REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI


Composta dai signori:
Dott. Edoardo Fazzioli Presidente
1 Dott. Giuseppe Maria Cosentino Componente
2 Dott. Francesco Marzano “
3 Dott. Nicola Milo (relatore) “
4 Dott. Maria Cristina Siotto “
5 Dott. Gennaro Marasca “
6 Dott. Amedeo Franco “
7 Dott. Giovanni Conti “
8 Dott. Alberto Macchia “
ha pronunciato la seguente


SENTENZA


Sul ricorso proposto da Do. Ca., nato a Ta. il (…);
avverso la sentenza 23/10/2008 della Corte d’Appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto -;
visti gli atti, la sentenza denunciata e il ricorso;
sentita in udienza pubblica la relazione fatta dal consigliere dott. Nicola Milo;
udito il P.G., in persona del dr. Vittorio Martusciello, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza, limitatamente al trattamento sanzionatorio, e per l’inammissibilità nel resto del ricorso; in subordine, per l’annullamento senza rinvio della sentenza in relazione alla pena e rideterminazione della stessa;
udito il difensore, avv. Fr. Ca., che si è riportato ai motivi di ricorso.


FATTO


1- Il Tribunale di Taranto, con sentenza 20/6/2005, dichiarava Do. Ca. colpevole del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale – perché, nella qualità di amministratore della “Ta. Fo. Cl. spa”, dichiarata fallita con sentenza 1/10/1993 dello stesso Tribunale, aveva distratto in proprio favore, nel corso della procedura concorsuale, la somma di lire 179.155.754 riveniente dalla vendita, in data 28/1/2000, di n. 27.173 azioni della “Ba. In. spa”, custodite in un dossier titoli presso la banca “Ca.” intestato a sé stesso, delle quali, però, aveva riconosciuto, sin dal 22/2/1996, la sostanziale titolarità in capo alla società – e lo condannava a pena ritenuta di giustizia, nonché al risarcimento dei danni in favore della Curatela fallimentare, costituitasi parte civile.
2- A seguito di gravame proposto dall’imputato, la Corte d’Appello di Lecce – sezione di Taranto -, con sentenza 23/10/2008, riformando in parte la decisione di primo grado, che confermava nel resto, riteneva il reato per cui si procede in continuazione con quelli di emissione di fatture per operazioni inesistenti e di bancarotta fraudolenta patrimoniale, oggetto della sentenza di condanna emessa a carico dell’imputato il 3/5/2000 dal Tribunale di Taranto (irrevocabile il 27/6/2000), ed aumentava la pena inflitta con quest’ultima sentenza di mesi sei di reclusione.
2a- Il Giudice distrettuale, sulla base delle testimonianze di Ub. Pu., curatore fallimentare, di Ro. Ve., responsabile dell’Ufficio titoli della Ca. di Ri. di Pu., nonché della documentazione acquisita, ricostruiva come segue la vicenda.
Do. Ca., in data 23/6/1992, aveva avanzato richiesta di sottoscrizione a proprio nome di n. 140.000 azioni ordinarie della “Ca.” e, il successivo 30 luglio, aveva perfezionato l’acquisto dei titoli, dando disposizioni all’Istituto di credito di addebitare il controvalore di lire 293.720.000 sul conto corrente della “Ta. Fo. Cl. spa” Dette azioni, in conseguenza di vicende negative che avevano coinvolto la Ca. di Ri. di Pu., incorporata – prima – dalla Ba. In. e – poi – dalla “Ca.”, erano state riconvertite successivamente nelle azioni della Ba. In., alle quali si fa riferimento nel capo d’imputazione.
Dopo la dichiarazione di fallimento, il curatore, in sede di redazione dell’inventario, aveva constatato, esaminando il bilancio della società predisposto dal suo amministratore, che tra le poste attive figuravano le citate azioni “Ca.” e, nella stessa circostanza, aveva avuto conferma di ciò dal Do. Ca, il quale aveva precisato che i titoli erano stati “costituiti a garanzia di finanziamenti ottenuti dalla società”.
Do. Ca., con lettera raccomandata 22/2/1996, aveva ribadito al curatore del fallimento “la sua disponibilità ad adempiere le formalità necessarie per il trasferimento dei predetti titoli”.
