“D.LGS 28/2010 PIU’ LUCI CHE OMBRE”
a cura dell’Avv. MicheleAlfredo Chiariello
INDICE
- Introduzione
- Che cosa è la mediazione
- Le origini della mediazione
- Ambito di applicazione del d.lgs.28/2010
- I lati positivi della conciliazione
- Gli obblighi per l’avvocato derivanti dalla mediazione
- La professione forense e la mediazione, quale futuro?
- I punti più controversi del d.lgs. 28/2010
- “La coercizione a conciliare”
- Le conseguenze pratiche e processuali della mancata conciliazione
- Autonomia privata e l’Organismo di Conciliazione competente
- La tanto temibile, e temuta, proposta del mediatore
- Alcune fattispecie che proprio non si prestato alla procedura di conciliazione;
- La procedura di conciliazione e la tutela della privacy
- Differenze fra Conciliazione e Arbitrato;
- Rapporti tra Conciliazione e Codice del Consumo
- Considerazioni finali
In questi giorni fioriscono critiche, non di rado violente e gratuite, nei confronti di un provvedimento legislativo di enorme rilevanza e valenza, destinato, se ci sarà il successo sperato dal legislatore,a mutare radicalmente l’assetto giuridico italiano
Si tratta di un provvedimento enormemente innovativo, una rivoluzione copernicana nel nostro mondo giuridico, che promette di cambiare il volto della giustizia civile italiana e anche il ruolo di alcune professioni, in primis quella forense, e che quindi si presta facilmente a feroci critiche, ad eccezioni di incostituzionalità, da parte della schiera “conservatrice” dell’universo forense, e già si preannunciano iniziative tese alla modifica del decreto o, addirittura, alla sua abrogazione.
In realtà, a parere di chi scrive, con alcune piccole modifiche, “la rivoluzione” potrebbe essere fatta. Vediamo il perchè.
Nonostante il D.Lgs. 28/2010 sia entrato in vigore, almeno per quanto riguarda la mediazione facoltativa, da poco più di qualche mese, diversi sono gli argomenti di discussione e gli spunti di riflessione emersi, anche in relazione ai possibili sviluppi futuri, nell’attesa che, da un lato vengano a breve adottate delle misure di attuazione e, dall’altro, si entri a pieno regime con la nuova disciplina, a seguito dell’entrata in vigore (a marzo 2011) del tentativo obbligatorio di mediazione di cui all’art. 5 comma 1
Un primo merito, tuttavia, va subito riconosciuto.
Infatti, nell’imminenza dell’entrata in vigore della norma, così come nel periodo immediatamente successivo, si è registrata una crescente curiosità nei confronti della mediazione, procedura fino a pochi anni fa quasi ignorata dai più.
Di mediazione, invece, si è iniziato a parlare sempre più diffusamente, soprattutto tra i professionisti, che, oltre a manifestare interesse per le possibili prospettive correlate alla figura professionale del mediatore, hanno iniziato a vagliare le potenzialità della mediazione nella gestione del contenzioso, sia in termini di efficacia della soluzione, sia con riferimento alla maggiore snellezza e rapidità del procedimento sia, ancora, con riguardo al soddisfacimento degli interessi delle parti, ma anche, e soprattutto, per quanto riguarda le nuove prospettive riguardanti la loro professione.
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La mediazione [1] , in generale, è un istituto che, concedendo alle parti la possibilità di ricomporre autonomamente la situazione di litigiosità, aumenta il grado dell’autonomia privata, aprendo il campo ad una possibile soluzione della controversia, senza l’intervento dell’autorità giuridica, altrimenti necessario.
Questo istituto, che si pone a metà strada fra i mezzi autonomi di soluzione della lite, come ad esempio una transazione, e i mezzi eteronomi, come il processo ordinario, si caratterizza per l’obiettivo di trasformare la controversia giuridica in una controversia economica, vale a dire suscettibile di una valutazione economica.
La mediazione, riuscita, cioè quella che porta ad un accordo (conciliazione), è un mezzo autonomo di risoluzione delle controversie, perché l’accordo è certo il risultato di una libera volontà espressa dalla parti, ma è anche un mezzo eteronomo perché sebbene il mediatore non sia un giudice, e quindi non possa jus-dicere, il suo intervento si rende necessario, anche solo in funzione maieutica, cioè di emersione del conflitto e della sua soluzione, per risolvere la controversia fra le parti.
Nella previsione legislativa, questo istituto dovrebbe portare, da qui a qualche anno, ad una notevole diminuzione del futuro contenzioso giuridico, producendo un corrispondente effetto deflattivo. Sarà proprio così? Per capire le potenzialità di questo istituto, di questa “nuova rivoluzione copernicana”, dei suoi pregi e dei suoi difetti, è necessario fare una sua approfondita analisi, partendo dalla sua origine storica
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La scelta del legislatore italiano del 2010 di introdurre questa riforma “epocale”, sebbene, come vedremo, sia stata spinta dalla Comunità Europea, trova qualche sua traccia in alcuni precedenti legislativi italiani, ma trova la sua origine in una cultura giuridica davvero distante dalla nostra, cioè quella anglosassone e americana, che da sempre ha spinto verso metodi di composizione della lite in atto, “alternativi rispetto al processo ordinario”.-
Infatti, anche l’acronimo “Adr (alternative dispute resolution)”, utilizzato per indicare tutti quegli strumenti di ricomposizione della lite, diversi dal ricorso al potere giurisdizionale, tradisce la sua evidente origine americana; con il predetto acronimo si indicano “l’insieme degli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi al procedimento giurisdizionale ordinario, la cui caratteristica principale è quella di essere modelli sostanziali di risoluzione della lite, diversi dai modelli statali processuali di risoluzione delle controversie e che si caratterizzano per la loro elasticità, confidenzialità ed informalità”–
Le Adr sono nate negli anni ’70 in America e si sono sviluppate in Europa solo nell’ultimo decennio, basti pensare alle numerose raccomandazioni approvate dalla Commissione Europea in tema di risoluzione consensuale delle controversie in materia di consumo, da ultimo quella in data 21 maggio 2008 n. 52 (relativa a determinati aspetti delle mediazione in materia civile e commerciale), che ha introdotto l’obbligo per gli Stati Membri di regolare uniformemente la disciplina delle controversie in materia civile e commerciale entro il 21 maggio 2011 e che, poi, ha dato luogo, anche nel nostro Ordinamento, attraverso il d.lgs 28/2010, all’istituto della mediazione, come strumento alternativo rispetto a quello puramente processuale.-
Come detto sopra, tuttavia, il nostro Ordinamento giuridico non era nuovo a questo tipo di “misure alternative di risoluzione della controversia”; a titolo esemplificativo è sufficiente ricordare il tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto quale condizione di procedibilità della domanda, avanti all’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, propedeutico all’introduzione delle controversie in materia agraria; il tentativo obbligatorio prodromico all’introduzione delle controversie in materia di lavoro, previdenza ed assistenza obbligatoria; il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto nell’ambito della disciplina della subfornitura nelle attività produttive; il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto in materia di telecomunicazioni; la «procedura di composizione extragiudiziale per la risoluzione delle controversie in materia di consumo; la mediazione penale minorile e adulta, la mediazione familiare [2] , che, facendo riferimento alle prime esperienze di mediazione statunitensi e francesi sorte negli anni ’80, hanno dato vita a un vero e proprio “modello di mediazione sociale italiana”, caratterizzato in particolare dall’adozione del modello formativo “umanistico”, dalla dimensione pubblica dell’intervento, ed infine la conciliazione societaria, ora abolita.-
Senza dimenticare l’art 321 c.p.c., che prevede la conciliazione in sede non contenziosa, una funzione prima esercitata dal vecchio Conciliatore ed ora dal Giudice di Pace.-
Insomma, la più recente legislazione italiana, ma non solo, sembra prevedere, e favorire, una vera e propria “fuga” dal processo ordinario, introducendo tanti strumenti alternativi di risoluzione delle controversie.-
Chiudendo su questo punto, è giusto affermare che la nuova conciliazione trova i suoi principi ispiratori nella disciplina comunitaria e nei precedenti legislativi sopra indicati, nonchè, di riflesso, nella tradizione anglosassone – americana, con una differenza notevole.-
Infatti, solitamente, nella tradizione anglosassone americana, si è soliti parlare di modello di adr “puro” in quanto “electa una via non datur recursus ad alteram”, cioè, viene preclusa la possibilità, successiva alla mediazione, di rivolgersi al sistema ordinario (processuale) di risoluzione delle controversie (nota eccezion fatta per la impugnazione della decisione finale della mediazione davanti ad un Giudice ordinario); invece, come vedremo, il d.lgs 28/2010 non esclude la possibilità di ricorrere, successivamente alla fase della mediazione, alla giustizia ordinaria.-
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AMBITO DI APPLICAZIONE DEL D.LGS. 28/2010
Il decreto è diviso in cinque grandi sezioni; il primo capo è intitolato alle disposizioni generali, dedicato alla definizione dei significati dei termini utilizzati; il secondo capo descrive il procedimento di mediazione, l’accesso, i rapporti con il processo giudiziario, la durata, gli effetti, tra i quali quelli sulle spese del giudizio e gli obblighi del mediatore; il terzo si occupa degli organismi di mediazione; il quarto delle disposizioni fiscali e informative e il quinto ed ultimo capitolo, è intitolato alle abrogazioni e alle disposizioni transitorie.-
Il legislatore nel decreto d.lsgs 28/2010 ha sciolto un perenne dubbio sull’uso indistinto, e reciproco, dei sostantivi conciliazione e mediazione; si evince subito che il legislatore non ha voluto introdurre due distinti istituti, ma un unico istituto chiamato mediazione, che ha come scopo quello della conciliazione.-
L’art. 1 del decreto traccia il confine netto tra conciliazione e mediazione, assegnando alla mediazione il significato di attività svolta da un terzo imparziale e finalizzata al raggiungimento di un accordo o, in caso di fallimento dell’accordo, finalizzata alla formulazione di una proposta; il mediatore è colui, che da solo nella mediazione svolge l’attività finalizzata all’accordo delle parti in lite o alla formulazione della proposta in caso di mancato accordo, senza avere mai il potere, né il dovere, di decidere la controversia e, dunque, di attribuire torti e ragioni.-
