La distinzione tra verità “nel” processo e verità “del” processo. Il banco di prova dei reati di false dichiarazioni (art. 371 e ss. c.p.) nella prospettiva degli incerti rapporti tra deontologia e indagini difensive di carattere testimoniale (*)
di Giuseppe Losappio

(*) Testo della relazione presentata al Seminario di studi in deontologia forense “Verità, deontologia e processo penale” (Bari, 21 dicembre 2009), organizzato dal Dipartimento per lo studio del diritto penale, del diritto processuale penale e della filosofia del diritto, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari


Sommario:

















1.Verità “del” e verità “nel” processo penale. – È buona norma introdurre una riflessione sulla quale incombe un titolo così ambizioso con qualche excusatio non petita. Eviterò questo espediente retorico perché ogni precisazione sul tema della verità, qualunque significato si attribuisca o si neghi al lemma, non è affatto risolutiva; al contrario, come nella dinamica dei frattali, impone un onere di ulteriore precisazione, e così via all’infinito; sicché una precisazione senza precisazioni sarebbe fuorviante e quindi disnomica ma non diverso sarebbe l’effetto delle precisazioni a cascata pur necessarie per chiarire il significato di ciascuna proposizione. Meglio lasciar perdere, dunque, confidando che il lettore saprà/vorrà giustificare quest’opzione che intendo osservare anche in relazione al non meno problematico accostamento tra la verità e il processo.
Affermo, senz’altro, quindi, che assumo il termine “verità” – semplicemente, si fa per dire – in due accezioni: la verità del processo, quella della sentenza, l’unico atto del giudizio suscettibile di assumere il carattere dell’irrevocabilità e, quindi, della verità/validità; la verità “nel” processo – quello penale, in particolare – inteso in senso lato, comprensivo anche della fase comunemente indicata come procedimentale; è la “verità” delle prove e dei corrispondenti (o non corrispondenti) strumenti di ricerca della prova, la “verità” delle sommarie informazioni testimoniali, la “verità” della prova testimoniale, in particolare.
Quando si accosta la verità al processo si opera un giudizio di valore il quale si struttura secondo una relazionalità doppiamente triangolare:
1. A
2. giudica
3. “vero”
4. X
5. “in funzione di”
6. Y;
dove A è il giudice, X è il fatto oggetto dell’ipotesi accusatoria; Y sono le prove.
Verità “del” processo = corrispondenza a verità “nel” processo, dunque; sennonché almeno su questa relazione bisogna intendersi.
La verità del processo è il prodotto performativamente costituito dal giudizio consacrato mediante l’irrevocabilità della decisione. Si dice che veritas, non auctoritas facit iudicium, ma poi si deve precisare che il concetto di verità processuale, deducibile dalla Costituzione, non è quello di «una verità sostanziale, assoluta, materiale», bensì quello di «una verità formale, debole, relativa perché umana, “che non pretende di essere la verità”». La verità del processo è sì corrispondenza alla verità nel processo, ma solo alle condizioni di validità previste dal diritto processuale penale. Lex, non veritas facit iudicium, volendo. Giusto, pertanto, osservare che «un processo penale garantisticamente concepito vive … nel ragionevole dubbio che l’approdo finale sia ineluttabilmente fallace; un dubbio che diventa addirittura atroce, quando il predicato finale è la colpevolezza dell’imputato» (virgolettati di V.GAROFOLI, Il concetto di verità tra diritto e processo, in www.treccani.it/…/sito/…/1_Garofoli_concetto_verita.html); un dubbio atroce che, nella cornice descritta dalle condizioni di validità processuali, postula che la verità del processo è corrispondenza alla verità nel processo, in senso negativo, innanzitutto. Se le prove non offrono al giudice la certezza che la verità nel processo decreta la colpevolezza dell’imputato, la verità del processo sarà l’assoluzione. L’assenza di verità nel processo non impedisce la formazione di una verità processuale, sia perché il giudice nel processo penale non può astenersi dal giudizio sia perché, manco a dirlo, in dubio pro reo.
Verità nel processo e verità del processo, pertanto, devono corrispondere, non possono non corrispondere integralmente, solo nel caso in cui l’imputato sia dichiarato colpevole; altrimenti la corrispondenza sarà solo eventuale. Ad ogni modo, anche nel caso di corrispondenza – sia essa necessaria ovvero eventuale, integrale o parziale – la natura della verità del processo e quella della verità nel processo restano differenti; la verità nel processo conserva in ogni caso un carattere anfibio e composito: è in parte validità ma è anche storia, memoria, racconto, rappresentazione.


2. Validità = verità ? La critica alla luce della giurisprudenza sul c.d. falso giuramento. – La corrispondenza tra verità del processo e verità nel processo, declinata attribuendo ai due termini significati e referenti in parte diversi, non è universalmente condivisa; non la condivide, tra gli altri, chi sostiene che i reati di falso documentale e le falsità nelle dichiarazioni previste dal codice penale confermano e non confutano l’opzione unitaria poiché, alla stessa stregua della verità del processo, descriverebbero “fenomeni di volizione”, regolati da condizioni di validità.