Era accaduto, però, che Do. Ca., in data 28/1/2000, aveva venduto le azioni “Ba. In. spa”, rivenienti dalla riconversione di quelle “Ca.”, incamerando il controvalore di lire 179.155.754.
2b- La Corte territoriale, alla luce di tale ricostruzione, riteneva ampiamente provata la distrazione da parte dell’imputato, in pendenza della procedura concorsuale, dei titoli azionari di pertinenza sostanzialmente della società fallita, in quanto acquistati incontestabilmente con capitali della stessa.
Precisava che nessun rilievo assumeva, per escludere la sussistenza del reato, la circostanza che l’imputato – a suo dire – avesse finanziato, in passato, la società con ben più consistenti somme di denaro, non potendosi legittimamente invocare, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, una qualsiasi forma di “compensazione”, imponendo la procedura concorsuale l’insinuazione nel passivo fallimentare di eventuali diritti di credito; ugualmente irrilevante era l’indagine, sollecitata con l’atto di appello, in ordine alla riconversione dei titoli azionari “Ca.” con altri emessi dall’Istituto di credito che aveva incorporato la Ca. di Ri. di Pu. e, quindi, all’individuazione delle azioni appartenenti, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, alla persona fisica del Do. Ca. e di quelle di pertinenza della società, considerato che comunque lo stesso imputato non aveva contestato la distrazione di questi ultimi titoli, anche se per un valore inferiore a quello indicato nel capo d’imputazione.
Sottolineava che la distrazione doveva ritenersi “consumata nel gennaio 2000”, in coincidenza cioè con la vendita delle azioni, e non poteva essere retrodatata, come sostenuto dalla difesa, al 30/7/1992, vale a dire al momento dell’acquisto delle medesime che, in quanto regolarmente iscritte nel bilancio della società, erano rimaste “nella disponibilità della persona giuridica, benché impropriamente intestate alla persona fisica del suo legale rappresentante”.
Aggiungeva che non potevano sorgere dubbi circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, punito a titolo di dolo generico. Disattendeva, infine, la prospettata preclusione di un secondo giudizio, con riferimento ai fatti di bancarotta già giudicati con la sentenza 3/5/2000 del Tribunale di Taranto, non ravvisando corrispondenza col fatto-reato oggetto del presente procedimento e ritenendo, invece, quest’ultimo, per la sua natura autonoma, semplicemente avvinto ai primi dal vincolo della continuazione.
3- Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore avv. Fr. Ca., l’imputato e ha dedotto: 1) inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 649 c.p.p., non avendo la Corte di merito considerato la natura unitaria del reato di bancarotta patrimoniale nell’ambito di una stessa procedura concorsuale e l’irrilevanza dei singoli e distinti atti distrattivi, che restano assorbiti nel disvalore dell’unico reato di bancarotta già giudicato; 2) inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli art. 521/2° c.p.p. e 216 r.d. n. 267/1942: l’attività di distrazione che assumeva rilievo era quella relativa al prelievo, in data 30/7/1992, della somma di lire 293.720.000 dalle casse della società per l’acquisto di azioni a lui intestate e non già quella relativa alla successiva vendita delle medesime in data 28/1/2000, con la conseguenza che il fatto era diverso da quello descritto nel capo d’imputazione; il detto prelevamento, in ogni caso, avendo attinto da una riserva di 14 miliardi di lire da lui posta a disposizione della società qualche mese prima, doveva ritenersi legittimo; non si era considerata, inoltre, la sua buona fede, avendo egli ricevuto dalla banca ampie assicurazioni sulla legittimità della vendita delle azioni di cui si discute, in quanto non gravate da alcun vincolo; 3) inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale, nonché manifesta