Con il termine di conciliazione invece si definisce solo l’atto, cioè l’esito che conclude positivamente tutta o parte della controversia; non è da escludersi, infatti,
che lo svolgimento della mediazione sfoci in un accordo parziale o, in subordine e come risultato minimo, in un mancato accordo, che potrà essere servito ad un chiarimento reciproco delle parti, che fino a quel momento, con ogni probabilità, avevano chiuso ogni comunicazione tra loro o avevano delegato la gestione del loro conflitto ai rispettivi legali.-
Per meglio comprendere il valore della conciliazione esiste un famoso aneddoto, che pure conosce svariate versioni, tratto dalla «Scuola di Negoziazione» di Harvard: “Due bambine litigano per aggiudicarsi l’unica arancia rimasta in dispensa. L’una: «Spetta a me, perché l’ho presa per prima!» e l’altra: «No! Spetta a me perché io sono la più grande!». La madre, per sedare la lite, interviene, proponendo di tagliare l’arancia in due parti perfettamente uguali e di darne metà a ciascuna. Le bambine non sono soddisfatte: ognuna di loro vuole tutta l’arancia e non può cederne neanche un pezzo. La nonna, che ha osservato attentamente la scena, decide di chiedere ad ognuna delle bambine perché realmente vogliono l’arancia. Una delle due dice di aver sete e di volerla spremere per berne il succo. L’altra dice che vuole grattugiarne la buccia per fare una torta. La nonna allora, spreme la polpa, perché la più piccola ne possa bere il succo e grattugia la buccia dell’arancia, affinché l’altra possa usarla per fare la torta. Entrambe le bambine sono soddisfatte e finalmente torna la pace. Analizzando l’aneddoto dell’arancia, emergono spunti molto interessanti, che danno modo di comprendere a fondo il reale valore della conciliazione rispetto alla trattativa diretta e al giudizio. La trattativa diretta tra le due bambine non permette di risolvere la questione dell’arancia. Le due bambine infatti non provano neanche ad ascoltarsi, ma pensano solo a cercare di far valere i propri diritti. Neanche la soluzione proposta dalla madre (che potrebbe essere paragonata alla sentenza di un tribunale) è efficace, in quanto è imparziale e potrebbe anche sedare la lite, ma non riesce a soddisfare a pieno né l’una né l’altra bambina. L’intervento della nonna (paragonabile a ciò che fa il conciliatore), invece, riesce ad essere efficace e a dare soddisfazione ad entrambe le bambine. La nonna investiga sui reali motivi, che spingono le due contendenti a volere l’arancia. In questo modo, sposta il fulcro della disputa dalle rigide posizioni del «muro-contro-muro» agli interessi sottostanti. Tutte due le bambine sono soddisfatte e, soprattutto, ciascuna di loro è soddisfatta al 100%”.-
La scelta semantica, fatta da legislatore, riprende la traduzione letterale dell’espressione anglosassone “mediation”, conformemente a quanto “raccomandato” dalla direttiva comunitaria, e costituisce una rottura con l’uso precedente del sostantivo mediazione, che veniva inteso come procedimento diretto alla soluzione della controversia, ma anche come tipico contratto ex art. 1754 c.c..-
La mediazione, come indicato nella relazione illustrativa al decreto, può essere sia “facilitativa”, che “aggiudicativa”; nella stessa relazione viene espressa la preferenza accordata dal legislatore verso la mediazione facilitativa, a scapito di quella aggiudicativa.-
V’è differenza teorica e pratica tra mediazione facilitativa e valutativa o, come viene definita nel decreto, “aggiudicativa”.-
Nella prima, il mediatore agisce da mero catalizzatore della negoziazione delle parti, rimanendo imparziale sempre, dall’inizio dell’incontro fino alla fine, mentre nella seconda il mediatore formula una proposta al termine dell’incontro, dunque in un momento nel quale, probabilmente, è ormai pregiudicata la possibilità di un accordo, sempre mantenendosi imparziale e neutrale, oltre che indipendente.-
Gli organismi sono i soggetti, enti pubblici o privati, presso i quali si svolgono i procedimenti di mediazione ai sensi del decreto.-
La scelta operata dal Legislatore è per la procedura di conciliazione amministrata; per attribuire dunque alla conciliazione gli effetti stabiliti dal decreto e perché le parti possano avvalersi dei vantaggi fiscali dell’accordo, le parti non potranno rivolgersi a conciliatori liberi professionisti o ad enti, che non siano organismi di conciliazione, iscritti nell’apposito registro ministeriale, ma dovranno necessariamente esperire la procedura presso un organismo di mediazione registrato e avanti ad un mediatore professionale, che esercita la sua attività presso quell’organismo.-
La scelta in favore della mediazione amministrata è evidentemente considerata quella che dà maggiori garanzie di regolare funzionamento del nuovo meccanismo preliminare all’azione giudiziaria.-
È tuttavia, facilmente, prevedibile che, specie in fase iniziale, tutto il meccanismo sarà sottoposto ad uno sforzo organizzativo, tale che ne metterà a dura prova il regolare funzionamento nel prescritto termine di quattro mesi.-
Il decreto 28/2010 si riferisce espressamente alla mediazione civile e commerciale; questo vuol dire che, di conseguenza, sono escluse dal suo ambito di applicazione le questioni attinenti il settore penale e tributario, nonchè in parte quello amministrativo; tuttavia in caso di rapporti di diritto privato tra privati e p.a. sarà applicabile.-
L’obiettivo manifestato dal legislatore è quello di cercare la diffusione di queste soluzioni alternative, a scapito del ricorso, qualche volta anche ingiustificato, alle cure del giudice ordinario.-
Infatti, la volontà delle parti di incontrarsi fuori da un’aula giudiziaria, affidando al mediatore un ruolo importante nella definizione della controversia, non ha nulla a che vedere con il carattere, altamente conflittuale, del contenzioso ordinario.-
Qui di seguito vengono analizzati alcune questioni attinenti alla nuova procedura di conciliazione, prima fra tutte quella della disponibilità della procedura.-
Come evidenziato dal Prof. Lotario Dittrich [3] , il decreto legge in esame introduce il cosiddetto doppio binario per l’accesso alla mediazione, distinguendo le controversie per le quali il procedimento della mediazione è solo facoltativo, da quelle per le quali il procedimento di mediazione è obbligatorio, anzi costituisce una condizione di procedibilità della domanda stessa, al quale va aggiunto un terzo tipo, vale a dire la mediazione sollecitata dal giudice, un procedimento stragiudiziale, ma endoprocessuale, nel senso che l’attività di mediazione viene svolta da un organismo non giudiziale, ma su sollecitazione del giudice, davanti al quale già pende la controversia.-
La mediazione obbligatoria (extragiudiziale) è prevista dall’art. 5, comma 1, per tutte le seguenti materie: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da circolazione di veicoli e natanti, responsabilità medica, diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.-
In sostanza il legislatore ha travasato nella nuova procedura l’esperienza (positiva?) del tentativo obbligatorio di conciliazione nel rito del lavoro, prevedendo, ugualmente, il tentativo come condizione di procedibilità (e non di proponibilità della domanda), ma tuttavia, introducendo una notevole differenza: infatti mentre nel rito del lavoro il mancato tentativo di conciliazione produce una sospensione del processo, nella nuova procedura della mediazione, il mancato tentativo di conciliazione produce un semplice differimento dell’udienza, in attesa che il tentativo venga esperito.-
Negli altri casi, cioè in quelli per i quali la conciliazione non è obbligatoria, nulla vieta (anzi!) che le parti decidano spontaneamente di rivolgersi ad un organismo di mediazione, al posto (o prima) di rivolgersi al giudice o addirittura durante il giudizio; infatti le parti possono esprimere la loro volontà di conciliare sia, naturalmente, dopo dell’insorgere della controversia, sia durante la pendenza del relativo giudizio, sia, addirittura, anche prima della eventuale insorgenza della lite, prevedendo apposite clausole statutarie o compromissorie.-
Da ultimo, c’è il richiamato terzium genus della mediazione: quella demandata dal giudice.-
Infatti, il giudice, valutata la natura della causa, lo stato della istruzione e il comportamento della parti, può invitare le stesse a tentare la mediazione, questo, addirittura anche in grado di appello; l’unico sbarramento temporale è rappresentato dalla udienza di precisazione delle conclusioni, che rappresenta l’ultima occasione per il giudice di “invitare le parti a conciliare”.-
La seconda questione riguarda l’elenco della materie.-
Nel d.lgs. 28/2010 appare oltre modo ampio, e forse anche troppo eterogeneo, l’elenco della fattispecie litigiose per le quali viene previsto come obbligatorio il tentativo di conciliazione: sono ricomprese le controversie in materia di condominio, locazioni, comodato, affitto di azienda, diritti reali, divisioni, successioni ereditarie, patti di famiglia, risarcimento danni da responsabilità medica e assicurativa (punto che merita una analisi specifica e che verrà esaminato dopo), e diffamazione a mezzo stampa, contratti assicurativi, bancari e finanziari.-
Qualcuno [4] ha definito questa operazione del legislatore “come una scelta a casaccio”.-
Questo coacervo di materie trova, forse, la sua giustificazione nell’utilizzo dei criteri adottati per l’individuazione della materie da ricomprendere.-
I criteri utilizzati sono stati quelli del “rapporto permanente”, basti pensare ai rapporti di condominio, il legame “endo familiare o endo sociale”, basti pensare alle vicende riguardanti le successioni o diritti reali, il criterio “della alta conflittualità”, come ad esempio nel caso di responsabilità medica ed, infine, il criterio della “diffusione di massa”, come ad esempio per alcune tipologie contrattuali bancarie e finanziarie.-
Nella legge, precisamente all’art. comma 4, sono elencati una serie di procedimenti per i quali è, aprioristicamente, escluso il ricorso alla mediazione; si tratta di situazioni nella quali un preventivo tentativo di conciliazione potrebbe trasformarsi in una ipotesi di “giustizia ritardata”, o meglio “denegata”, come ad esempio le ipotesi dei procedimenti sommari, le cui caratteristiche strutturali e funzionali sarebbero incompatibili con l’istituto della mediazione.–
Una evidente dimenticanza del legislatore del 2010 riguarda il richiamo alla procedura di sommaria cognizione previsto ex art. 702 bis c.p.c..-
Di questo particolare procedimento sommario di cognizione, caratterizzato da una certa velocità e semplicità istruttoria, applicabile solo ad alcune materie di competenza del giudice monocratico, non vi è traccia nel d.lgs 28/2010.-
Quindi cosa succede per le materie rientranti sotto l’alveo dell’art. 5 del decreto legge in esame e che, contemporaneamente, rientrano anche nella competenza del giudice monocratico?