Tutti i reati di falso documentale « … si configurano quali accadimenti concernenti la genuinità soggettiva della confezione dei documenti e non riguardano la verità/falsità dei messaggi contenuti nel documento quale supporto/veicolo. La natura dell’alterazione penalistica è genetica non assiologia, riguarda la prassi della loro genesi intenzionale e non la loro valutazione a livello probatorio (=attendibilità nel processo). Analogamente opera il falso testimoniale il quale riguarda il rapporto del teste con se stesso e non il riferimento di ciò che ha dichiarato con inesistenti paradigmi autosussistenti. Da un altro punto di vista può anche affermarsi che, essendo i fenomeni giuridici fenomeni di volizione e di intenzionalità, e non dichiarazioni di scienza, ogni norma e ogni fenomeno giuridico fuoriesce dalla griglia “vero/falso”» (G.M. PRATI, “Verità processuale e verità storica” anatomia di due antiche nozioni per una nuova sofia del valore, in www.sinalogia.org/filodia/verita_processuale_e_storica.pdf).
Come per la verità del processo, la verità nel processo non farebbe riferimento all’endiadi vero o falso, bensì a quella valido/invalido da cui dipenderebbe la capacità dell’atto – sia esso il documento pubblico o il verbale di prova o di S.I.T. – di produrre effetti. Sennonché, tra i molti rilievi che si possono opporre criticamente a questa lettura, due sembrano davvero insuperabili:
a. la verità/falsità dell’atto è essa stessa una condizione della validità e soprattutto di efficacia, nel senso che la falsità può rendere invalido e/o inefficace un atto che altrimenti sarebbe in tutto e per tutto valido ed efficace. L’affermazione è di un’evidenza solare e non abbisogna di dimostrazione.
b. Il codice penale punisce la falsità nel processo a prescindere dalla validità/efficacia/rilevanza probatoria di un atto. Solo l’inesistenza e, in alcuni casi, la nullità, tolgono rilievo alla falsità dell’atto. Altri vizi/elementi di inefficacia sono irrilevanti, in tal senso.
Questa affermazione trova puntuale riscontro, sotto diversi profili, in numerose decisioni della giurisprudenza:
b.1. validità/verità (autonomia formale tra verità nel processo e validità). Secondo un indirizzo piuttosto consolidato « … ai fini della configurabilità del reato ex art. 371, c. 1°, non hanno alcuna rilevanza l’irregolarità o l’invalidità ovvero l’inammissibilità del giuramento secondo le norme civili, a meno che si tratti di vizi talmente gravi da far escludere la stessa qualificazione dell’atto come giuramento (…). È stato osservato in dottrina che l’art. 371 c.p. prescinde dalla conformità del giuramento alle norme civilistiche che disciplinano l’istituto, per cui il giudice penale non è tenuto ad operare una rivalutazione della conformità dell’atto a dette norme. L’interesse penalmente protetto dalla norma è rappresentato dall’esigenza di tutelare la veridicità della dichiarazione giurata, ai fini della corretta amministrazione della giustizia civile, stante il valore di prova legale che l’ordinamento annette al giuramento, per cui una volta ammesso il giuramento decisorio da parte del giudice civile sono realizzati i presupposti per la commissione del delitto di cui all’art. 371 c.p. e lo spergiuro consumato non può venire meno per effetto delle vicende del processo civile, nè in relazione a ipotesi di invalidazione del giuramento» (così Cass. pen., sez. VI, 12 febbraio 2008, n. 21730, in www.giuffre.dejure.it (anche in Cass. pen. 2009, 6, 2455)).
In termini ancora più netti – secondo Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio 2003, n. 15096 (in Cass. pen., 2004, 872) – «Una volta ammesso il giuramento decisorio da parte del giudice civile sono irreversibilmente realizzati i presupposti per la commissione del delitto di cui all’art. 371 c.p. e lo spergiuro consumato non può essere messo nel nulla dalle successive vicende del processo civile, pur se tali da condurre all’invalidazione del giuramento medesimo»; né – avverte Cass. pen., sez. VI, 11 febbraio 1999, n. 5599 (in Riv. pen. 1999, 545) – «Ai fini della configurabilità del reato di falso giuramento della parte (art. 371 c.p.), … non spetta al giudice penale alcun sindacato in ordine all’ammissibilità della formula adottata in sede civile, le cui eventuali lacune, o improprietà non possono essere quindi addotte dall’imputato a propria giustificazione avendo egli in ogni caso l’obbligo, assoluto – la cui osservanza o mezzo deve formare oggetto esclusivo dell’accertamento in sede penale – di dire il vero»
«L’antigiuridicità del reato di falso giuramento della parte prescinde dal particolare contenuto privatistico del giudizio cui il giuramento si riferisce e l’indagine sul dolo si riduce all’accertamento della coscienza e volontà che abbia avuto la parte di giurare il falso» (Cass. pen., 6 novembre 1979, in Cass. pen., 1981, 536). «Il falso giuramento della parte, su deferimento d’ufficio in base ad ordinanza successivamente revocata per la ritenuta inammissibilità del mezzo di prova suppletorio, che di conseguenza non abbia esplicato alcuna influenza nella decisione della lite, conclusasi in senso difforme dalla pretesa del giurante, non integra l’ipotesi del reato impossibile per inidoneità dell’azione o per inesistenza dell’oggetto di essa ai sensi dell’art. 49 c.p. Deve essere ritenuta la inoffensività della falsa dichiarazione giurata dalla parte solo quando la forza probante di questa si debba escludere per caratteri ad essa propri (come, ad esempio, che il giuramento verta su un fatto insuscettibile di conoscenza o su un’opinione) e non già per le vicende che il mezzo possa subire nel corso ulteriore del processo, come può avvenire se esso viene reso inoperante per la revoca della sua ammissione» (Cass. pen., 26 ottobre 1979, in Cass. pen., 1981, 768).