illogicità della motivazione, per essersi erroneamente ritenuta provata la titolarità delle azioni in capo alla società fallita sulla base dell’iscrizione nell’attivo del bilancio, in contrasto con il chiaro disposto dell’art. 2424 c.c., che impone l’iscrizione in bilancio, come componente patrimoniale attiva, soltanto dei titoli acquistati a nome della società; 4) inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale, nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione, sotto il profilo che, pur a volere considerare le azioni come facenti parte del patrimonio della società fallita, si verserebbe nell’ipotesi di bancarotta preferenziale, in quanto, attraverso la vendita dei titoli azionari, egli si sarebbe ripagato di una minima parte del credito vantato verso la società e, in ogni caso, l’esiguità della somma ricavata dalla vendita dei titoli di asserita proprietà della società (lire 11.214.953 e non, come indicato nell’imputazione, lire 179.155.754) avrebbe imposto la concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. e delle attenuanti generiche e la conseguente declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
3a- Con atto depositato il 21/4/2010, altro difensore dell’imputato (avv. Gi. Le.) ha insistito, con articolato motivo nuovo, sul vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, individuato dalla Corte di merito nella mera oggettività dell’atto distrattivo, senza dare il giusto rilevo alla “minimalità dei titoli” di proprietà della società calcistica, essendo la maggior parte di essi pacificamente di proprietà del Do. Ca.
4- Con ordinanza 12/1/2010, la quinta sezione penale, alla quale il ricorso era stato assegnato ratione materiae, ne ha rimesso – ex art. 618 c.p.p. – la decisione a queste Sezioni Unite, rilevando, in relazione al primo motivo di ricorso, un contrasto giurisprudenziale sulla natura giuridica del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale: da un lato, la tesi della concezione unitaria del reato in esame, che ravvisa nella pluralità di fatti tipici, commessi nell’ambito della stessa procedura fallimentare, una circostanza aggravante e considera le diverse violazioni – in deroga alle norme sul concorso materiale di reati e sulla continuazione – come un solo reato, con l’effetto della operatività della preclusione di un secondo giudizio; dall’altro, la concezione pluralistica del reato, che ravvisa nei più fatti tipici descritti dalla norma incriminatrice fattispecie di reato autonome e ontologicamente diverse, le quali concorrono tra loro e sono unificate solo quoad poenam. Sottolinea l’ordinanza di rimessione che importanza centrale assume, nel rilevato contrasto di giurisprudenza, la disposizione dell’art. 219/2° n. 1 r.d. 16/3/1942 n. 267, a seconda che si ravvisi in essa la previsione di una vera e propria circostanza aggravante, sia sotto il profilo funzionale che sotto quello strutturale, o piuttosto una peculiare regolamentazione del concorso di reati e dell’istituto della continuazione, nella prospettiva di contenere entro limiti di ragionevolezza la pretesa punitiva dello Stato.
Conclude l’ordinanza di rimessione affermando che, se è razionale la scelta di politica criminale finalizzata a disciplinare in maniera peculiare il concorso di reati e a contenere il potere sanzionatorio del giudice in relazione a plurime e autonome fattispecie incriminatici in materia di bancarotta patrimoniale, non è altrettanto razionale una interpretazione della disciplina speciale che, riconducendo ad unità fatti ontologicamente diversi, ne precluda il completo accertamento ed eventualmente la punizione, ponendosi in definitiva in contrasto con la logica del sistema penale e con gli art. 3 e 112 della Costituzione.
5- Il Presidente Aggiunto, con decreto 30/3/2010, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone la trattazione per l’odierna udienza pubblica.