Nel silenzio della legge, la soluzione più opportuna sembrerebbe essere quella dell’esperimento obbligatorio del tentativo di conciliazione, in quanto questo procedimento, previsto dall’art. 702 bis c.p.c., non è caratterizzato né dal “periculum in mora”, né dal “fumus boni iuris”, elementi tipici dei ricorsi d’urgenza, esclusi, quelli si, dallo stesso legislatore dalle materie, per cui il tentativo di conciliazione è previsto come obbligatorio.-
La quantità e l’eterogeneità delle materie non ne consente una ben chiara individuazione dei confini, ragion per cui sarà consigliabile, nel dubbio, al fine di evitare eccezioni o rilievi d’ufficio di improcedibilità dalla causa, esperire la procedura di mediazione anche nei casi dubbi: ad esempio, il decreto legislativo in esame indica come rientrante nella fascia obbligatoria la materia del condominio e dei diritti reali, quindi viene da chiedersi se sia sufficiente che una qualunque controversia (civile, naturalmente) tra soggetti appartenenti ad uno stesso condominio rientri nell’obbligatorietà del tentativo o debba essere preceduta dalla mediazione o possa, in alcuni casi, sfuggire al filtro.-
Nel dubbio, e in attesa di quale spunto giurisprudenziale, appare preferibile l’esperimento del tentativo.-
La terza questione riguarda le regole del procedimento di mediazione.-
Il procedimento (rectius il rito, il modo) presenta un doppio contenuto; infatti, se da un lato il procedimento si caratterizza per la mancanza di formalità, dall’altro è caratterizzato per la presenza di regole rigide e severe, che devono garantire la libertà delle parti e l’imparzialità del mediatore.-
Analizzando il primo aspetto, quello della mancanza di regole fisse, si evince subito che, nel decreto in esame, non viene stabilito nessun criterio di competenza territoriale o per materia, che sarebbe stato utile per individuare l’organismo di conciliazione competente.-
In questo modo alle parti (rectius all’autonomia privata che, come detto, è la vera protagonista di questo nuovo istituto) viene riconosciuta la più assolta libertà di scelta, investendo, singolarmente o di comune accordo, l’organismo di conciliazione preferito. Questa sorta di forum shopping, tuttavia, si presta a critiche, che verranno evidenziate nel proseguo di questa analisi.-
Secondo il nuovo dettato normativo, gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a rigorose formalità e che, addirittura sia possibile, e questo sarà spunto di una riflessione a breve, la proposizione anche attraverso il ricorso a modalità telematiche.-
Altro aspetto riguarda la cosiddetta iper-attività procedimentale che introduce, anche in questo istituto, delle rigide regole formali che le parti devono rispettare.-
Per alcuni questi vincoli procedurali imposti alle parti, e il relativo apparato sanzionatorio in caso di fallimento della composizione conciliativa della lite, ricondurrebbero l’istituto in esame ad “un mero adempimento formale” da espletare prima della proposizione della domanda giudiziale.-
I sostenitori della tesi della “eccessiva procedimentalizzazione della procedura di mediazione” fondano il proprio orientamento sui vincoli imposti alle parti, sulle valutazioni di merito che possono essere fatte, sul riconoscimento dei diritti, sull’attribuzione di torti, sulla possibilità di avvalersi di consulenti tecnici; insomma, non ci sarebbe nulla di diverso rispetto ad un qualsiasi processo ordinario, anzi, tutte queste attività, mutuate proprio dal processo ordinario, potrebbero far correre il rischio di “congelare”, o almeno di rallentare, il meccanismo della mediazione, che, almeno nell’intenzioni del legislatore, deve diventare un velocissimo mezzo di risoluzione delle controversie.-
A parere di chi scrive, questa attribuzione alla mediazione di una caratteristica analoga a quella del processo ordinario non è del tutto esatta.-
Infatti, come più volte verrà ribadito, nell’istituto in esame, il mediatore deve cercare di favorire l’emersione dei reciproci interessi e l’incontro conciliativo; la sua decisione non potrà basarsi (solo) su norme di diritto, quanto, piuttosto, sulle reciproche posizioni delle parti, ma soprattutto occorre sottolineare che la mediazione può avere ad oggetto qualcosa, che l’eventuale processo ordinario non potrebbe mai avere: ad esempio, il mediatore può proporre una conciliazione che coincida solo in minima parte con l’oggetto della istanza, si pensi ad una parte che potrebbe rinunciare ad una parte del credito (o del diritto), perché in cambio gli viene offerto un nuovo contratto, una nuova opportunità di lavoro, un nuovo guadagno (ecco cosa si intende dire quando si usa l’espressione “la mediazione cerca di guardare al futuro della controversia e non al passato”); una simile cosa nel processo ordinario non si potrebbe verificare, causa il vizio di extra (o ultra) petizione, secondo quanto previsto dall’art. 112 del c.p.c..-
Il legislatore ha voluto creare una netta indipendenza tra mediazione ed eventuale processo, un esempio su tutti può essere quello della inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in mediazione nell’eventuale processo ordinario, e l’adozione di alcune regole “processuali” non può attenuare questa evidente differenza strutturale, funzionale, ma anche eziologica, tra mediazione e processo ordinario.-
Il quarto punto riguarda i termini di prescrizione e decadenza.-
E’ conoscenza comune che per esercitare alcuni diritti esistono dei termini temporali, che non possono essere derogati o rinviati; quale è il rapporto di questi termini con la procedura di mediazione?
Punto di partenza deve essere la presentazione della domanda di mediazione.-
Con la presentazione dell’istanza (rectius con la comunicazione alle altre parti e con il suo deposito) si producono effetti sostanziali ed effetti processuali.-
Sotto il primo aspetto, la domanda di mediazione determina, allo stesso modo della domanda giudiziale, l’interruzione della prescrizione ai sensi dell’art. 2943; parimenti, come recita la legge “per una sola volta”, impedisce anche la decadenza”, vale a dire che, se il tentativo fallisce, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal deposito del verbale, come previsto dall’art. 11 del decreto in esame-.
Sotto il secondo profilo, la presentazione dell’istanza (si precisa ancora una volta, la comunicazione e il suo deposito) produce l’insorgere della litispendenza e anche la decorrenza del termine massimo di quattro mesi, previsto inderogabilmente dalla legge, per la conclusione del procedimento di mediazione.-
Sempre sotto l’aspetto processuale è lo stesso d.lgs 28/2010, precisamente all’art. 7, a precisare che la durata delle mediazione, come detto sopra al massimo pari a quattro mesi, non può essere computato ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo e consequenziale applicazione della legge 89/2001, meglio conosciuta come Legge Pinto, per la corrispondente richiesta di risarcimento danni allo Stato.-
Qualche perplessità sulla costituzionalità di tale misura vi è, tenuto conto che questo iter della mediazione è obbligatorio e le parti, nelle cause aventi ad oggetto le materie del presente dlgs 4 marzo 2010, n. 28, non possono sottrarsi e ricorrere direttamente al giudice; l’incostituzionalità potrebbe profilarsi, perché la legge Pinto (legge 89/91, art. 2) recepisce un accordo internazionale ratificato anche dall’Italia, cioè la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che anche sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole prevede il diritto ad una equa riparazione.-
Anche sotto l’aspetto pratico la misura di legge non convince: infatti, appare non comprensibile “costringere” le parti a differire di quattro mesi il ricorso al giudice, quindi di aspettare almeno altri quattro mesi, prima di dare inizio ad un giudizio, senza che questo periodo di tempo sia conteggiato per la ragionevole durata del processo.-
Ricapitolando sul punto: in fase di mediazione, la prescrizione è interrotta e sospesa, ed eventualmente ricomincia a decorrere dal termine della procedura; il termine di decadenza inizia a decorrere ex novo, e per l’intero, al termine della procedura di mediazione, qualora si verifichi un fallimento della stessa procedura.-
E’ evidente che il legislatore ha utilizzato la disciplina, in materia di prescrizione e decadenza, già applicata nella disciplina della conciliazione societaria a cui si rinvia, ora abolita dallo stesso decreto legge in esame; interessante, invece, appare un confronto con il rito del lavoro, dal quale il legislatore del 2010 sembra tratta ispirazione per alcuni punti: infatti, l’art. 410, comma 2 c.p.c., in riferimento alla prescrizione è previsto solo l’effetto interruttivo, e non anche quello sospensivo, in riferimento al termine di decadenza è previsto solamente l’effetto sospensivo, il che vuol dire che, se fallisce il tentativo di conciliazione, all’interessato resta solo il termine residuo.-
La quinta questione riguarda la riservatezza della procedura.-
L’art. 10 del d.lgs. 28/2010 prevede che le dichiarazioni ed informazioni, raccolte durante la procedura di mediazione, non possono essere utilizzate, in nessuna maniera, salvo espresso diverso accordo, nell’eventuale giudizio ordinario.-
Infatti, alla mediazione, rectius ai soggetti vi che partecipano, come figure professionali, alla mediazione si estendono le disposizioni riguardanti il segreto professionali, così come previsto dall’art. 200 del c.p.p.-
Questa scelta, davvero apprezzabile del legislatore, consente, anche psicologicamente, alle parti in causa, nella mediazione, di aprirsi, di manifestare i propri pensieri al mediatore, e tutto ciò in maniera libera, senza temere ripercussioni o utilizzi inappropriati e distorti delle proprie dichiarazioni, speranze e aspettative.-
Tuttavia, c’è da fare una precisazione: l’art. 10 del D.Lgs. 28/10, infatti, consente l’utilizzazione in giudizio delle informazioni acquisite durante il procedimento di mediazione, se sussiste il consenso della parte dichiarante.-
Questa scelta del legislatore nazionale si pone in contro tendenza rispetto agli altri paesi europei: infatti, le normative internazionali, sul punto, hanno sempre garantito l’assoluta inutilizzabilità delle informazioni acquisite in fase di mediazione, anche in presenza del consenso delle parti, tutto ciò per aumentare le potenzialità risolutive dell’incontro tra le parti senza remore o preoccupazioni, anche eventuali.-
Da ultimo, per questa fase iniziale, occorre soffermarsi sulla figura del mediatore.-
Questa figura professionale, così come rinnovata dalla legge, presenta dei caratteri particolarmente interessanti.-
Il mediatore è un soggetto, particolarmente qualificato, che in base ad un contratto d’opera intellettuale si obbliga a svolgere una certa attività ed acquisisce, anche in caso di fallimento della procedura, il diritto ad ottenere la relativa indennità economica.-
Come sostenuto da una autorevole autore [5] : “La cultura della mediazione passa anche dal suo impegno e dalla sua competenza, che sono legati certo al diritto e all’economia, ma che possono prescindere ampiamente da essi, interpretando la disposizione codicistica o comunque normativa a seconda del fatto concreto, quindi senza il rischio di creare un precedente. Il mediatore, che, al pari dell’avvocato, si trova dinanzi ad una persona, ad un problema, deve quindi avere anche doti spiccate di psicologo, evitando che la lite diventi conflitto e poi guerra, quindi rottura insanabile. Egli deve gestire al meglio la procedura, individuando i reali interessi delle parti in gioco, le cause del dissidio, e soprattutto valutando timori ed emozioni delle parti stesse. Deve utilizzare domande aperte e domande chiuse, deve cercare di far mettere una parte nei panni dell’altra (domanda circolare), analizzando quattro elementi: percezioni, emozioni, comunicazioni, stabilendo relazioni tra i contendenti. In questo senso, o tenta di accordare le parti (mediazione facilitativa) o si esprime fornendo una soluzione (conciliazione aggiudicativa). Deve crearsi comunque, tra mediatore e parti, un rapporto fiduciario, che permetta a tutti di esprimersi, e negli incontri congiunti e, eventualmente negli incontri separati che il mediatore potrà avere con le singole parti. Il rapporto fiduciario nasce innanzitutto nella capacità del professionista di saper ascoltare le parti senza giudicarle, quindi nella relazione che esso stabilisce con le persone che ha dinanzi e poi con il loro problema. In questo senso, poi, un ruolo peculiare assume il quasi dogma delle riservatezza e della segretezza del procedimento conciliativo, le cui informazioni rese non possono essere utilizzate nel successivo eventuale procedimento in Tribunale, se non nei limiti di quanto voluto e stabilito dalle parti. Il concetto di riservatezza rimanda certamente all’intero apparato normativo che concerne il codice in materia di protezione dei dati, e qui coinvolge sia il personale di segreteria presso cui la domanda di conciliazione deve essere presentata sia il conciliatore medesimo, quale trattante i dati medesimi dei soggetti. Il mediatore, infatti, non può poi essere chiamato a deporre in un successivo giudizio, il che dovrebbe fungere da stimolo maggiore alle parti per aprirsi e cercare una soluzione conciliativa. La non necessità del Tribunale, poi, è espressa dal fatto che il verbale di conciliazione può essere adempiuto direttamente dalle parti”.-
Occorre ribadirlo: il mediatore non è un giudice; di conseguenza non è dotato di potere di “jus dicere” e non può emettere decisioni vincolanti per le parti.-
Egli è dunque privo di ogni potere decisorio o coercitivo in merito alla controversia che possa essere paragonato ad una sentenza; egli promuove, “favorisce”, una ipotesi di accordo, alle quali le parti sono libere o meno di aderire, salvo pagarne le conseguenze in alcuni casi, come si vedrà fra poco.-
Il mediatore deve trovare la soluzione della lite secondo una prospettiva facilitativa, e non valutativo aggiudicativa; questo vuol dire che mentre il giudice forma la sua decisione applicando norme di diritto, attribuendo alle parti il torto e la ragione, il mediatore non deve accertare quale è il diritto nel caso concerto, ma deve cercare di fare emergere i contrapposti interessi delle parti, suggerendo soluzioni per il conflitto, che guardino al futuro, ad esempio nuovi rapporti fra le parti, e non al passato, risolvendo situazioni ormai definite.-
Infatti, le parti potrebbero con il loro accordo creare nuovi rapporti, modificare quelli già preesistenti o addirittura estinguerli: fra le parti, quindi, potrebbe venire a realizzarsi quell’accordo novativo previsto codicisticamente.-
Nell’esercizio delle sue funzioni il mediatore è tenuto alla imparzialità, alla neutralità e alla indipendenza.-
Possiamo, infine, definire il mediatore quasi una sorta di psicologo del conflitto, che con gli strumenti a sua disposizione, primo fra tutti quello dell’ascolto attivo, cioè una particolare predisposizione ad ascoltare i rispettivi punti di vista delle parti in conflitto, elaborando contemporaneamente un modo di risoluzione della controversia o cercando di fare emergere direttamente dalle parti, magari facendo uso anche di mezzi di persuasione, una via di uscita dal conflitto.-
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I LATI POSITIVI DELLA CONCILIAZIONE
La trattazione dei lati positivi delle nuova procedura di conciliazione sarà piuttosto breve; non perché il nuovo Istituto non ne abbia, ma perché verranno ripresi alla fine di questa analisi nel paragrafo “Considerazioni Finali”, e , in questa sede, si preferisce fare una analisi degli aspetti problematici della nuova procedura.-
Considerato che la funzione della mediazione è quella di ridurre il carico giudiziario, i vantaggi, la sua capacità attrattiva, deve essere individuata nella sua maggiore velocità, flessibilità ed economicità rispetto al tradizionale giudizio. La mediazione è più veloce, perchè, come prevede lo stesso decreto, non può durare più di quattro mesi.-
E’ più flessibile perchè, come abbiamo visto, non ci sono (molte) regole processualizzate, se non quella a tutela della riservatezza e segretezza del procedimento, oltre che di neutralità, indipendenza e imparzialità del conciliatore; poi il procedimento in esame è più economico, perchè la legge ha previsto delle agevolazioni fiscali per le parti che scelgono la mediazione e conciliano.