Ancora: « … in materia di nullità vige il principio della tassatività, di cui all’art. 177 c.p.p., da cui consegue che possono essere dichiarati dal giudice solo i vizi dell’atto per i quali la sanzione della nullità sia stabilita in via generale o particolare, con carattere di assolutezza o relatività. La nullità del verbale può essere perciò dichiarata a norma dell’art. 142 c.p.p. solo se vi è incertezza assoluta circa le persone intervenute e se manca la sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto ( … ). La mancata sottoscrizione da parte del dichiarante non è invece, di per sé sola, causa di nullità del verbale delle dichiarazioni rese al pubblico ministero da persona che sia stata richiesta di fornire informazioni ai fini delle indagini. Ne consegue che … la mancata sottoscrizione del suddetto verbale da parte della persona richiesta di fornire informazioni non vale ad escludere la configurabilità del reato di cui all’art. 371 bis, tutte le volte che vi sia stata la sottoscrizione del verbale da parte del pubblico ufficiale e che non vi siano incertezze sulle persone intervenute» (Cass. pen., sez. VI, n. 11 gennaio 2005, n. 5718, in www.giuffre.dejure.it).
Per converso «Il reato di falso giuramento della parte non sussiste ogni qualvolta il giuramento decisorio venga ammesso da un organo privo in modo assoluto di competenza oppure risulti da un atto che debba considerarsi viziato da inesistenza giuridica» (Cass. pen., 23 novembre 1978, in Cass. pen., 1980, 698).
Vizi di natura o portata diversa dall’inesistenza o dalla nullità processual-penale, invece, non travolgono la falsità dell’atto. Ad esempio: «Ai fini della configurabilità del reato previsto e punito dall’art. 371 (falso giuramento della parte), è irrilevante la mancata ammonizione del giudice civile sull’importanza dell’atto e la inosservanza delle forme del giuramento» (Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 1981, in Cass. pen., 1982, 1975). È irrilevante anche l’inutilizzabilità dell’atto (Cass. pen., SS.UU., 27 giugno 2006, n. 32009).
La giurisprudenza penale mette, altresì, al bando ogni “formalismo”: «L’inalterabilità della formula di rito non vale a giustificare il malizioso spergiuro, avendo il giurante il potere-dovere di apportare le aggiunte e le varianti a detta formula che ne costituiscono semplice chiarimento per il rispetto della verità. (Fattispecie in tema di giuramento decisorio in procedimento civile)» (Cass. pen., sez. VI, 16 novembre 1989, in Cass. pen. 1991, I,1223). «Il delitto di falso giuramento sussiste solo per il fatto che il giurante abbia attestato il falso su uno o più punti della formula deferitagli, perché l’antigiuridicità del falso giuramento prescinde dal contenuto privatistico del giudizio civile cui l’incombente si riferisce. In tema di falso giuramento della parte, non è sostenibile dall’imputato la mancanza di dolo per essere stato indotto in errore dalla formula del giuramento, poiché, se egli riteneva che la formula presentava punti ambigui od oscuri o comunque non conteneva una circostanza rilevante, avrebbe potuto introdurre chiarimenti e precisazioni, non di ordine sostanziale, in modo da renderla più chiara» (Cass. pen., sez. VI, 9 giugno 1989, in Cass. pen., 1991, I, 244). « … spetta al giudice valutare se la prova debba ritenersi costituita attraverso il giuramento oppure se le circostanze aggiunte si risolvano in variazioni sostanziali della formula tali da far ritenere che il giuramento formalmente prestato sia stato in effetti rifiutato» (Cass. pen., sez. VI, 4 giugno 1985, in Giust. pen., 1986, II, 642).
b.2. Falsità/rilevanza (autonomia sostanziale tra verità del processo e verità nel processo). La giurisprudenza è altresì costante nel senso che l’aspetto oggettivo del falso punito ex art. 371 c.p. prescinde dalla rilevanza e decisorietà, nell’ambito del giudizio civile, dei fatti e delle circostanze su cui è stata dedotta la formula deferita alla parte.
