CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE, 5 novembre 2009, n. 42485
(Pres. Iacopino – est. Licari)


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con sentenza emessa in data 12/4/2007, la Corte di Appello di Bologna, decidendo sull’appello proposto dal Procuratore Generale e dall’imputato M. Giancarlo avverso la sentenza di condanna emessa dal Tribunale della stessa città in ordine al reato ascrittogli di detenzione a fini di spaccio di grammi 76,566 di hashish e di detenzione illecita di grammi 0,627 di eroina, con grado di purezza tale da potersene ricavare dall’hashish n. 131,48 dosi medie giornaliere e dall’eroina n. 4,2 dosi medie giornaliere, riteneva, in accoglimento dell’impugnazione del P.G., di escludere la concessa attenuante del fatto di lieve entità e di aumentare la pena all’imputato – concessegli le attenuanti generiche, ritenuta la continuazione tra i reati ed applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato – in quella di anni 3 di reclusione ed euro 10.000 di multa, nel resto confermando quella di primo grado.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione l’imputato, lamentando vizio di legge e connesso difetto di motivazione sia in tema di responsabilità, sia in tema di trattamento sanzionatorio.
Sotto il primo aspetto, il ricorrente sosteneva che i giudici di secondo grado erano pervenuti al convincimento di colpevolezza sulla base di valutazioni fondate su una serie di supposizioni, inconciliabili con le regole della logica.
Paradigmatica delle illogicità, che pervaderebbero il ragionamento seguito dai giudici di secondo grado per negare validità alla tesi del consumo personale di droga, era, secondo il ricorrente, la deduzione che era stata tratta dal quantitativo di sostanze stupefacenti sequestrato, non tenendo conto del suo particolare fabbisogno di tossicodipendente e, addirittura, ritenendolo talmente considerevole da escludere la ricorrenza della attenuante speciale del fatto di lieve entità, già concessa dal primo giudice.
Sotto l’aspetto del trattamento sanzionatorio, il M. denunciava l’erroneità, oltre del diniego di detta attenuante, anche della mancata esclusione della continuazione tra i reati, nonché l’eccessività della pena, la quale sarebbe stata irrogata in aumento, senza rispettare i criteri di proporzione della sanzione rispetto al concreto disvalore del fatto illecito.
Tanto premesso, ritiene il Collegio che il ricorso sia destinato ad essere parzialmente accolto, per le ragioni e nei limiti che di seguito si espongono.
Aspecifico, innanzitutto, si palesa il motivo principale, attinente al tema della destinazione lecita delle sostanze droganti trovate addosso all’imputato all’atto del controllo operato dalle forze di polizia: ciò perché le doglianze espresse sul punto sono affidate ad argomenti che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate persuasivamente dal giudice del gravame, dovendosi, pertanto, le stesse considerare non specifiche.
È opportuno precisare che, in materia di stupefacenti, l’art. 73, comma primo bis, lett. a) D.P.R. n. 309 del 1990, come novellato dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49, non prevede una presunzione assoluta di detenzione a fini di spaccio della sostanza stupefacente che superi i limiti indicati dalla medesima norma, ma si limita ad indicare alcuni elementi sintomatici dai quali può trarsi la conclusione che la sostanza non era destinata ad uso esclusivamente personale; ne consegue che, ai fini dell’affermazione di responsabilità per detenzione illecita di sostanze stupefacenti, non è sufficiente il superamento dei predetti limiti ponderali, ma sarà necessario – nei casi in cui il mero dato ponderale non sia tale da giustificare inequivocabilmente la destinazione – che il giudice prenda in considerazione anche le modalità di presentazione, il peso lordo complessivo, il confezionamento eventualmente frazionato ed ogni altra circostanza dell’azione che possa risultare significativa della destinazione all’uso non esclusivamente personale.