DIRITTO


1- E’ fondato il secondo motivo di ricorso nella parte in cui pone il problema d’individuare, con riferimento anche alla sua collocazione temporale, la condotta di distrazione posta in essere dall’amministratore unico della “Ta. Fo. Cl. spa” e integrante, per effetto della dichiarazione di fallimento della persona giuridica, il reato di bancarotta patrimoniale.
La doglianza, in questo suo specifico aspetto, assume, come si preciserà in seguito, valenza centrale e decisiva nella verifica di legittimità della decisione impugnata e non lascia spazio per l’esame di ogni altra deduzione, ivi compresa la controversa questione di diritto rimessa alla valutazione delle Sezioni Unite.
2- La sentenza in verifica, nel confermare il giudizio di colpevolezza, già espresso in primo grado, del Do. Ca. in ordine al delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ravvisa il dato fattuale di tale illecito nella distrazione a proprio vantaggio della somma ricavata dalla vendita, in data 28/1/2000 e – quindi – nel corso della procedura fallimentare, di azioni “Ba. In. spa” (rivenienti dalla riconversione di azioni “Ca.”) appartenenti sostanzialmente, pur se nominalmente intestate al predetto Do. Ca., alla società dichiarata fallita, in quanto pacificamente acquistate – il 30/7/1992 – con denaro prelevato (lire 293.720.000) dal conto corrente bancario di pertinenza della medesima società, tanto che erano state indicate nell’attivo del bilancio e l’amministratore, con nota del 22/2/1996, si era dichiarato disponibile ad adempiere le formalità necessarie per il trasferimento dei titoli alla Curatela fallimentare.
Tale ricostruzione accredita l’ipotesi della bancarotta patrimoniale post-fallimentare, dando rilievo penale alla vendita dei titoli azionari e relegando l’operazione a monte dell’acquisto degli stessi, con denaro sottratto dalle casse della società di capitali, nell’area del lecito, soltanto perché di quest’ultima operazione v’era traccia nelle scritture contabili e lo stesso Do. Ca. aveva offerto la propria disponibilità a trasferire i titoli azionari in contestazione alla Curatela fallimentare. In sostanza, la sentenza impugnata valorizza il fatto che le azioni, in quanto iscritte nel bilancio, sarebbero rimaste nella disponibilità della persona giuridica e l’atto di distrazione si sarebbe concretizzato soltanto successivamente, nel momento in cui il Do. Ca., violando ogni regola della procedura concorsuale pendente e contraddicendo la dichiarazione d’intenti di cui alla nota 22/2/1996, aveva alienato i titoli, incamerando il relativo controvalore.
Tale conclusione, però, fa velo alla dinamica dei fatti così come ricostruita dai giudici di merito e non considera che le azioni acquistate, con le indicate modalità, dal Do. Ca. nel 1992, in quanto nominativamente a lui intestate, non erano mai entrate nella disponibilità giuridica e di fatto della società da lui amministrata, e ciò per il mancato rispetto della disciplina inderogabile che ne regola il regime di circolazione (artt. 2021 e ss. c.c.), a nulla rilevando la formale – ma inesatta – iscrizione tra le poste attive del bilancio.
La condotta di depauperamento del patrimonio aziendale, posto a garanzia delle ragioni dei creditori, non può, pertanto, essere ravvisata nell’alienazione dei titoli azionari nominativi, operazione alla quale era legittimato il solo intestatario Do. Ca., ma deve essere individuata nel pregresso prelievo dal conto bancario della “Ta. Fo. Cl. spa” della somma di lire 293.720.000 utilizzata per l’acquisto, a titolo personale, da parte del Do. Ca. dei detti titoli.
E’ quest’ultima condotta che, in quanto orientata a procurare un utile economico all’agente, ontologicamente integra la “distrazione” ed esprime la diminuzione fittizia del patrimonio aziendale, attuata mediante il distacco di risorse finanziarie, destinato a impedirne o a ostacolarne l’apprensione da parte degli organi del fallimento, a nulla rilevando che delle risorse distratte sia stata lasciata traccia, con la possibilità quindi almeno in astratto – per i creditori di recuperarle per il tramite degli organi fallimentari. Nei casi di diminuzione fittizia, individuabili nella distrazione, nell’occultamento e nella dissimulazione di beni, a differenza