«Il delitto di falso giuramento della parte, definito dalla vecchia dottrina come delitto di spergiuro di carattere commissivo, non richiede, contrariamente all’assunto del ricorrente, che si cagioni un danno diverso da quello che inerisce necessariamente alla lesione del dovere di veridicità, quale imposto dalla legge penale, e ciò:
– sia che si individui il bene protetto dal disposto dell’art. 371 cod. pen., nel normale funzionamento dell’attività giudiziaria, – sia che si ritenga in tale ambito prevalente la tutela della veridicità della dichiarazione giurata, tenuto conto del valore di prova legale annesso al giuramento stesso ( … ).
In tale prospettiva, per pluriennale giurisprudenza della Corte ( … ) è del tutto indifferente, per l’integrazione del delitto, che il giudice civile abbia oppure non abbia pronunciato sentenza in base al falso giuramento, non competendo comunque al giudice penale alcun potere di indagine sulla rilevanza e decisorietà, per il giudizio civile, dei fatti e delle circostanze dedotte e consacrate nella formula (…)
» (Cass. pen., Sez. VI, 12 dicembre 2007, in www.giuffre.dejure.it (in Cass. pen., 2008, p. 4181 )).
Questo perché «Nel delitto di falso giuramento della parte, l’interesse penalmente protetto riguarda l’esigenza di tutelare la veridicità della dichiarazione giurata, in funzione della corretta amministrazione della giustizia civile, stante il valore di prova legale che l’ordinamento attribuisce al giuramento. Pertanto non è consentito valutare, agli effetti penali, l’ammissibilità o la decisorietà del giuramento secondo i parametri della legge civile o prendere in considerazione le conseguenze che il giuramento prestato abbia prodotto nel giudizio civile, in quanto, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 371 c.p. occorre accertare soltanto se la dichiarazione giurata sia in tutto o in parte falsa» (Corte app. Milano, 14 maggio 1992, in Giur. mer., 1992, 1218).


3. Verità e processo. Suggestioni letterarie. – «Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. I princìpi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie. Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi princìpi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle. Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace d’istruirci» (Blaise Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Mondadori, Milano, 1968, p. 116-117). Come dire, secondo la sintesi lapidaria di Grazia Deledda, che «La vita è prima della verità» (La giustizia, Edizione Classici Biblioteca economica Newton n. 52, Newton Compton editori, Roma, 1996. Edizione originale: Speirani, Torino, 1899, p. 107). La verità non è «quiete» è un nido nel mare in tempesta, potremmo aggiungere con Alessandro Baricco (Oceano mare (1993), X edizione, Milano, BUR, 2001, p. 121). Verità nel processo e verità del processo sembrano i termini di un’aporia, se è vero, come sostenne Italo Calvino, che la ricchezza della verità non si presta a farsi riconoscere attraverso la «necrosi imposta dalle istituzioni» (Il paradosso, settembre-dicembre, 1960, n. 23-24, pp. 11-18, in ID., Palomar, Oscar Mondadori, Milano, 2002). Se così fosse, la verità del processo sarebbe altra cosa rispetto al processo, che per sua stessa natura è istituzione; la verità – per dirla con Scott Turow – sarebbe tutt’altro che “domestica” nelle aule dei tribunali (The law of Our Father (1996), trad it. di Laura Grimaldi, Oscar Mondadori, Milano, 2000, p. 429).


4. La verità storico-soggettiva della testimonianza. Cenni di psicologia giuridica. – È solo un puzzle di suggestioni letterarie senza alcuna pretesa di scientificità. Questo crisma – semmai – compete alla psicologia giuridica, il “sapere” che da tempo va elaborando un corposo bagaglio di conoscenze tese a definire la struttura e la fenomenologia della testimonianza insieme con i metodi per saggiare l’attendibilità di un teste e di una deposizione.
Non mette conto in questa sede – non ho, in ogni caso, le competenze per farlo – un approfondimento della materia. Basta, in funzione della riflessione che stiamo svolgendo, soffermarsi su alcune informazioni basilari. È sufficiente ricordare, pertanto, che la testimonianza attiva «processi inconsapevoli di rievocazione» che si sviluppano mediante un’attività ricostruttiva più che riproduttiva, allo scopo «di dare un senso compiuto al materiale frammentario disponibile in memoria». Detta attività non è mai «una riproduzione fedele, completa e completamente accurata di un evento». La condotta di narrazione, infatti, implica «l’attivazione della cosiddetta memoria reintegratrice utilizzata, inconsapevolmente per dare un senso compiuto alla rievocazione».
È del tutto consueto che, in questo processo, colui che agisce non ricordi elementi di base ed imprescindibili dei fatti accaduti, ovvero che confonda la realtà, scambiando circostanze di ricordi diversi e, quindi, anche inserendo nel racconto elementi “di fatto” inesistenti.