Inoltre potrebbe costituire una ottima possibilità professionale per gli avvocati e non solo.-
Se si considera che circa un milione l’anno di controversie dovranno passare il filtro della mediazione, se si considera che molte di queste controversie avranno una tipologia molto più complessa rispetto alle cause di lavoro; se si considera, altresì, che esistono già molti organismi di conciliazione e tanti ne verranno creati, la creazione di nuovi posti di lavoro o di possibilità professionali può essere un altro di punti di forza di questo decreto, da accettare di buon grado.-
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Gli obblighi per l’avvocato derivanti dalla mediazione.-
All’atto del conferimento dell’incarico l’avvocato è obbligato ad informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione de quo e delle agevolazioni fiscali, di cui agli articoli 17 e 20 del relativo decreto.-
Questo obbligo sorge non solo nei casi di mediazione volontaria, ma anche, e soprattutto, nei casi in cui la mediazione è obbligatoria.-
L’informazione (informativa) deve essere redatta per iscritto e chiaramente. Il documento, sottoscritto dal difensore mandatario, deve essere allegato all’atto introduttivo (o di costituzione, se si tratta di parte convenuta) del successivo, eventuale, giudizio.-
La sanzione per l’omessa informativa è l’annullabilità del contratto concluso tra avvocato e cliente.-
La formulazione originaria del decreto prevedeva addirittura la nullità del contratto professionale, con tutte le conseguenze del caso, prima fra tutte il mancato pagamento all’avvocato della sua prestazione professionale, che pure era stata prestata.-
La sanzione prevista nel testo definitivo, sollecitata dall’evidente malcontento crescente negli ambienti forensi e dall’anatema del Cnf, tuttavia, non produce effetti sulla validità del mandato professionale, in quanto non viene meno lo jus postulandi.-
Questa lucida, apprezzabile e condivisibile, scelta del legislatore ha evitato che una norma posta a favore della parte, cioè quella del diritto ad essere informati sulla procedura alternativa, diventasse, di fatto, una norma contro la stessa parte, sottraendole il patrocinio del suo avvocato.
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La professione forense e la mediazione, quale futuro?
La nuova procedura di mediazione, probabilmente, cambierà sotto alcuni spetti la professione forense e la funzione dell’avvocato.-
Premessa indispensabile è che nella mediazione le uniche figure (oltre il mediatore, naturalmente) assolutamente indispensabili, e personalmente presenti, sono le parti; senza le parti, senza anche una sola delle parti, la conciliazione deve ritenersi fallita; conseguenza del tutto opposta si ha nel caso in cui non siano presenti gli avvocati delle parti, in quanto l’assistenza degli avvocati non è considerata obbligatoria.
Questa, a parere dello scrivente, è un’altra, forse la più grave, delle lacune presenti nel d.lgs 28/2010.-
Naturalmente, pur non essendo obbligatoria, cioè non prevista come tale dalla legge, la presenza degli avvocati è altamente consigliabile.-
Si pensi ad esempio ad alcune materie nelle quali si rende necessaria la discussione di questioni di diritto, anche molto sottili e delicate, magari di rilevante valore, alle quali un avvocato potrebbe fornire più adeguata difesa alla parte presente all’incontro, specie se la controparte è assistita da un proprio difensore; in questo caso si verificherebbe, paradossalmente, una situazione di palese disparità e quindi è altamente auspicabile, che nel caso in cui una parte non si mostri ben consapevole dei suoi diritti, il mediatore, non potendo in alcun modo fornire consulenza legale ad una delle parti, pena la perdita dell’imparzialità e violazione del relativo obbligo, potrà sospendere l’incontro e consigliare la parte, che ne è sfornita, di munirsi o almeno di consultarsi con un avvocato.-
Alcuni, diversamente, affermano che la presenza dell’avvocato, oltre che inutile, sarebbe addirittura contraria alla stessa essenza della mediazione: infatti, secondo l’impostazione giuridica del nostro ordinamento, la difesa tecnica è ammissibile solo in un “momento giurisdizionale” e, quindi, non essendo la mediazione un “momento giurisdizionale”, non sarebbe (in linea teorica) ammessa la difesa tecnica.-
Opinione non condivisibile, anche alla luce di un’altra circostanza.-
L’assenza del legale nella fase della conciliazione pregiudicherebbe una sua compiuta conoscenza dell’andamento della vicenda il quale, e nel caso in cui il procedimento si concluda negativamente, non potrebbe, in seguito, adeguatamente assistere il suo cliente, soprattutto per quanto riguarda il rifiuto della proposta conciliativa, che potrebbe comportare una successiva condanna aggravata.-
Ed allora il paradosso è evidente: da un lato l’insufficienza della risposta di giustizia da parte dello Stato viene addossata in parte sul cittadino chiamato a “conciliare” le sue pretese e dall’altro sugli Avvocati che, dopo aver informato il cittadino/cliente della possibilità di conciliare, tramite il pagamento della tassa di iscrizione all’ordine di appartenenza, contribuiscono ad apprestare l’organismo di conciliazione salvo, poi, non trarne alcun beneficio né in termini economici né in termini professionali, essendo esclusi dalla partecipazione al procedimento; di qui la lettura, spiritosa, ma potenzialmente vera, dell’acronimo Adr non più come Alternative Dispute Resolution, ma come “Allarmente Declino Reddito”, che circola negli ambienti forensi.-
Probabilmente, tutte queste paure e diffidenze, sono ingiustificate.-
Invece, la presenza dell’avvocato, a parere di chi scrive, è necessaria; piuttosto, in situazioni di mediazione, il difensore dovrà trasformarsi da avvocato creativo in avvocato mediatore, un sottile cambio di rotta, una grandissima possibilità professionale.-
Infatti, come sostenuto in alcune relazioni del Cnf, si dovrebbe cominciare a parlare di avvocato/mediatore, in quanto l’avvocato cercherà di risolvere il conflitto in base alle necessità e agli interessi del cliente, ma anche l’avvocato avversario si comporterà allo stesso modo.-
Quindi, in caso di conciliazione riuscita, non ci sarà un solo vincitore, come di solito avviene nella procedura giudiziaria ordinaria, ma due vincitori. Si, perchè le parti, facendosi reciproche concessioni, otterranno qualcosa di positivo in ogni caso; ad esempio in una conciliazione riuscita per risarcimento danni, il danneggiato otterrà, prima e senza aspettare i tempi del giudizio, il suo risarcimento, magari in misura minore rispetto alle sue aspettative, ma subito, mentre il danneggiante sarà comunque costretto a riconoscere la validità della pretesa avversaria, ma avrà il beneficio di non risarcire in toto il danno provocato.-
Quindi, come sostenuto da una autorevole dottrina [6] , “l’avvocato cercherà di raggiungere una soluzione giusta con gli strumenti contrattuali a sua disposizione e non una soluzione secondo diritto […], per questo si può dire che il compito dell’avvocato sarà quello di fare un contratto a lite iniziata”.-
Quindi sebbene sia nota la circostanza che la conciliazione non è fondata sul criterio della attribuzione del torto e della ragione, cioè sulla logica del diritto, ma sulla logica di favorire una soluzione “contrattuale”, tuttavia si potrebbe generare l’opinione che il ruolo dell’avvocato sia sminuito in questa procedura, mentre, a parere di chi scrive, questa affermazione non corrisponde alla realtà, in quanto, per assistere il proprio cliente nella fase della mediazione, l’avvocato deve essere comunque in possesso sia delle competenze pratiche e teoriche di diritto sostanziale, si pensi per assurdo a due parti che risolvono la lite con una conciliazione avente un oggetto contrario alla legge, sia deve avere tutte quelle capacità relazionali, dialettiche e di convincimento, per ottenere il risultato migliore per il proprio assistito.-
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ALTRI PUNTI CONTROVERSI DEL D.LGS 28/2010
Se da una lato la volontà di ridurre il sovraccarico del settore giustizia è certamente apprezzabile, d’altro canto destano una certa perplessità alcune tra le innovazioni introdotte dal legislatore nazionale con il D.Lsg. 28/10.-
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Un primo, evidente, aspetto su cui vale la pena soffermarsi è l’obbligatorietà della procedura di mediazione, seppure solo in alcune materie, secondo quanto previsto dall’art. 5 del decreto in esame.-
Come è stato giustamente osservato in dottrina, non si comprende come la parte che ritenga di avere pienamente ragione, in merito ad una controversia civile rientrante nell’ambito “obbligatorio” della mediazione, debba sottoporsi, forse sarebbe meglio dire “sottomettersi”, ad una procedura di mediazione, poi a valutare una proposta, il più delle volte, lontana dalla sue aspettative.-
Senza poi contare un altro aspetto conseguenziale, quello del rifiuto della proposta conciliativa e successivo trionfo giudiziale alle stesse condizioni, che comporta delle ripercussioni, sulle quali ci soffermeremo tra poco.-
Quindi, come afferma Giuliano Scarselli [7] , “la mediazione obbligatoria invece di favorire chi ha subito un torto e vuole dallo Stato semplicemente giustizia, poichè la legge, imponendo la mediazione, nella sostanza gli chiede di rinunciare a qualcosa, oppure di presentarsi davanti al giudice con tutte le conseguenze per la mancata accettazione della proposta transattiva, favorisce solo chi dal giudizio vuole scappare”.-
Quindi, se per alcuni la cosiddetta “coercizione a conciliare” è una vera e propria forzatura, a parere di chi scrive l’obbligatorietà, in effetti potrebbe essere un controsenso, anche se tale caratteristica ha avuto il pregio – del tutto indiretto -di interessare molti colleghi che non si erano mia posti il problema di una soluzione stragiudiziale professionale fuori dei tribunali.-
Quindi, questa forma di “giustizia condizionata” obbliga le parti a sottoporsi prima a questo tentativo e solo successivamente concede loro la possibilità di adire il giudice, tutto questo con qualche ritardo (in fondo la mediazione dura solo 4 mesi) e con un certo grado di spese.-
Infatti, è bene sottolinearlo, la procedura di mediazione, finanche quella obbligatoria, non è gratuita, ma comporta delle spese. Queste spese ricadono, in ogni caso, anche nella ipotesi di conciliazione fallita, sulle parti, che devono corrispondere all’Organismo l’indennità prevista, proporzionale al valore della controversia.-
Quindi se la conciliazione obbligatoria trova la sua giustificazione in interessi generali, perché risponde (dovrebbe rispondere) ad una esigenza di deflazione del contenzioso civile, tuttavia questa “pressione” a conciliare, questo tipo di “giustizia condizionata” potrebbe andare a collimare con il principio costituzionale del giusto processo; oltre che rappresentare un “non sense” logico, perché se la conciliazione è una attività, per sua natura, spontanea, la “coercizione a conciliare”, questa potenziale forzatura, potrebbe creare l’effetto opposto, trasformandosi in un mero adempimento formale.-