Tale criterio di valutazione, nella fattispecie, è stato correttamente rispettato dalla Corte territoriale, la quale – con apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità, in quanto esente dai vizi di cui alla lett. e) dell’art. 606 c.p.p. – ha escluso la destinazione delle sostanze droganti sequestrate ad un uso strettamente personale dell’imputato, sulla scorta di tutte le circostanze soggettive ed oggettive del fatto, tenuto conto delle modalità di nascondimento della droga, dell’assenza di prova circa lo stato di tossicodipendenza del predetto, della quantità e qualità e tipo delle sostanze stupefacenti in misura esorbitante le modeste condizioni di reddito lecito del detentore ed all’evidenza eccedente, in ipotesi, il fabbisogno in termini di ragionevole immediatezza di un tossicodipendente di media levatura.
La manifesta infondatezza, poi, del motivo ulteriore, subordinato al primo, appare evidente solo che si consideri che, ai fini del diniego, i giudici di merito hanno assegnato una rilevanza preponderante, rispetto agli altri elementi di cui all’art. 73, comma 5°, del D.P.R. n. 309/1990, al notevole quantitativo delle dosi ricavabili (oltre n. 130 di dosi medie giornaliere per l’hashish e n. 4 d.m.g. per l’eroina) dalle variegate qualità di sostanze stupefacenti illecitamente detenute.
Fatta tale premessa, si è in grado di apprezzare come i medesimi giudici si siano correttamente ispirati ai criteri giuridici elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per la configurabilità dell’attenuante sopra menzionata, in base ai quali, per potere denegare l’esistenza dell’attenuante speciale prevista dall’art. 73, comma 5° D.P.R. n. 309/1990, per i reati in materia di stupefacenti, è necessario che la fattispecie reale non risulti di offensività trascurabile sia in relazione all’oggetto materiale del reato (quali le caratteristiche qualitative e quantitative della sostanza stupefacente), che in relazione all’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), di talché il vaglio in senso negativo di uno solo dei parametri di riferimento individuati dalla legge, con decisività almeno pari a quella di tutti gli altri, comporta ineluttabilmente l’inconfigurabilità dell’ipotesi attenuata; in particolare, ove la quantità della sostanza stupefacente sia notevole, il dato ponderale può essere legittimamente reputato sintomo sicuro di una non trascurabile potenzialità diffusiva dell’attività di spaccio e, perciò, sufficiente a negare l’attenuante in parola, senza necessità che il giudice prenda espressamente in esame gli altri parametri normativi, se non prevalenti rispetto al dato ponderale.
Orbene, poiché la determinazione in concreto della lieve entità del fatto è affidata, caso per caso, al prudente apprezzamento del giudice di merito, che è insindacabile in sede di legittimità, se correlato ad un congruo apparato argomentativo immune, come lo è nel caso che ci occupa, da vizi logici e giuridici, si deve trarre la conclusione che la sentenza impugnata non soffre della censura mossale dal M., tenuto conto che essa si conforma ai criteri giuridici sopra esposti e ne fa coerente applicazione nel caso in esame.
Del tutto generica è, poi, la doglianza sulla dosimetria della pena, questa non confrontandosi con le motivazioni offerte sul punto dalla sentenza impugnata, avendo i giudici effettuato la rideterminazione della pena avuto riguardo ai criteri generali fissati dall’art. 133 c.p., e, in particolare, da un lato, alla riduzione per le attenuanti generiche appositamente concesse e, dall’altro lato, alla necessità di apportare, comunque, un aumento per effetto della esclusione dell’attenuante speciale già concessa in primo grado.
Meritevole di accoglimento, invece, è la doglianza sulla ritenuta continuazione tra i reati, posto che, a seguito della soppressione della distinzione tabellare fra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, operata dalla Legge n. 49 del 2006, la detenzione contestuale di sostanze stupefacenti di natura e tipo diversi integra un unico reato.
Si è, di riflesso, modificato il trattamento sanzionatorio da riservarsi a chi, come l’odierno ricorrente, sia dichiarato colpevole della detenzione illegale di sostanze stupefacenti di tipo e natura diversi.