L’attivazione della memoria reintegratrice, infatti, si esplica anche mediante la razionalizzazione del ricordo: l’evento tende ad essere rielaborato secondo gli schemi logici e la conoscenza generale del soggetto in modo che sia maggiormente comprensibile e credibile, infatti. Molto incidono – in questo processo – la durata e la frequenza di esposizione allo stimolo: «maggiore è il tempo di esposizione allo stimolo e la sua durata, migliore è l’accuratezza del ricordo racconto»; anche «la ripetizione dello stimolo può favorire la formazione di uno schema mentale stereotipo (ovvero un racconto fisso e invariabile)»; viceversa non sembra che la sollecitazione nel raccontare il fatto nel corso degli anni, produca effetti di consolidazione e affinazione del ricordo; anzi è probabile che si verifichi un deterioramento (il virgolettato appartiene a Leonardo ABAZIA – Alessia CORONATO – Ilaria VITIELLO, La psicologia della testimonianza un caso, in www.psicamp.it/public/opere/61.doc)
Decisivo – s’intende – il tempo intercorso tra acquisizione e recupero. È una variabile che in linea di tendenza risponde ad una sorta di legge di proporzionalità inversa per cui in genere all’aumentare della distanza di tempo tra evento e ricordo, il ricordo peggiora progressivamente.


5. La giurisprudenza penale sui reati di mendacio dichiarativo. Cenni. – La complessa natura della testimonianza – cui s’è fatto appena cenno – trova un’eco non del tutto nitida nella giurisprudenza degli ultimi venti anni sui reati di mendacio nelle dichiarazioni.
I giudici tendono, infatti, a disarticolare la complessità della testimonianza tra elementi che riguardano l’aspetto oggettivo ed elementi che riguardano l’aspetto soggettivo del reato.
Il primo è tendenzialmente determinato nel contrasto tra ciò che il teste conosce e ciò che racconta: «L’elemento materiale del delitto di cui all’art. 371 bis c.p., consiste, infatti, nella difformità tra quanto un soggetto dichiara al pubblico ministero e ciò che il medesimo effettivamente conosce sui fatti in ordine ai quali è interrogato» (Cass. pen., sez. VI, 17 luglio 2008, n. 34749, in www.giuffre.dejure.it). Così pure –ancora più chiaramente – si legge che « … la falsità delle dichiarazioni di cui agli art. 372 e 371 bis c.p. è data dalla difformità delle stesse non dalla realtà, ma da quanto è a cognizione del dichiarante» (Cass. pen., sez. VI, 11 ottobre 2006, n. 1366, in Guida dir., 2007, 8, 94). Non mancano tuttavia decisioni di segno almeno apparentemente diverso secondo le quali il falso non deve essere commisurato alle conoscenze del teste, ma ad una non meglio precisata verità: «Il reato di falso giuramento della parte è configurabile ogni volta che vi sia contrasto fra quanto viene giurato e la verità obiettiva, non essendo rilevante che tale contrasto sia totale o parziale o che il falso interessi uno o più punti della formula del giuramento» (Cass. pen., sez. VI, 6 maggio 1988, in Cass. pen. 1990, I,848). È un indirizzo, invero, minoritario che recupera la relazione tra ciò che il teste sa e quello che espone sotto il profilo dell’aspetto soggettivo, imperniando la prova del dolo appunto sulla differenza tra quello che il teste ha esposto e ciò che sapeva.


6. La verità storico-soggettiva della testimonianza e le regole deontologiche delle indagini difensive. – Il codice di deontologia forense contiene diverse disposizioni volte a regolare il “rapporto” del difensore con la verità, quella del testimone in particolare.
Il principio generale è sancito dall’art. 14, c. 1°, secondo cui «Le dichiarazioni in giudizio relative alla esistenza o inesistenza di fatti obiettivi, che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato, e di cui l’avvocato abbia diretta conoscenza, devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore».
Il c. 2, altresì precisa che «L’avvocato non può introdurre intenzionalmente nel processo prove false. In particolare, il difensore non può assumere a verbale né introdurre dichiarazioni di persone informate sui fatti che sappia essere false». Vale richiamare altresì, l’art. 36, c. 1°, nella parte in cui dispone che «L’avvocato ha l’obbligo di difendere gli interessi della parte assistita nel miglior modo possibile nei limiti del mandato e nell’osservanza della legge e dei principi deontologici. I. L’avvocato non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose, né suggerire comportamenti, atti o negozi illeciti, fraudolenti o colpiti da nullità». Di fondamentale importanza, nella materia in esame, è la disposizione dell’art. 52:
«L’avvocato deve evitare di intrattenersi con i testimoni sulle circostanze oggetto dei procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti.
I. Resta ferma la facoltà di investigazione difensiva nei modi e termini previsti dal codice di procedura penale, e nel rispetto delle disposizioni che seguono.
1. Il difensore di fiducia e il difensore d’ufficio sono tenuti ugualmente al rispetto delle disposizioni previste nello svolgimento delle investigazioni difensive.
2. In particolare il difensore ha il dovere di valutare la necessità o l’opportunità di svolgere
investigazioni difensive in relazione alle esigenze e agli obiettivi della difesa in favore del proprio
assistito.
3. La scelta sull’oggetto, sui modi e sulle forme delle investigazioni nonché sulla utilizzazione dei risultati compete al difensore.
4. omissis
5. Il difensore ha il dovere di mantenere il segreto professionale sugli atti delle investigazioni difensive e sul loro contenuto, finché non ne faccia uso nel procedimento, salva la rivelazione per giusta causa nell’interesse del proprio assistito.