La mediazione rappresenta una procedura avente un netto carattere privatistico, perché viene esaltata l’autonomia privata, a cui si contrappone l’esercizio pubblicistico della giustizia, realizzato attraverso la funzione giurisdizionale di (jus dicere) del Giudice.-
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LE CONSEGUENZE DELLA MANCATA CONCILIAZIONE – UNA NUOVO PROFILO DI RESPONSABILITA’: LA RESPONSABILITA’ DA RIFIUTO ILLECITO DI CONCILIARE
Se le due cifre sono identiche – ex art. 13 d.lgs. 28/2010 – l’attore solo formalmente vittorioso, non solo perde le spese legali, ma deve rimborsare quelle dell’avversario, oltre all’onorario (rectius indennità) del mediatore. Non basta: deve anche effettuare il “versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto“; insomma una vittoria di carta.-
Il richiamato art. 13 considera che la mancata accettazione della proposta sia un comportamento da punire, nel caso in cui il Giudice decida in maniera del tutto equivalente nella successiva fase puramente processuale; la sanzione, naturalmente, è di tipo pecuniario.-
Le ragioni di questa scelta legislativa sono abbastanza chiare.-
Se l’obiettivo della introduzione di questa nuova procedura di conciliazione è quello di ridurre il numero dei processi, cioè di avere una funzione deflattiva, si comprende come il legislatore voglia “punire” chi ostacola questo percorso.-
Ma può essere considerato come ostacolo l’esercizio di un proprio diritto per la parte che ritiene di avere ragione? Questa norma, l’art. 13, a prima vista apparirebbe in contrasto con l’art. 24 della Costituzione. Nel nostro ordinamento giudiziario abbiamo una precedente, similare, misura, vale a dire l’art. 91 c.p.c., come novellato dalla legge 69/09.-
Ma vi è una notevole differenza; infatti, mentre, secondo il dettato codicistico, il giudice può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, ma solo nelle ipotesi in cui ricorrano giustificati motivi, l’art. 13 non prevede una simile condizione, quindi sembrerebbe che, in ogni caso, la parte che non accetti una proposta conciliativa e poi risulti vittoriosa in giudizio debba essere “sanzionata”.- Un’altra differenza fra le due previsioni normative è che la proposta del mediatore ex art 13 prescinde dall’accertamento dei fatti, mentre quella giudiziaria evidentemente no.-
Dunque, alla parte che, indistintamente in buona o in mala fede, per qualsiasi motivo abbia rifiutato una proposta transattiva in mediazione, magari per una errata valutazione della chanches di vittoria in giudizio, potrebbe (in quanto, evidentemente, bisognerà attendere qualche applicazione giurisprudenziale di questo principio così particolare, che attribuisce al giudice un potere forse troppo forte e coercitivo) essere condannata, nonostante risulti vittoriosa in giudizio, al pagamento delle spese legali, delle indennità di mediazione (fallita), e anche al pagamento di altre somme per diverse causali; forse un pò troppo.-
Questa misura sanzionatoria dovrà essere utilizzata con parsimonia ed oculatezza da parte degli organi giudicanti, perchè si potrebbe rivelare un’arma controproducente, ma, soprattutto, perchè si correrebbe il rischio di creare un nuovo profilo di responsabilità, quello da rifiuto illecito di conciliare, che potrebbe coinvolgere tutti i soggetti della mediazione, avvocati inclusi.-
Infatti, si potrebbe fare ricadere questa responsabilità da illecito rifiuto in una responsabilità precontrattuale, ad esempio.-
Nel nostro ordinamento all’art. 1337 c.c. è previsto che le parti, nello svolgimento delle trattative, devono comportarsi secondo “buona fede” e, se considerassimo, come in effetti è, la mediazione come una fase precontrattuale rispetto al contratto (la conciliazione avvenuta) il gioco sarebbe fatto.-
Certo, il d.lgs in commento prevede che la parti della conciliazione possono abbandonare in qualsiasi momento il tavolo delle trattative, ma ci sarebbe comunque da valutare anche la possibilità che certi comportamenti, attraverso il principio dell’affidamento, potrebbero avere ingenerato nella parte avversa una concreta aspettativa alla risoluzione transattiva (rectius conciliativa) della res litigiosa.- Quid iure in questo caso?
Inoltre, come detto sopra, si potrebbe anche intravedere una responsabilità dell’avvocato della parte che abbandona le trattative. Infatti l’art. 23 comma 6 del codice di deontologia forense prevede che l’interruzione delle trattative stragiudiziali nella prospettiva di dare inizio ad azioni giudiziarie deve essere comunicata al collega avversario; quindi sembrerebbe proprio che l’avvocato, parte non essenziale della conciliazione, ma chiamato dal suo cliente per assisterlo, debba avvisare (l’eventuale) collega che la mediazione verrà abbandonata.-
E, di conseguenza, questo abbandono è in “re ipsa” nel comportamento della parte che con il suo avvocato si allontana fisicamente dal tavolo della mediazione per non farci più ritorno o richiede una comunicazione scritta, formalizzata con un certa rigorosità, da parte dell’avvocato recedente rispetto al suo collega? Anche a queste domande la legge non fornisce risposta.-
In realtà la ratio di questa previsione (forse) è quella di indurre le parti, ed eventualmente anche i loro avvocati, ad una maggiore responsabilizzazione, avuto anche riguardo ai costi del giudizio ordinario.
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L’AUTONOMIA PRIVATA E L’ORGANISMO DI CONCILIAZIONE COMPETENTE
Una norma che sicuramente creerà non pochi problemi, se non corretta tempestivamente, è quella contenuta nell’art. 4 comma 1, in quanto potrebbe prestarsi a facili abusi.-
Questa norma infatti non si occupa di stabilire un criterio per individuare l’organismo di conciliazione competente, ma si limita solo a prevedere, facendo riferimento al criterio processuale della prevenzione, che “nel caso di più domande, relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all’organismo presso il quale è stata presentata per prima la domanda”. Questa applicazione del brocardo romano “prior in tempore, potior in iure” potrebbe essere oggetto di forti speculazioni. Vediamo il perchè.-
Prendiamo ad esempio una controversia che abbia per oggetto una locazione, per la quale, quindi, è (sarà dal marzo 2011) previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione. La nostra legge processuale prevede che cause di questo genere siano di competenza del luogo, dove è situato l’immobile (competenza territoriale ex art. 21 c.p.c.).-
Il decreto legge in esame niente dice, come abbiamo visto al riguardo, quindi la mediazione potrebbe essere legittimamente incardinata presso un Organismo di Conciliazione lontano centinaia di kilometri dal luogo dove è situato l’immobile. Paradossalmente, si potrebbe creare una discrasia fra la norma processuale, che prevede la competenza del Tribunale del luogo, dove è situato l’immobile, e la scelta delle parti, o peggio, di una sola di esse, magari la più veloce, o più semplicemente la più furba, che individua, e adisce, per prima, un Organismo di conciliazione.-
Questa norma appare poco funzionale, perchè non è ragionevole prevedere un foro obbligatorio per (l’eventuale) giudizio di merito e un “foro” libero per la fase della mediazione, strumentale rispetto a quella processuale pura; come del resto il legislatore ha previsto in ipotesi conciliative assimilabili alla procedura della mediazione, ad esempio nel rito del lavoro, il tentativo si compie davanti alla DPL competente per territorio, il che rafforza la competenza territoriale del giudice successivamente, ed eventualmente, adito.-
Il sorgere dei conflitti per questi aspetti potrebbe essere all’ordine del giorno; basti pensare anche ad un’altra ipotesi trascurata dal legislatore: il caso di domande solo in parte coincidenti.-
Mi riferisco all’ipotesi di domande giudiziali che coincidono solo in parte riguardo al petitum o alla causa petendi; in questo caso non si può parlare di identità totale delle domande e il decreto legge non fornisce idonei suggerimenti per risolvere la questione, quindi la soluzione più opportuna sarebbe quella di applicare anche in questa ipotesi il criterio della prevenzione.-
In conclusione, questa previsione legislativa appare un pò troppo libera ed il fenomeno del forum shopping potrebbe prestarsi a facili usi distorti.-
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LA TANTO TEMIBILE, E TEMUTA, PROPOSTA DEL MEDIATORE. INTERROGATIVI.-
L’art. 11, stabilisce che il mediatore “quando l’accordo non è raggiunto” formula una proposta di conciliazione”.-
Le ragioni della scelta normativa vanno ricercate nella volontà di evitare che il tentativo di conciliazione si traduca in un “nulla di fatto”, con inutile aggravio di tempi e di costi spiega e giustifica, dunque, la finalità di questa norma; norma che assume maggiore valore, se valutata assieme alla previsione della obbligatorietà del tentativo di conciliazione.-
La previsione della proposta “necessaria”, infatti, si ricollega funzionalmente al regime punitivo previsto dal successivo art. 13 in danno della parte che tale proposta abbia rifiutato.-
Addirittura nella formulazione originaria era previsto un “dovere” gravante sul mediatore di formulare una proposta; fortunatamente nella stesura definitiva della legge, il legislatore è sceso a più miti consigli, eliminando la formula di doverosità, sostituendola con quella della possibilità (il mediatore può formulare una proposta).-
La norma in esame sembrerebbe attribuire al mediatore un potere di decisione che mal si concilierebbe con il dovere di imparzialità, a cui il mediatore è tenuto; per questo motivo la norma sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) avere un certo rilievo di incostituzionalità: minacciare sanzioni e condanne alla spese (si veda art. 13) per aver rifiutato una proposta conciliativa del mediatore appare davvero in contrasto con l’accesso a questi strumenti di giustizia alternativa.-
Poi ci sono degli altri risvolti problematici, sempre attinenti alla norma in esame.-
Prima di tutto il mediatore, come si vedrà più avanti, può sostenere delle sessioni separate con le parti e il contenuto di queste audizioni non possono essere trasmesse alla parte diversa dalla dichiarante, a meno che questa non lo autorizzi espressamente, né può inserire queste dichiarazioni in una eventuale proposta.-
Non è quindi altamente conflittuale, forse addirittura illogico, attribuire al mediatore la facoltà di formulare una proposta, non tenendo conto di quello che ha saputo durante la procedura? E anche se egli non può scriverlo direttamente nella proposta, la sua formulazione non sarebbe condizionata, anche e solo a livello psicologico, come pregiudizio, da quello che il mediatore ha sentito durante le sessioni comuni e separate? E se così non fosse, su cosa si dovrebbe basare la sua proposta?
