cari diritti costituzionalmente previsti all’assistito.


Lato sensu, nel dovere di diligenza può annoverarsi anche il DOVERE DI VERITA’ ( ex art. 14 ), che fa appello ai più generali principi di correttezza e lealtà, ma che inquadra anche molto bene la figura dell’avvocato come portatore di giustizia e verità, con competenza e professionalità, piuttosto che come cialtrone azzeccagarbugli!
Tale norma infatti ha la funzione di stigmatizzare il principio in base al quale l’attività dell’avvocato non deve essere diretta a “ mistificare “ la realtà, onde ottenere dal giudice provvedimenti favorevoli sulla base di false argomentazioni ovvero prove false, ma dimostrare sobrietà e correttezza intellettuale nello svolgimento della professione.
( Al di là, infatti della introduzione intenzionale di prove false all’interno di un giudizio, si richiede all’avvocato, più in generale, un atteggiamento volto a non indurre in errore il giudice, asserendo l’esistenza o inesistenza di fatti obiettivi di cui abbia diretta conoscenza in modo, per così dire, veicolato! )
Non è il caso di sottolineare che, ovviamente l’introduzione di elementi falsi all’interno di un giudizio può fondare a vario titolo responsabilità penale diretta ed indiretta ex art. 48 c.p.
Venendo dunque a concludere questa relazione, e riportandomi per le note conclusive ad un argomentare sobrio e meno tecnico, voglio sottolineare che, da quanto sino ad ora per grandi linee esposto emerge il nobile ed impegnativo ruolo paraistituzionale che l’avvocato è da sempre chiamato a svolgere, ma quel che non emerge ancora è il lato tutto umano della vicenda quotidiana dello svolgere questa professione.
L’avvocato infatti è si un giurista ( nell’accezione più ampia ), ma non lo fa come un contabile del diritto dietro una fredda calcolatrice.
Per usare le parole del Capograssi ( noto giurista e filosofo del diritto ), il giurista vive il diritto con “ vivo senso della storia e della storicità delle cose umane ”,è infatti “ la persona il diritto stesso piuttosto che il diritto ad avere la persona “.
Con ciò dicendo il giurista di Sulmona intendeva dire che il giurista deve rifiutare il formalismo e le astrattezze così care alla tradizione romanistica, quasi fossero un abusato rifugio per occultare tradimenti ed ingiustizie verso la società e particolarmente verso i soggetti più deboli.
Deve piuttosto ridare al diritto e alle cd. “ Carte “ quel respiro umano che gli è proprio e senza il quale sarebbe espressione di un potere vuoto di valore.
Come mi diceva l’Avv. Giuseppina Chiarello agli inizi della mia esperienza di praticante, “ Mentre il giudice ha principalmente a che fare con le carte, noi abbiamo a che fare con l’animo umano, cui siamo tenuti a restituire dignità tra il bianco ed il nero di quelle lettere che compongono le norme e gli atti processuali “.
L’umanizzazione del diritto, in campi come quello penale cui, come appare chiaro a questo punto, io sono particolarmente dedito, è la chiave di lettura del giusto e della corretta applicazione delle norme, nonché l’unica strada che può condurre al vero, il ché non vuol dire assoluzione sempre e comunque, bensì contributo reale alla realizzazione di quella funzione special-preventiva del sistema penale e quindi rieducativa della pena, già ex art. 27 Cost. ( nei limiti della colpevolezza in senso normativo, ossia della rimproverabilità del fatto ).
Il Beccaria parlava, nel suo Dei Delitti e delle Pene, di “ limite utile della pena ”, come il limite oltre il quale la pena cessa di avere utilità sociale, e dunque non contribuisce più a prevenire la recidiva.
Pertanto aborriva il Beccaria una concezione di Diritto Penale che si muovesse al di fuori del principio di Utilitarismo Sociale, mostrandosi così avanguardista già 300 anni prima della nascita della nostra costituzione.
Io dico che, ogni attività umana, compresa quella degli avvocati e dei giudici deve necessariamente ispirarsi al canone della solidarietà e della utilità sociale, altrimenti più che portatori di giustizia saremmo i primi realizzatori di disorganicità e disuguaglianza all’interno del mondo in cui siamo chiamati a vivere.
E’ utile ricordare ciò che il Calamandrei diceva anche dei giudici.
Convinto sostenitore di una magistratura libera, autonoma ed indipendente, nonché dei principi di terzietà ed imparzialità dei giudici, quali elementi fondanti uno Stato liberaldemocratico e di diritto, scriveva così dei magistrati: “ Non “abituatevi” mai a rendere giustizia. Ogni sentenza deve provocare in voi sempre quel senso quasi religioso di costernazione che vi fece tremare quando, pretori di prima nomina, doveste pronunciare la vostra prima sentenza…Non ammalatevi mai di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama conformismo…Il giudice che si “abitua” a rendere giustizia è come il sacerdote che si ”abitua” a dire messa”.
Ed ancora :Il pericolo nuovo che incombe sulla giustizia è la politicizzazione dei giudici…Il magistrato che scambia il suo seggio con un palco da comizio cessa di essere magistrato”.
Non suonano nuove tali questioni e problematiche all’orecchio di chi legge tali scritti, poiché sono parte della quotidiana realtà e che dopotutto, anche a distanza di molti anni, scandiscono le pennellate che dipingono le nostre giornate e le nostre intime riflessioni.
Quindi l’avvocato è da sempre interprete, commentatore e protagonista dell’evoluzione di un paese e delle problematiche sociali, politiche ed economiche che lo attraversano verticalmente ( nello spazio ) e trasversalmente ( nel tempo ), portatore qualificato, a vario titolo, dalle aule di giustizia alle commissioni parlamentari, delle istanze che si muovono nel grembo di una comunità in costante mutamento, catalizzatore di quelle istanze di adeguamento dell’assetto ordinamentale alle esigenze di modernizzazione ed adeguamento al novum della tutela collettiva .
Non è dunque il brocardo latino “ dum pendet, rendet “ a stigmatizzare la professione forense ma piuttosto il predetto preambolo al codice deontologico che recita : ” L’avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all’attuazione dell’ordinamento per fini di giustizia. Nell’esercizio della sua funzione, l’avvocato vigila sulla conformità delle leggi ai principi della costituzione, nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e dell’ordinamento comunitario; garantisce il diritto alla libertà e sicurezza e inviolabilità della difesa; assicura la regolarità del giudizio e del contraddittorio. Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione di questi valori “.
Passato, presente, e futuro.
Mi torneranno in chiusura quindi, ancora utili le parole del giurista ed avvocato fiorentino che, a tal proposito, lanciava ai suoi colleghi presenti e futuri un messaggio destinato a superare gli sterili confini temporali degli anni e divenire messaggio immortale di nobiltà :
Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore.
Ma l’Avvocato no!
L’Avvocato non può essere un puro logico, ne un ironico scettico;
l’Avvocato deve essere prima di tutto un CUORE; un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in Sé, assumere su di Sé i loro dolori, e sentire come Sue le loro ambascie
“.


Avv. Domenico Bove