6. Il difensore ha altresì l’obbligo di conservare scrupolosamente e riservatamente la documentazione delle investigazioni difensive per tutto il tempo ritenuto necessario o utile per l’esercizio della difesa.
7. È fatto divieto al difensore e ai vari soggetti interessati di corrispondere compensi o indennità sotto qualsiasi forma alle persone interpellate ai fini delle investigazioni difensive, salva la facoltà di provvedere al rimborso delle spese documentate.
8. Il difensore deve informare le persone interpellate ai fini delle investigazioni della propria qualità, senza obbligo di rivelare il nome dell’assistito.
9. Il difensore deve inoltre informare le persone interpellate che, se si avvarranno della facoltà di non rispondere, potranno essere chiamate ad una audizione davanti al pubblico ministero ovvero a rendere un esame testimoniale davanti al giudice, ove saranno tenute a rispondere anche alle domande del difensore.
10. Il difensore deve altresì informare le persone sottoposte a indagine o imputate nello stesso procedimento o in altro procedimento connesso o collegato che, se si avvarranno della facoltà di non rispondere, potranno essere chiamate a rendere esame davanti al giudice in incidente probatorio.
11.omissis.
12. Per conferire, chiedere dichiarazioni scritte o assumere informazioni dalla persona offesa dal reato il difensore procede con invito scritto, previo avviso al legale della stessa persona offesa, ove ne sia conosciuta l’esistenza. Se non risulta assistita, nell’invito è indicata l’opportunità che comunque un legale sia consultato e intervenga all’atto. Nel caso di persona minore, l’invito è comunicato anche a chi esercita la potestà dei genitori, con facoltà di intervenire all’atto
».
Nella giurisprudenza della Cassazione e del CNF la prima regola della disposizione appena citata – regola complementare al reato di subornazione, previsto dall’art. 377 c.p. – è stata sottoposta ad un’interpretazione particolarmente restrittiva: «Non integra violazione del … c.d.f. il comportamento del professionista che, nel corso dell’udienza, si limiti a rivolgere ai testimoni in attesa di rendere la propria deposizione un mero invito a “dire la verità”, senza aggiungere altra espressione idonea a rappresentare un significato di minaccia, tale da incutere timore o da subornare i testi, e dunque semplicemente sollecitando i testi a riferire al magistrato la verità dei fatti» (C.N.F., 11 novembre 2006, n. 103, in Rass. Forense, 2007, 4, 1157).
Giova altresì richiamare un’importante decisione del C.N.F. (r.g. 265/2007 del 27 ottobre 2008) che ha offerto importanti indicazioni interpretative in ordine ad altri due aspetti dell’articolo in esame: l’omissione degli avvertimenti di cui ai punti nel verbale di S.I.T. redatte dal difensore, l’incompletezza della verbalizzazione.
I fatti oggetto del giudizio sono relativamente semplici: un giovane avvocato in prossimità di un’udienza dinanzi al Tribunale del Riesame depositava un verbale di investigazioni difensive contenente le dichiarazioni rese da “una persona informa sui fatti” nel quale si affermava genericamente che il dichiarante era stato ammonito ai sensi dell’art. 391-bis comma 3 c.p.p. senza specificare nello stesso verbale l’ora, la persona davanti alla quale l’interrogato era comparso, né fare menzione degli avvisi previsti dall’art. 52. Dopo il deposito, il Tribunale del Riesame rilevava una divergenza tra le S.I.T. verbalizzate dal difensore e le dichiarazioni registrate in un’alta S.I.T., già in atti. Il Tribunale segnalava la circostanza al P.M. che intraprendeva le indagini e comunicava la notizia di reato al Consiglio dell’Ordine territoriale per quanto di sua competenza.
Il C.N.F. rigetta il ricorso condividendo gli assunti della decisione impugnata (che aveva dichiarato la responsabilità disciplina del legale):
«Le dichiarazioni ricevute e le informazioni assunte in violazione di una delle disposizioni del C.D.F. e del C.P.P. non possono essere utilizzate. La violazione di tali disposizioni costituisce illecito disciplinare». «Le prescrizioni contenute nel terzo comma dell’art. 391-bis c.p.p. si intendono rispettate soltanto quando gli avvertimenti rivolti risultino analiticamente verbalizzati, così come è disposto per gli atti compiuti dal Giudice o dal P.M. non essendo sufficiente l’attestazione in merito predisposta dal difensore. … Nel caso di specie – correttamente – si è ritenuto sussistere una violazione del generico dovere di lealtà e correttezza di cui all’art. 6 del codice deontologico, in quanto all’epoca in cui è stato approvato il capo di incolpazione, non era ancora intervenuta la modifica dell’art. 52 del codice che oggi regola in modo più dettagliato e completo i rapporti con i testimoni e conferma comunque l’interpretazione che il Consiglio Nazionale intende seguire».