Altro problema, a norma dell’art. 13, di questa proposta formulata dal mediatore, non fruttifera, ne dovrebbe tenere presente anche il giudice, successivamente investito dalla vicenda; la legge, non chiarissima su questo punto, sembrerebbe affermare che il giudice ordinario dovrebbe venire a conoscenza di una proposta formulata dal mediatore, non realizzativa di conciliazione, ma senza potere venire a conoscenze del contenuto specifico della stessa.-
Le parti potrebbero mostrare maggiori resistenze a cooperare nel percorso facilitativo, sapendo che, in caso di mancato accordo, il terzo dovrà – sempre e comunque – formulare la proposta; la disponibilità a rivelare informazioni preziose per la composizione della lite, in particolare, pare destinata a diminuire se le parti sanno che tali informazioni potranno e dovranno essere utilizzate in un contesto
non facilitativo, ma aggiudicativo (e ciò a maggior ragione quando quella proposta verrà poi acquisita e conosciuta dal giudice nel successivo giudizio). Per il mediatore, d’altro canto, risulterà inevitabilmente più difficile condurre le parti nel percorso cooperativo creativo della mediazione facilitativa, se poi alla fine di quel percorso si prospetta comunque una soluzione di tipo valutativo.-
Alla luce di quanto sopra, sarebbe meglio il mediatore utilizzi la possibilità di formulare una proposta, una vera e propria “bomba” tra le mani, con la massima oculatezza e solo in determinati e pochissimi casi; oppure, come ha suggerito qualcuno, queste incongruenze potrebbero essere eliminate alla radice dagli stessi Organismi di Conciliazione, i quali, nel loro regolamento, potrebbero escludere a priori la possibilità che il mediatore possa fare una proposta conciliativa.-
In questo modo, oltretutto, si accentuerebbe il lato, come detto più caro al legislatore, della conciliazione, vale a dire quello facilitativo.-
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ALCUNE FATTISPECIE LEGALI, CHE PROPRIO NON SI PRESTANO ALLA PROCEDURA DI CONCILIAZIONE.-
Particolari problemi, e dubbi di praticità, produce la scelta del legislatore di ricomprendere, nelle materie per le quali la conciliazione è obbligatoria, la responsabilità medica e quella assicurativa.-
La scelta del legislatore di accomunare in una unica categoria, come sopra descritta, cioè quella dei rapporti “conflittuali a lunga durata”, anche le controversie relative a responsabilità medica e assicurativa, appare non condivisibile, stanti le differenze strutturali delle due ultime fattispecie rispetto alle altre.-
La fattispecie riguardante le assicurazioni in generale (sinistri, risarcimento danni) non era previsto nel testo iniziale del decreto legislativo in esame; solo in extremis, come appare dalla relazione di accompagnamento, sono state inserite le controversie riguardanti i danni da circolazione stradale e, quindi, le materie rientranti nell’ambito assicurativo.-
In realtà non si tratta di una vera e propria novità, se è vero, come è vero, che nell’azione di risarcimento danni da incidente stradale, l’art. 145 del Codice delle Assicurazioni già prevede(va) una vera e propria condizione di procedibilità: infatti, per la proponibilità dell’azione è necessario l’atto di messa in mora del soggetto debitore (rectius danneggiante o responsabile civile) e solo dopo sessanta (o novanta se si tratta di risarcimento per danni a persone) il danneggiato può esperire l’azione giudiziaria; quindi, introducendo anche per queste materie il tentativo obbligatorio di conciliazione, il legislatore ha dilatato ancora di più i tempi per una (bonaria) definizione extra giudiziale, per la ragione che ai sessanta (o novanta) giorni necessari per la messa in mora, bisognerà aggiungere i tempi necessari (al massimo 4 mesi, come previsto dal decreto) per il tentativo obbligatorio di conciliazione.-
Quindi, il soggetto, che ritiene di avere pienamente ragione, dovrà – rigorosamente – osservare le prescrizioni legislative sull’esperimento dei due tentativi di definizione extra giudiziaria, prima di vedere, finalmente, riconosciute in giudizio le proprie aspettative; a parere di chi scrive, questa scelta legislativa appare poco corrispondente alla funzione deflattiva tanto sospirata dal legislatore: infatti, questa dilatazione, eccessiva, dei termini prima di poter ricorrere al giudice comporterebbe, vista la duplicazione, una inutile perdita di tempo.-
Ma questo non è l’unico punto debole della materia assicurativa in relazione alla nuova procedura di conciliazione; basti pensare alla lacuna legislativa in riferimento all’intervento del terzo e la procedura di risarcimento diretto.-
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’art. 144 del Codice delle Assicurazioni prevede l’onere, per meglio dire quasi un obbligo, per il danneggiato di esercitare l’azione sia contro il danneggiante sia contro il responsabile civile (la compagnia assicurativa); infatti, proprio perché in giudizio devono essere chiamati, in solido, sia il responsabile del danno sia la società di assicurazioni, se questo non avviene, nel giudizio ordinario, sarà compito del giudice ordinare l’integrazione del litisconsorzio necessario.- Ma quid iuris nella mediazione?
Nel d.lgs in esame non vi è nessun riferimento a tale problema, infatti il legislatore non si pone la questione del soggetto, che invii l’istanza di mediazione solo al responsabile e non alla compagnia di assicurazione; l’eventuale accordo raggiunto in mediazione tra danneggiato e danneggiante sarà opponibile, e quindi vincolante, nei confronti del terzo, responsabile civile, cioè la compagnia assicurativa?
La risposta, ovvia, è assolutamente no; perché, vale la pena ricordarlo, l’accordo raggiunto in mediazione è un accordo di diritto privato che, come tale, non può produrre effetti vincolanti, se non espressamente accettati, nei confronti di terze parti.-
Quindi, nulla vieta, anche se non frequente in pratica, che il danneggiante voglia rispondere personalmente, senza l’intervento del proprio responsabile civile, del danno provocato; ma, in caso diverso, in assenza di una disciplina precisa sul punto e in previsione di un auspicabile rimedio legislativo, anche in relazione all’intervento volontario del terzo, appare corretto attribuire al mediatore la facoltà di chiamare in causa il terzo (rectius di fare chiamare in causa il terzo dalle parti), per evitare ogni tipo di conflitto futuro.-
La seconda questione riguarda l’ipotesi di risarcimento diretto: infatti l’art. 149 del Codice delle Assicurazioni prevede, che in caso di incidenti tra veicoli a motore, il soggetto danneggiato può chiedere il risarcimento direttamente alla propria Compagnia assicurativa.-
Con questa procedura, quindi, l’assicurato invia la richiesta di risarcimento danni alla propria compagnia, la quale anticipa l’importo, che poi le verrà restituito dalla compagnia di assicurazione del danneggiante.-
In assenza, anche qui, di una completa disciplina legislativa, appare logico che, nel caso di mediazione, il danneggiato invii l’istanza di mediazione alla propria assicurazione (siamo sempre nell’ambito del risarcimento diretto); anche qui, nel caso di mediazione riuscita, ci si pone il problema della efficacia esterna dell’accordo raggiunto.-
L’accordo raggiunto tra danneggiato e la propria compagnia assicurativa, che anticipa l’importo, sarà opponibile (in quanto l’accordo costituisce titolo esecutivo) nei confronti della compagnia assicurativa del danneggiante?
Secondo quanto detto sopra, e cioè che un accordo di diritto privato non può essere produttivo di effetti nei confronti di un terzo, la risposta sarebbe negativa, anzi deve essere negativa; a meno che non venga chiamata in mediazione anche la seconda compagnia assicurativa, il che renderebbe inutile la presenza della compagnia di assicurazione del danneggiato e tutta la disciplina del risarcimento diretto.-
Ma, a questo punto, ci si chiede l’utilità di aver inserito fra le materie obbligatorie, quella assicurativa, senza aver corredato questa scelta con un impianto normativo completo: il rischio è che, invece di aver il tanto auspicato effetto deflattivo, si possa avere l’effetto contrario, cioè quello di una seria di cause contro le compagnie di assicurazione, terze rispetto alla mediazione, che magari rifiutano di adempiere un accordo, quello di mediazione, al quale non hanno partecipato e dal quale non possono essere vincolate.-
Altra fattispecie, la cui introduzione nelle materie obbligatorie, appare, allo stato, rischiosa è quella della responsabilità medica.-
La giurisprudenza è piena di azioni giudiziarie contro i medici per ottenere il risarcimento dei danni provocati da operazioni sbagliate, cure non idonee, diagnosi errate; per questo motivo è prassi, in ambito medico, stipulare delle convenzioni assicurative.-
Primo particolare, che deve essere messo subito in evidenza, e che differenzia questa disciplina da quella assicurativa per incidenti stradali, è che in questa materia il legislatore non ha previsto il litisconsorzio necessario: ciò comporta l’assenza di tutte quelle problematiche, che abbiamo visto sopra per quanto riguarda la disciplina introdotta dal codice delle assicurazioni, ma ne introduce altre.-
Infatti, le cause di responsabilità medica di solito hanno anche un rilievo penale, cosa che, a parere di chi scrive, elimina quasi radicalmente le possibilità di riuscita della mediazione: come mai potrebbe, un medico accettare una proposta transattiva in mediazione, riconoscendo quindi il suo errore, la sua “mala gestio” sapendo che poi potrebbe essere chiamato a rispondere, anche penalmente, del suo errore, con la scure di un accordo (civile) da lui stesso approvato? Quale sarebbe l’efficacia penale di questo riconoscimento in sede civile?
Certo nella cause (penali, naturalmente) a querela di parte il problema è ridimensionato, ma nelle cause procedibili d’ufficio, cosa potrebbe succedere? Potrebbe essere l’organo giudicante in un certo qual modo influenzato dall’accordo raggiunto in sede di mediazione?
Altra questione abbastanza complessa, perché riguarda non solo il settore medico, è quella degli accertamenti peritali.-
Anche in mediazione, naturalmente, per alcune materie, in particolare modo quella medica, sarebbe auspicabile, per evitare il cosiddetto “mercanteggiare delle proposte” (ti offro tanto…no io voglio tanto…e così via senza un criterio logico), il ricorso ad un accertamento peritale, e qui nascono i problemi.-
Primo problema: si tratta di una vera e propria consulenza, utilizzabile, eventualmente, anche nella fase giudiziaria?