Nella vigenza della normativa sugli stupefacenti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, anteriore alla riforma introdotta con L. n. 49 del 2006, la giurisprudenza di questa Corte di cassazione era consolidata (non constano decisioni difformi) nel ritenere che le previsioni di cui del D.P.R. cit., art. 73, commi 1 e 4, concretassero due distinti e autonomi reati, ontologicamente diversi, di modo che, nel caso di detenzione a fini di cessione a terzi di sostanze differenti inserite nelle tabelle 1 e 3 e in quelle 2 e 4 dell’art. 14 stesso decreto, sussistesse concorso di reati e non assorbimento dell’uno nell’altro, con la conseguenza che l’imputato rispondeva di due diversi delitti eventualmente unificati con il vincolo della continuazione nella ipotesi in cui ne ricorressero i presupposti (tra le tante: Sez. 6, u.p. 16 aprile 2003, Poppi; Sez. 4, u.p. 21 febbraio 1997, Buttazzo).
Al contrario, quando due o più sostanze appartenevano alla medesima tabella o a tabelle omogenee, ricorreva un solo reato.
La distinzione, che allora trovava riscontro nella differenza utilizzata nel lessico comune tra “droghe pesanti” e “droghe leggere”, si fondava su una ratio decidendi che individuava nel fatto distinte azioni tipiche con diversa oggettività giuridica, rimarcata dal differente trattamento sanzionatorio.
In sintesi, si sosteneva che il commercio illecito di “droghe pesanti” recava in sé una maggiore offensività rispetto a quello di “droghe leggere” con riferimento ai beni presidiati dalle norme penali sia individuali che collettivi, riconducibili alla salute e all’ordine pubblico.
Tale soluzione, pacifica in giurisprudenza, aveva destato non poche perplessità in dottrina, sosteneva che dovesse ravvisarsi un concorso apparente di norme coesistenti da risolversi con il criterio dell’assorbimento, dovendo ritenersi l’esistenza di un reato unico: l’ipotesi configurava infatti, in concreto, un fatto unitario, con la conseguenza che la fattispecie minore (meno grave) da un punto di vista del disvalore sociale doveva rimanere assorbita in concreto nella più grave delle norme incriminatrici, con esclusione di qualsiasi ipotesi concorso.
Sono note le scelte del legislatore del 2006 che ha escluso qualsiasi distinzione di trattamento giuridico tra le sostanze classificate come stupefacenti nell’unica attuale tabella I contenuta nel D.P.R. cit., art. 14, sulla base della considerazione che la detenzione a fini di commercio di qualsiasi sostanza drogante abbia la medesima efficacia lesiva dei beni protetti dalla normativa, come reso evidente anche dalla unificazione del trattamento sanzionatorio ormai indifferenziato.
L’unità della disciplina normativa in parte qua, ad avviso della Corte, ha fatto venir meno la base giuridica sulla quale si fondava la distinzione tra “droghe pesanti” e “droghe leggere”, con la conseguenza che oggi deve pervenirsi a una diversa soluzione del problema.
L’azione consistente nella contestuale detenzione di droghe di qualsiasi tipo non può che dar luogo alla realizzazione di un unico reato, non essendo più giustificabile il criterio basato su una diversità di tabelle corrispondenti a una diversa gravità del reato ritenuta dal legislatore, criterio che sembra essere l’unico che potesse legittimare la giurisprudenza sopra richiamata, formatasi sotto la disciplina della previgente normativa.
Ne consegue che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente all’aumento della pena per la continuazione, che va eliminato, con rideterminazione della pena complessiva in anni due, mesi otto di reclusione ed euro 6.667,00 di multa.
Nel resto il ricorso deve essere rigettato.



P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta continuazione e, per l’effetto, elimina la relativa pena di mesi sei di reclusione ed euro 5.000 di multa, rideterminando la pena complessiva in anni due, mesi otto di reclusione ed euro 6.667,00 di multa. Rigetta nel resto.