Peraltro – aggiunge il C.N.F. – la relazione di presentazione al Codice Deontologico Forense (C.D.F.) rinvia espressamente, per la specificità dei rami dell’avvocatura, a “sub-codici di settore” con verosimile riferimento soprattutto all’iniziativa deontologica dell’U.C.P.I.. Bisogna ritenere, pertanto, conclude il C.N.F., che le Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive integrino le disposizioni del C.D.F., di modo che nella disciplina delle S.I.T., effettuate dal difensore, trova applicazione anche l’art. 13 del citato regolamento, secondo cui «Le informazioni assunte dal difensore, secondo le previsioni degli articoli 391bis comma 2 e 391ter comma 3 del codice di procedura penale, sono documentate in forma integrale. Quando è disposta la riproduzione almeno fonografica possono essere documentate in forma riassuntiva» (c. 1°); «Nel verbale, redatto con le modalità previste al comma 1, sono specificamente indicati i mezzi impiegati. Esso è sottoscritto da tutte le persone presenti ed è conservato dal difensore ai sensi del comma 6 dell’articolo 3» (c. 2°) (c. 3° omissis).
Molto netta è la posizione del C.N.F. anche in materia di completezza della verbalizzazione. Al difensore che rivendicava il potere-dovere di omettere le dichiarazioni nocive alla posizione dell’assistito, il C.N.F. replica senza sfumature: «Nulla di più errato. Il difensore ha il dovere di rispettare tutte le disposizioni fissate dalla legge e deve comunque porre in essere le cautele idonee ad assicurare la genuinità delle dichiarazioni. Precipuamente, l’avvocato ha il dovere di verbalizzare tutto ciò che viene riferito nel corso dell’audizione. L’indagine difensiva è certamente finalizzata alla ricerca di elementi di prova a favore dell’assistito e, da questo punto di vista, una volta assunte le informazioni, il difensore ritenendo che le dichiarazioni non siano utili alla posizione del proprio cliente, può decidere di non produrre il relativo verbale; tuttavia, se il difensore ritiene di produrlo esso non può essere manipolato. L’avvocato deve cioè scegliere tra non presentarlo o presentarlo nella sua interezza, non potendo eliminare od omettere dichiarazioni sfavorevoli alla parte che egli assiste».
Poco più di due anni prima, del resto, con riferimento alla medesima vicenda, la questione era stata già risolta dalle Sezioni Unite della Cassazione penale con la sentenza 27 giugno 2006, n. 32009.
Il fulcro del contrasto “virtuale” risolto dalla sentenza, in realtà, riguardava la qualifica del difensore che raccoglie le dichiarazioni.
Come osserva la stessa Corte, nella parte introduttiva della motivazione, «il tema della qualificabilità come pubblico ufficiale del difensore che redige il verbale di dichiarazioni raccolte, in sede di investigazioni difensive, ai sensi degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.p., è al centro di un acceso dibattito dottrinario e giurisprudenziale, sfociato, quest’ultimo, anche nella rimessione alla Corte costituzionale di una questione di sospetta illegittimità delle norme sul presupposto che esse consentirebbero al difensore di confezionare un atto probatorio avente gli stessi effetti di quello della accusa, senza prevedere uguali obblighi di garanzia a tutela della genuinità della prova (Va rilevato, al riguardo, che il Giudice delle leggi, con ordinanza n. 264 del 20.6.2002, ha dichiarato la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza)».
La Corte, com’è noto, ha fatto propria la tesi che il difensore che redige il verbale di S.I.T. opera come pubblico ufficiale
Quanto al problema della completezza, la Corte ha deciso nei termini già enunciati sintetizzando la decisione del C.N.F., con una motivazione di particolare pregio e chiarezza, degna di nota.
La Cassazione muove dalla considerazione che il difensore non ha il dovere di cooperare alla ricerca della verità e che al professionista è riconosciuto il diritto di ricercare soltanto gli elementi utili alla tutela del proprio assistito. Al difensore, tuttavia, non è riconosciuto il diritto di manipolare le informazioni ricevute, ovvero di selezionarle verbalizzando solo quelle favorevoli. «L’interesse dell’Avvocatura – osserva maliziosamente la Corte – non può che essere quello di rendere la prova dichiarativa assunta dal difensore affidabile al pari di quella raccolta dall’accusa, mentre la tutela difensiva resta assolutamente integra e non riceve compromissione alcuna attraverso il riconoscimento legislativo della possibilità di non fare seguire al colloquio preventivo la sua verbalizzazione, nonché di omettere di utilizzare processualmente il verbale di dichiarazioni che contenga elementi sfavorevoli (art. 391 octies c.p.p.)».
Né si può ritenere – incalzano le SS.UU – che la possibilità di non utilizzare il verbale sfavorevole, lo renda un atto sui-generis che, per esempio, possa essere distrutto. La facoltà significa soltanto che il verbale può rimanere nella disponibilità privata del difensore, con esclusione – precisa, problematicamente la Corte – del falso ideologico fino al «momento in cui l’atto acquista giuridica rilevanza ai sensi dell’art. 391 octies c.p.p. e segg. non potendovi essere falsificazione ideologica punibile fino a quando il verbale rimane nell’ambito della facoltà di disposizione dell’agente» (vedi Cass., Sez. 5^, 1.2.1993, n. 834).