Ragioni di economia processuale e di praticità spingerebbero verso la tesi positiva, e cioè che l’eventuale consulenza tecnica sarebbe utilizzabile anche nell’eventuale giudizio; ciò, quanto meno, per evitare una duplicazione dello stesso passo processuale e per evitare spiacevoli situazioni (basti pensare ad una vittima di mala sanità, che dovrebbe sottoporsi due volte alla stessa visita medica).-
Tuttavia, la tesi dominante, e più convincente, è che la consulenza tecnica effettuata nel corso della mediazione non sarebbe utilizzabile nella eventuale fase processuale; questo perché, sebbene la legge riconosca la possibilità di utilizzare una Ctu espletata in un processo in un diverso giudizio, nel caso della mediazione, questo non sarebbe possibile, perché il consulente, nella fase extragiudiziale, non presta giuramento, secondo quanto previsto dall’art. 193 c.p.c..-
Secondo problema, la cui definizione permette di rispondere, in parte, anche alla prima domanda, riguarda la possibilità di utilizzare la Ct in giudizio, anche in caso di fallimento della mediazione.-
Stante l’indipendenza dei giudizi, quello penale e quello civile, nulla vieterebbe l’utilizzo, ma, tenuto conto del principio (obbligo) di riservatezza a cui sono obbligati il mediatore e tutti gli altri soggetti che hanno partecipato alla mediazione, che si esaminerà nel prossimo paragrafo, l’elaborato peritale non potrebbe essere utilizzato nella fase processuale, sia civile che penale.-
In conclusione, anche in queste due fattispecie, quella assicurativa da circolazione dei veicoli e quella medica, appare necessario un profondo intervento legislativo.-
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LA PROCEDURA DI CONCILIAZIONE E LA PRIVACY
Un particolare problema, come abbiamo visto, è rappresentato dalla tutela della privacy all’interno della procedura di mediazione.-
Come più volte detto, è previsto, dagli artt. 9/10 del decreto legislativo, l’obbligo di riservatezza che ricade prima di tutto sul mediatore e poi su tutti quanti i soggetti che partecipano, a qualunque titolo, alla procedura di mediazione.-
Questo dovere di riservatezza permane sia nel caso in cui la mediazione abbia portato alla conciliazione, sia nel caso contrario e, questa, è una forma di garanzia a favore di tutti.-
Particolare importanza, poi, questa norma assume nel caso in cui il mediatore scelga di fare, come la legge gli riconosce, e anzi “spinge” in questa direzione, delle “sessioni separate” con le contrapposte parti (le cosiddette shuttle diplomacy); le suddette norme prevedono che il mediatore debba tenere riservate le dichiarazioni che ciascuna parte esprime nella propria sessione separata, a meno che il dichiarante non ne dichiari espresso consenso all’uso.-
Senza “forzare” il tenore della norma, come chi addirittura sostiene che nel caso in cui il mediatore avesse la necessità, nei casi più complicati, di scrivere qualche appunto, dovrebbe avere l’accortezza di avvisare le parti presenti che i relativi appunti saranno distrutti al termine dell’incontro, la norma in esame svolge una funzione molto delicata, ma davvero funzionale rispetto a tutto il sistema: infatti, in questo modo i soggetti coinvolti si sentono davvero liberi di esprimere le proprie posizioni.-
La norma, quindi, è finalizzata a consentire alle parti di “svelare” ogni dato utile al compromesso, senza timore che poi, questi dati, possano essere oggetto di un uso addirittura contro la stessa parte dichiarante, ma consapevoli di poter manifestare i loro interessi.-
Quello della riservatezza, molto probabilmente, diventerà uno dei punti di forza di questa procedura, in quanto l’esperienza in istituti simili ha dimostrato che più liberta di “movimento” viene lasciata alle parti, maggiore è la percentuale di successo.-
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RAPPORTI TRA CONCILIAZIONE ED ARBITRATO
La disciplina generale dell’arbitrato è contenuta nel codice di procedura civile agli artt. 806-832 e 839-840 c.p.c. (titolo VIII del Libro IV modificato dal d.lg. n. 40/2006).-
L’arbitrato è un’altra particolare forma di risoluzione delle controversie che ha per oggetto controversie su posizioni e pretese giuridiche specifiche, che si svolge davanti ad un terzo, neutrale, l’arbitro, le cui disposizioni sono vincolanti per le parti.-
La normativa codicistica prevede, anzitutto, le tipologie e la forma della convenzione privata, con la quale viene deferito ad un terzo il potere di disporre l’assetto sostantivo dei rapporti tra le parti.-
La volontà di ricorrere a questo istituto deve risultare da un accordo scritto: un compromesso successivo ad una controversia già insorta tra le parti stesse; ovvero una clausola compromissoria – che è la clausola contenuta in un contratto (o in un atto separato), la quale stabilisce, in anticipo, che siano decise da arbitri le controversie che potrebbero, in futuro, nascere dal contratto stesso.-
L’arbitrato può assumere due tipologie: rituale o irrituale. Il primo è quello più compiutamente regolato dal codice di procedura civile, e si conclude con il cosiddetto “lodo”.–
Nel secondo, irrituale, le parti stabiliscono che gli arbitri definiscano una controversia mediante determinazione contrattuale, e in deroga al regime di cui all’art. 824 bis c.p.c.; in altre parole, esse si vincolano a ciò che l’arbitro disporrà, ma non contemplano né che la determinazione contrattuale possa raggiungere gli effetti di una sentenza, né l'”omologazione” da parte dello Stato.-
La differenza rispetto alla forma rituale risiede, dunque, nell’efficacia del lodo, esclusivamente contrattuale; non nello svolgimento del processo privato (in cui dev’essere garantito al minimo il rispetto del principio del contraddittorio); né nei presupposti dello stesso; la scelta per l’arbitrato irrituale può essere dettata da esigenze di riservatezza, ovvero, nel caso in cui all’arbitro sia affidato il ruolo di amichevole compositore.-
La mediazione, invece, è un procedimento di composizione negoziale di una controversia, nel quale le parti si avvalgono della cooperazione di un terzo imparziale e neutrale, il mediatore, per trovare una soluzione concordata della lite e registrano, al termine di questo tentativo, il loro mancato accordo ovvero la composizione consensuale della lite stessa.-
L’attività che il conciliatore compie è riconducibile ad un incarico, anche se indirettamente (allorquando sia prevista la presenza di organismi di conciliazione), ricevuto dalle parti. Il conciliatore non esplica alcuna funzione giurisdizionale, in quanto non emana alcuna decisione su diritti soggettivi – a differenza dell’arbitro – si limita a condurre le parti alla composizione della vertenza, che avviene esclusivamente in virtù dell’incontro delle rispettive volontà.-
La conciliazione non mira, infatti, ad affermare un “vinto” o un “vincitore”, ma soltanto che le due parti raggiungano, un accordo; il valore principale della conciliazione è dato proprio dalla possibilità per le parti di regolamentare i rapporti, senza dover sottostare alla decisione di un terzo, arbitro o giudice che sia.-
Come visto, rispetto alla pronuncia del giudice, la conciliazione fornisce l’opportunità di soluzioni creative, ossia di soluzioni svincolate dai limiti della domanda giudiziale.-
Questi, in sintesi gli elementi di differenziazione tra conciliazione ed arbitrato:
1) La persona del conciliatore; infatti, pur condividendo con l’arbitrato il ruolo di soggetto terzo ed imparziale, non deve trattarsi necessariamente di un soggetto privato, potendo essere comunque un operatore (in senso lato) del diritto;
2) Il ruolo svolto dal conciliatore; infatti, come descritto, il conciliatore non ha il dovere di decidere, ma deve agevolare l’emersione dell’accordo e, solo come extrema ratio, proporre una soluzione; invece l’arbitro è obbligato a decidere; e l’arbitrato, ha una natura contenziosa e prevede la pronuncia del lodo, che è vincolante e determina un soccombente ed un vincitore rispetto alla controversia;
3) La legge ha previsto come obbligatorio il tentativo di conciliazione, cosa non possibile per l’arbitrato, ontologicamente destinato ad essere scelto liberamente dalle parti;.
4) Gli arbitri devono decidere secondo diritto o secondo la convenzione stabilita dalle parti (in quello irrituale), mentre nella mediazione il criterio utilizzato può non essere quello di diritto;
5) Nel tentativo di conciliazione non è previsto in modo formale il rispetto del principio del contraddittorio (si pensi alle sessioni separate e segrete); mentre nell’arbitrato questo principio deve essere rigorosamente osservato;
6) Ultima, importante differenza; il lodo (seppure in particolari casi) può essere impugnato, di contro, l’accordo giunto in mediazione, la conciliazione, non può essere impugnato.-
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RAPPORTI TRA L’ISTITUTO DELLA MEDIAZIONE E IL CODICE DEL CONSUMO
L’art. 5, comma 1, prevede espressamente che la mediazione non è condizione di procedibilità in alcuni procedimenti previsti nel Codice del Consumo, vale a dire quello dell’azione inibitoria e della class action, previste rispettivamente agli articoli 37 e 140 bis del Codice del Consumo; questo, perché, l’art. 140 del suddetto Codice del Consumo prevede una speciale procedura di conciliazione riservata alle associazioni dei consumatori.-
Infatti, le associazioni dei Consumatori possono attivare questa speciale procedura di conciliazione davanti alla Camera di Commercio competente per territorio.-
Da ciò si evince che, in linea generale, l’azione di classe non preclude la mediazione; questa affermazione, però, obbliga ad una precisazione.-
Infatti, il richiamato art. 140 bis prevede che siano conservati i diritti individuali di coloro che non abbiano proposto la mediazione (quella prevista nel codice del consumo), né aderito in seguito, alla stessa; lo stesso articolo del Codice del Consumo prevede, al nono comma, il termine massimo, indicato volta per volta (per maggiore chiarezza si invita alla lettura della norma di legge) per aderire.-
Questo significa che, prima della scadenza del termine, la conciliazione, intervenuta tra attore (magari una associazione dei consumatori) e un convenuto, non produce effetti nei confronti degli altri associati; diversamente, se scadono i termini per aderire, come detto, la conciliazione intervenuta tra attore ( per facilità di esempio sempre un’ associazione dei consumatori) e un convenuto, produce effetti vincolanti nei confronti di tutti gli altri associati.-
Questa “confusione” di procedure dovrebbe spingere il legislatore ad un intervento correttivo, “di tipo ortopedico”, come ha dichiarato spiritosamente qualcuno, in questa materia, anche perché il settore del diritto del consumo potrebbe essere uno dei settori maggiormente beneficiari della nuova procedura di conciliazione.-
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Uno, se non il principale, tra i problemi che affliggono la giustizia italiana, è rappresentato dalla circostanza che dalla presentazione della domanda giudiziaria alla sua definizione ad opera del Giudice, passano diversi mesi, se non anni.-
Questa circostanza, oltre a far lievitare il malcontento dei cittadini nei confronti della amministrazione della giustizia, ha comportato, per il Nostro paese, diversi richiami da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.-
I nostri processi sono troppo lunghi, ben oltre le raccomandazioni della Corte Europea, ben oltre anche la previsione, fin troppo ottimistica, della Cassazione che, in una recente Sentenza, la n. 8521/2008, prevedeva la “ragionevole durata del processo” in tre anni per il processo di primo grado, due per il giudizio di secondo grado; previsioni che risultano essere molto lontane dalla situazione attuale della giustizia: ecco perché, dopo altri tentativi di deflazionare il carico dei procedimenti pendenti (basti pensare alla istituzione dei Giudici di Pace, dei Got), il legislatore ha introdotto, sotto la spinta della Comunità Europea, il procedimento di mediazione.-
L’esperimento della procedura di mediazione diverrà, come più volte detto, condizione di procedibilità della domanda giudiziale solo dopo un anno di vacatio legis, e cioè a marzo 2011; solo il tempo dirà se questo nuovo tentativo di deflazionare il sistema giuridico produrrà gli effetti sperati dal legislatore.-
Ma, alla fine di questa lunga analisi, che non vuole avere, tuttavia, presunzione di completezza, già da ora, si può consapevolmente affermare che la mediazione delle controversie civili e commerciali rappresenta una rivoluzione; se sarà reale o solo potenziale sarà il tempo a dirlo, nell’ambito giuridico e sociale italiano.-
In ambito giuridico, perché apre una nuova strada alla definizione delle tante controversie che oggi affollano i Tribunali del nostro Paese, sociale perché riguarda la cultura e la mentalità di tutti noi cittadini.-
Alcuni commentatori hanno definito questo decreto “una vera e propria rivoluzione culturale, capace di contrastare la connaturata litigiosita’ italica, insegnando agli italiani i vantaggi della conciliazione e decongestionando il – malmesso – settore giustizia”; sarà proprio così?