della diminuzione effettiva del patrimonio (distruzione e dissipazione di beni), il legislatore ha inteso sanzionare chi riesce a sottrarre alcuni beni alla procedura concorsuale o semplicemente tenta di fare ciò, il che porta a concludere che il reato, con riferimento alle manovre dirette a tale scopo, si perfeziona con la dichiarazione di fallimento, elemento costitutivo del reato stesso, con la conseguenza che le successive e ulteriori iniziative non esercitano alcuna influenza sull’illecito, ormai realizzato in tutti i suoi elementi strutturali, e non determinano una sorta di progressione criminosa, che ne sposta temporalmente in avanti la consumazione. Conclusivamente, la condotta dell’imputato alla quale deve darsi, ai fini che qui interessano, esclusivo rilievo è quella esauritasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento e concretizzatasi, in data 30/7/1992, nella distrazione, a proprio vantaggio, di denaro della società amministrata, condotta che ha finito con l’assumere il carattere dell’illiceità penale, più esattamente quello della bancarotta patrimoniale prefallimentare, nel momento in cui, con la constatazione giudiziale dello stato d’insolvenza, si è accertata la lesione arrecata ai diritti dei creditori (sentenza dichiarativa del fallimento in data 1/10/1993).
3- E’ il caso di precisare che tale diversa configurazione della condotta penalmente rilevante dell’imputato non determina la violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza.
Le Sezioni Unite hanno già avuto modo di precisare che, “per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione” (cfr. sentenza 19/6/19% n. 16, ric. Di Francesco).
Nel caso specifico, non è dato riscontrare alcuna violazione del diritto di difesa, considerato che l’imputato è stato posto nella condizione di interloquire su ogni aspetto della vicenda e, anzi, ha egli stesso, attraverso la sua difesa tecnica, insistito per la diversa prospettazione del fatto nel senso esattamente coincidente con l’addebito come innanzi delineato (cfr. atto di appello e ricorso per cassazione).
Non va sottaciuto, peraltro, che l’ipotetica violazione del disposto di cui al secondo comma dell’art. 521 c.p.p. si rivela comunque recessiva rispetto alla conclusione liberatoria di cui al punto che segue.
4- La ritenuta distrazione per fini extrasociali della somma di lire 293.720.000 di pertinenza della società di capitali amministrata dal Do. Ca. è fatto già compreso, sotto i profili storico-naturalistico e giuridico, in quello più ampio (capo sub 3) oggetto della sentenza 3/5/2000 (irrevocabile il 27/6/2000) pronunciata dal Tribunale di Taranto nei confronti del predetto Do. Ca.
Ed invero, la condotta integrante l’addebito di cui in questa sede si discute risulta essere stata posta in essere dall’imputato in data 30/7/1992, con l’abusivo prelievo dal conto bancario della società della citata somma, per destinarla all’acquisto delle azioni nominative “Ca.” di cui si è detto. Tale condotta ha assunto i connotati della bancarotta patrimoniale all’atto della pronuncia, in data 1/10/1993, della sentenza dichiarativa di fallimento della “Ta. Fo. Cl. spa”.
L’analogo reato di bancarotta patrimoniale, per il quale il Do. Ca. risulta essere stato già condannato con la citata sentenza irrevocabile, è relativo alla stessa procedura fallimentare ed ha per oggetto la distrazione, sempre per fini extrasociali, di “somme di denaro prelevate dai c/c bancari intestati alla società… nel periodo… 1/7/1992-9/2/1993”, per un importo complessivo di “lire 1.305.743.641”.
E’ evidente, in difetto di elementi di segno contrario, che tra il fatto-reato già giudicato e quello in esame v’è un rapporto di continenza, nel senso che il secondo, avendo ad oggetto una parte della più ampia e identica condotta presa in considerazione dal primo, deve ritenersi incluso in quest’ultimo.
5- La riscontrata identità, per ragioni di continenza, del fatto in esame rispetto a quello già giudicato rende operativa la preclusione connessa al divieto del bis in idem di cui al secondo comma dell’art. 649 c.p.p.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio con la formula corrispondente.


P.Q.M.


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per precedente giudicato ex art. 649 c.p.p.