Del resto – prosegue la motivazione – se l’art. 327-bis c.p.p. «finalizza l’attività investigativa del difensore alla ricerca di elementi favorevoli ma rinvia, quanto alte forme da seguire, al titolo 6^ bis del libro 5^, ossia all’art. 391 bis c.p.p. e segg. e, tra l’altro, all’art. 391 ter c.p.p., che onera il difensore di autenticare “la dichiarazione” e non la sola sottoscrizione del verbale, con la conseguente ravvisabilità dell’esercizio di poteri tipici del pubblico ufficiale ex art. 2703 cod. civ.».
Inoltre « … il verbale che documenta le dichiarazioni sottostà, per espressa disposizione dell’art. 391 ter c.p.p., alle disposizioni del titolo 3^ del Libro 2^ ossia all’art. 134 c.p.p. e segg., in quanto applicabili. Tra queste disposizioni va ricordato l’art. 136 c.p.p., che disciplina il contenuto del verbale e impone al redigente di riportare tutto quanto avvenuto in sua presenza».
E ancora. Essendo destinato a provare fatti concreti, il verbale nel quale il difensore raccoglie le informazioni è destinato e a produrre gli stessi effetti processuali (perfetta equiparazione ai fini della prova) dell’omologo verbale redatto dal P.M., ed è quindi “logico” ritenere che «il difensore abbia gli stessi diritti e doveri del Pubblico Ministero per quanto riguarda le modalità di documentazione».
A fronte di questi rilievi, risulta irrilevante «la circostanza che, per la violazione del dovere di completezza della verbalizzazione, sia stata espressamente prevista (art. 391 bis c.p.p., comma 6) una sanzione disciplinare, perché ciò non significa che il legislatore abbia intenzionalmente stabilito di sanzionare solo in via disciplinare la violazione del dovere di fedele documentazione del difensore. La previsione del rilievo disciplinare di un fatto non ne esclude la rilevanza anche sotto i profili penali e nel sistema processuale si rinvengono norme (quali l’art. 115 c.p.p., art. 25 disp. att. c.p.p., art. 124 c.p.p.) che prevedono illeciti disciplinari per condotte che pacificamente sono perseguite pure penalmente quando integrino estremi di reato».
Altrettanto irrilevante è la circostanza che il delitto di false informazioni al difensore (art. 371-ter c.p.) non punisce la reticenza. «Il difensore, però, può fare ricorso alle particolari procedure previste dai commi 10 e 11 dell’art. 391 bis c.p.p., per ottenere le dichiarazioni della stessa persona dinanzi al P.M. o con incidente probatorio e, nella audizione ottenuta dinanzi al P.M. su richiesta del difensore (art. 391 bis c.p.p., comma 10), si applica la disposizione generale dell’art. 362 c.p.p., che disciplina le modalità di assunzione delle informazioni da parte del P.M., a sua volta contenente il rinvio all’art. 198 c.p.p., che sancisce l’obbligo del testimone di rispondere secondo verità»
Nulla infine rileva l’esonero del difensore e collaboratori dall’obbligo di denuncia, stabilito dall’art. 334 bis c.p.p..


7. Le regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive e le prospettive di riforma allo studio dell’U.C.P.I. – Il citato sub-codice delle U.C.P.I. regola con diverse disposizioni il comportamento del difensore nell’ambito delle indagini difensive (oltre al già richiamato art. 13):
l’art. 3 sancisce il dovere di valutazione secondo cui il difensore, «fin dal momento dell’incarico e successivamente fino alla sua conclusione, ha il dovere di valutare, in relazione alle esigenze e agli obbiettivi della difesa, la necessità o l’opportunità di svolgere investigazioni, sia ai fini delle determinazioni inerenti alla difesa stessa, sia per l’ipotesi di un impiego dei risultati nel procedimento, secondo le forme, i tempi e i modi previsti dalla legge»
l’art. 8, c. 1°, prevede che «Il difensore, il sostituto e gli ausiliari incaricati procedono senza formalità alla individuazione delle persone che possono riferire circostanze utili alle investigazioni difensive. In ogni caso, nello svolgimento dell’attività di individuazione di tali persone, informano sempre le persone interpellate della propria qualità, senza necessità di rivelare il nome dell’assistito»;
l’art. 12 dispone che «Il difensore o il suo sostituto danno tutte le disposizioni necessarie per realizzare condizioni idonee ad assicurare la genuinità delle dichiarazioni».
La vicenda e le relative, illustrate decisione delle SS.UU e del C.N.F. hanno sollecitato un ripensamento dell’art. 13. Sono state – così formulate – alcune ipotesi di riforma da un Gruppo di lavoro, coordinato dal Prof. Giunta, dalla C.P. di Bologna e da quella di Roma: in tutte queste proposte si suggerisce di emendare il primo comma della disposizione inserendovi l’espressa indicazione dell’obbligo di documentazione integrale, «senza omettere alcuna circostanza, neppure sfavorevole».


Prof. Avv. Giuseppe Losappio