Come abbiamo visto, in realtà i concetti di mediazione e conciliazione non sono proprio estranei al nostro ordinamento: esistono gli arbitrati, le negoziazioni e transazioni stragiudiziali, il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle cause di lavoro, il tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi al Corecom per le controversie in materia di telecomunicazioni.-
Proprio l’esperienza maturata, in particolare modo nella materia del lavoro, avrebbe dovuto insegnare che l’obbligatorietà delle conciliazioni, il più delle volte, non garantisce alcun risultato; infatti, le Direzioni Provinciali del Lavoro sono sovraccaricate di istanze, presentate in grande percentuale, solo perché prodromiche ed obbligatorie rispetto alla domanda giudiziale, ma che solo raramente sono davvero produttive di effetti conciliativi e transattivi, ma che, allo stato dei fatti, quasi sempre producono solamente un inutile differimento della prima udienza.-
Quello che manca, in realtà, nella nostra mentalità giuridica, è la cultura della mediazione.-
Questo istituto avrà il successo sperato dal legislatore, solamente se si riuscirà a creare anche la mentalità della mediazione.-
La vera innovazione deve essere piuttosto nell’insegnamento al ricorso di questo nuovo strumento giuridico, sarà necessario “educare” i cittadini a fare riferimento prima, o anche esclusivamente, a questi mezzi alternativi di risoluzione delle controversie; solo in questo modo si potrà davvero raggiungere il tanto sospirato effetto deflattivo.-
Ma non bisogna scaricare il peso delle inefficienze della Giustizia Italiana sulle spalle dei cittadini; certo, forse è un po’ troppo diffusa l’abitudine di rivolgerci agli organi di giustizia per ogni piccolo problema, che magari potremmo risolvere diversamente, ma non si può colpevolizzare il cittadino che fa ricorso alla magistratura, per vedersi tutelare i propri diritti, di aumentare il numero dei processi in Italia.-
Ma perché in Italia questi strumenti deflazionistici hanno avuto scarso successo? Proviamo a rispondere con una precisa descrizione della dott.ssa Caggiano [8] :
“Le ragioni dello sviluppo del fenomeno negli Stati Uniti (così come nel Regno Unito), secondo parte della dottrina, sarebbe dovuto ad una cultura ed un atteggiamento, propri dei paesi anglosassoni, maggiormente liberali rispetto all’impronta statalistica e paternalistica di stampo continentale. Seguendo questa linea di analisi, si può sostenere che, all’opposto, in realtà come quella italiana, ove vi è un diffuso sentimento della collettività animato da diffidenza verso i modelli stragiudiziali compositivi delle liti (principalmente di tipo conciliativo), questo atteggiamento sia il riflesso della radicata concezione ideologica per cui lo Stato è il principale depositario dell’amministrazione della giustizia. Tale presupposto ideologico troverebbe spazio nella società civile per effetto della posizione – anch’essa di netto sfavore – assunta dal complesso degli operatori giuridici”.-
Se rivoluzione deve essere, questa deve partire dal basso, e coinvolgere tutti i soggetti che appartengono al mondo del diritto.-
In primis i Giudici, che probabilmente si sentono “esautorati” da questa riforma, percepita da alcuni come una “ingiustizia”, perché suona come una condanna per la Magistratura e la sua incapacità di conferire ai processi una ragionevole durata e darebbe adito ad una privatizzazione della giustizia civile.-
In realtà le cose non stanno propriamente così; certo il sistema giuridico in Italia è al collasso, ma non tutte le colpe possono essere attribuite ai Magistrati.-
In Italia il numero dei Magistrati togati è indubbiamente inadeguato rispetto al numero dei procedimenti pendenti, gli strumenti operativi a loro disposizione sono insufficienti; tutto questo crea ritardi su ritardi e fissazioni di udienze a distanza di mesi, se non di anni, con buona pace della previsione della Cassazione innanzi descritta.-
Le conciliazioni stragiudiziali, per essere buone, esigono un’amministrazione della giustizia efficiente, in modo che non vi sia una parte indotta a speculare sulle durate processuali per fare accettare al suo avversario una conciliazione cattiva.-
Per questo motivo si ribadisce ancora una volta il concetto per cui la mediazione può essere un ottimo strumento di filtro di tutte quelle cause, che possono essere transatte facilmente e al di fuori di un giudizio, solo, e soltanto, se si riuscirà a creare una forma mentis orientata verso la conciliazione.-
Poi ci sono gli avvocati, forse un po’ troppo spaventati dalla riforma, forse, ingiustamente, convinti di non essere in grado di portare avanti questa nuova sfida.-
L’avvocato ha, invece, come giustamente osservato qualcuno, “l’occasione propizia per comprendere che il suo luogo di lavoro non è necessariamente il Tribunale, anzi, lo è molto poco il foro, perché il miglior avvocato è quello che in Tribunale ci va poco o nulla. Egli, infatti, deve eleggere quale luogo di lavoro la capacità di dialogo col cliente, ovvero l’incontro con la persona ed il suo problema, la sua richiesta, la sua necessità, la sua istanza. Di conseguenza, il legale deve comprendere come il problema del suo assistito prima si risolve, meglio è, promuovendo e pubblicizzando il tentativo di conciliazione come istituto teso alla soddisfazione degli interessi dei contendenti, quindi avente un’alta funzione sociale”.-
Un compito essenziale deve anche essere svolto dalle parti, le quali dovranno acquisire la mentalità della mediazione, cioè che in alcuni casi si può regolare prima la controversia, spendere di meno ed ottenere il giusto.-
Quando si tratta di soldi, ovviamente il creditore preferisce ottenerne “pochi, maledetti e subito”, piuttosto che tutti e benedetti dal giudice, ma chissà quando: questo dovrebbe essere lo sponsor a favore della mediazione!
Poi ci sono gli altri vantaggi della mediazione, già accennati, ma che occorre ribadire: la procedura in esame è riservata, perché consente alle parti di comunicare in un ambiente protetto e sicuro; è economica, perché i costi sono ridotti in rapporto a quelli previsti per la giustizia ordinaria; è veloce perché in media, la procedura si esaurisce in un solo incontro; flessibile, perché le regole procedurali si adattano alle concrete esigenze delle parti; costruttiva, perché consente di mantenere, rinforzare ed eventualmente recuperare il rapporto professionale fra le parti; priva di rischi, perché avviata la procedura conciliativa, le parti non sono obbligate a raggiungere un accordo e nessuna decisione viene loro imposta.-
Ma questa mentalità da “costruire”, che ben si adatta alla ipotesi di conciliazione facoltativa, come si relaziona con tutte quelle ipotesi di conciliazione obbligatoria? Come detto sopra, ritengo che la “coercizione a conciliare” possa trasformarsi in una arma a doppio taglio, che potrebbe essere concepita come un inutile perdita di tempo, una inutile attesa di 4 mesi prima di poter accedere alla giustizia, ulteriori spese, e la minaccia di una condanna al pagamento delle spese di controparte, anche in caso di propria vittoria, se l’esito del giudizio rispecchia la proposta di conciliazione.-
Poi ci sono i conciliatori, i veri protagonisti di questa riforma.-
La legge ha previsto la possibilità di forgiare, attraverso, corsi di alta formazione, autorizzati dal Ministero della Giustizia, queste nuove figure professionali, non per forza avvocati o laureati in legge, cosa, forse, non tanto condivisibile.-
E’ chiaro che la formazione di taglio forense per un mediatore costituisce una arma in più per la soluzione della controversia (rectius per l’emersione delle contrapposte posizioni da cui far derivare un accordo).-
Un mediatore avvocato ha, probabilmente, una forma mentis più abituata a risolvere situazioni di diritto, a percepire i bisogni e gli interessi di giustizia sottintesi alle pretese delle parti, a “partorire” una soluzione quanto più giuridicizzata, tenendo sempre bene a mente, però, che la “gestazione” può anche essere affrontata con norme di diritto, come abbiamo visto quando abbiamo parlato, sopra, della figura del mediatore.-
Personalmente ritengo che, in fattispecie abbastanza complesse, una relazione, in quanto a preparazione, si presume di pari livello, fra il mediatore (avvocato) e gli avvocati delle parti, possa essere la soluzione ideale e la vera fortuna di questo istituto.-
Non va sottaciuto che v’è chi ritiene che il mediatore non abbia necessità di essere uno specialista della materia trattata nell’incontro, in quanto, specie nella mediazione facilitativa, che termina senza la sua proposta, è sufficiente che sia ben preparato nel condurre gli incontri, nell’ascoltare le parti e nel comprenderle; sarebbe possibile, infatti, per i sostenitori di questa tesi, che le conoscenze specialistiche possano comportare il rischio della formazione di pregiudizi nel mediatore [9] , che si traducono in ostacoli all’aiuto alla negoziazione delle parti.-
L’obiettivo, mica tanto celato, del legislatore è anche quello di creare nuovi posti di lavoro.-
Concludendo, la scelta del Legislatore, di introdurre questo nuovo istituto è, a ben vedere, davvero apprezzabile.- Ma non per tutti.-
Infatti, sembra esserci un pessimismo dilagante nei confronti di questa procedura.-
Sempre dall’elaborato del Chiarloni si legge: “In conclusione mi aspetto che l’effetto di deflazione sul processo ordinario sarà trascurabile. Sia perché in regime di tentativo obbligatorio non si può capire se almeno una delle parti ha disponibilità alla conciliazione o se invece il procedimento di mediazione viene attivato solo per adempiere al comando legislativo, sia e soprattutto perché l’enorme numero di procedimenti potrà indurre i conciliatori ad un atteggiamento di resa burocratica senza un particolare impegno a procurare la conciliazione. Né si può fare a meno di prendere in considerazione gli interessi e i possibili atteggiamenti delle parti. Sovente la controversia civile vede una parte (di solito il futuro convenuto) interessata a speculare sulle durate processuali. Sovente appariranno sulla scena convenuti interessati a tirare in lungo la procedura di mediazione e a tenere l’atteggiamento opportuno per ottenere questo risultato. Senza contare poi che i quattro mesi preveduti dall’art 6 potranno incoraggiare i violatori più scaltri dei diritti dell’avversario a farsi attori in accertamento negativo, magari scegliendo un organismo lontano e scomodo da raggiungere, nella speranza che la controparte preferisca non presentarsi. Il che offre il destro per osservare che non aver legato la scelta dell’organismo di conciliazione alla competenza dell’organo giurisdizionale può prestarsi ad abusi. Senza contare l’eventualità che i diversi organismi sparsi sul territorio vengano investiti delle procedure di mediazione secondo quantità irrazionalmente disomogenee, con eccessiva concentrazione presso alcuni, a danno di altri […]Non c’è solo il problema dell’impatto dei quattro mesi sulla durata di molti processi. Si profila anche il problema di un non irrilevante rincaro dei costi per le parti. Non tanto per il compenso da corrispondere al conciliatore, comunque non trascurabile quando il valore sia elevato, come capiterà per una percentuale non piccola delle controversie sottoposte a mediazione obbligatoria. Quanto per gli onorari dovuti all’avvocato a causa dell’aumento delle incombenze che gli vengono richieste”.
Il tentativo di escogitare sistemi più o meno nuovi, più o meno astrattamente efficaci, diretti a ridurre il numero delle controversie, che varchino la soglia delle aule di giustizia non è, come ritenuto da alcuni, pregno di conseguenze potenzialmente negative, ma può essere uno strumento, con qualche piccolo ritocco, davvero funzionante.-
L’impressione che si ha è quella di un intervento normativo che, per ovviare agli insuccessi dei suoi predecessori in tema di acceleramento dei tempi dei processi civili, i quali introducevano istituti diretti ad operare all’interno del processo, questa volta il medesimo risultato si stia cercando di conseguire anticipando il giudizio, favorendo soluzioni di compromesso, che poi sono alla base del nuovo istituto.-
Alla luce di quanto esposto e rilevato, la mediazione sembra poter davvero funzionare esclusivamente laddove abbia natura facoltativa; solo in questo modo, infatti, le parti che, libere da qualsiasi vincolo di legge, decidessero di provare a risolvere la querelle lontano dal banco del giudice, darebbero ab origine dimostrazione di quella necessaria buona volontà, che è presupposto indefettibile della risoluzione della lite in sede stragiudiziale.-
Avv. MicheleAlfredo Chiariello
Conciliatore Specializzato
Note
- Appare utile riportare alcune definizioni di mediazione: per BONAFÉ-SCHMITT: “la mediazione è un processo, spesso formale, per il quale un terzo neutro tenta, attraverso l’organizzazione di scambi tra le parti, di permettere loro di confrontare i loro punti di vista e di cercare con il suo aiuto una soluzione al conflitto che li oppone; per CASTELLI: “La mediazione è un processo attraverso il quale due o più parti si rivolgono liberamente ad un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto. La mediazione mira a ristabilire il dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale della mediazione si realizza una volta che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio e di tutti i soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità decisionale”; CARBONNIER: «qualunque modo informale, insolito, di risoluzione da parte di un terzo di conflitti che avrebbero potuto essere a priori risolti formalmente da un giudice tradizionale».-