Leggi la nota dell’avv. Antonio De Simone 


 


Sentenza 12 maggio 2009 n. 10860


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Guglielmo SCIARELLI – Presidente –
Dott. Pietro CUOCO – Rel. Consigliere –
Dott. Stefano MONACI – Consigliere –
Dott. Vincenzo DI NUBILA – Consigliere –
Dott. Antonio IANNIELLO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente


SENTENZA


sul ricorso 14164-2006 proposto da:
D. G., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Delle Milizie 38, presso lo studio dell’avvocato Angelozzi Giovanni, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Signore Italo , giusta mandato a margine del ricorso;
• ricorrente –


contro


Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del legale rappresentante  pro tempore, domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
I.N.P.S. Istituto Nazionale  Della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante  pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Della Frezza 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati, Riccio Alessandro, Valente Nicola, Giannico Giuseppina, giusta delega in calce al controricorso;
• controricorrenti –


avverso la sentenza n. 2782/2005 della Corte d’Appello di Lecce , depositata il 30/12/2005; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2009 dal Consigliere Dott. Pietro Cuoco; udito l’Avvocato Angelozzi;
udito il P.M. In persona  del Sostituto Procuratore Generale Dott. Marco Pivetti, che ha concluso per il rigetto del ricorso.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con ricorso del 12 ottobre 2004 G. D. propose appello avverso la sentenza con cui il Tribunale di Lecce  aveva respinto la sua domanda diretta ad ottenere il riconoscimento del diritto all’assegno d’invalidità civile.
Con sentenza del 30 dicembre 2005 la Corte d’Appello di Lecce , espletata una nuova consulenza tecnica d’ufficio, respinse l’impugnazione. Il giudicante aderisce al parere del consulente tecnico d’ufficio, che ritiene fondato su corretto accertamento ed adeguata valutazione; e non ritiene fondate le critiche a questa consulenza proposte con consulenza tecnica di parte.
Per la cassazione di questa sentenza G. D. propone ricorso, articolato in due motivi; il Ministero delle Finanze e l’Inps resistono con controricorso.


MOTIVI DELLA DECISIONE


1. Con il primo motivo, denunciando per l’art. 360 n. 3 cod. proc. Civ. Violazione e falsa applicazione dell’art. 13 della Legge 30 marzo 1971 n. 118 e degli artt. 1 comma 3 e 2 comma 2 del Decreto legge 23 novembre 1989 n. 509, la ricorrente sostiene che le infermità non erano state adeguatamente valutate; in particolare,
1.a. In relazione all’altezza di 161 cm ed al peso di Kg 110, la ben rilevante obesità doveva essere valutata non in base alle tabelle ma in relazione all’effettivo grado di invalidità, ed in relazione all’incidenza che il fatto aveva sulle altre infermità;
1.b. La steno – insufficienza aortica e l’insufficienza mitralica lieve nonché l’ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro erano qualificabili come scompenso cardio – circolatorio, e non come diversamente ritenuto dal CTU di secondo grado (lieve rigurgito mitro – aortico);
1.c. ”il pannicolo adiposo e le gravi disfunzioni alla colonna non consentono alla Deta di flettersi sul tronco”;
1.d. Poiché la ricorrente aveva precedentemente subito interventi di safenectomia, le varici ed il linfoedema agli arti inferiori con lesioni ulcerative delineavano un quadro “di estrema gravità”, assimilabile alla rigidità o lassità del ginocchio superiore al 50%;
1.e. La pur qualificata sindrome ansioso – depressiva era stata erroneamente valutata con il ben diverso parametro della più lieve nevrosi ansiosa.
2. Con il secondo motivo, denunciando per l’art. 360 n. 5 cod. proc. Civ., omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che
2.a. Alla luce  dei principi degli artt. 1 e 38 Cost., il lavoro da considerare ai fini dell’assegno previsto per gli invalidi civili é da intendersi come quello “espletabile proficuamente, nell’ambito del rispetto della dignità del soggetto”; l’espressione normativa “non é preclusiva di un’interpretazione estensiva, in quanto la capacità lavorativa deve essere intesa….. come quella espletabile remunerativamente”;
2.b. Il giudicante avrebbe dovuto accertare se la Deta “si trovi nella condizione di svolgere una qualsiasi attività lavorativa proficuamente idonea ad assicurarle, in relazione al parametro di cui all’art. 36 Cost., una remunerazione sufficiente a garantirle un’esistenza libera e dignitosa”.
3. Il primo motivo é infondato. Come ripetutamente affermato da questa Corte, il difetto di motivazione in ordine ad aspetti sanitari sussiste solo ove vi sia palese devianza dalle correnti  nozioni della scienza medica od omissione degli accertamenti strumentali necessari alla formulazione di una corretta diagnosi; al di fuori di tale ambito, la censura costituisce mero dissenso, non attinente a vizi del processo logico formale, e si traduce nell’irrilevante critica del convincimento del giudice (e plurimis, Cass. 21 gennaio 1998 n. 530).
Tale è la censura, nel caso in esame. La ricorrerete, pur analiticamente esaminando le lamentate infermità, contestando la valutazione del consulente d’ufficio, si limita a propone una propria valutazione.
4. In ordine  alla censura proposta con il secondo motivo, è da affermare quanto segue.
Poiché il lavoratore ha diritto ad una retribuzione in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia  un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), l’idoneità ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa è qualità propria di ogni lavoro.
La capacità lavorativa è pertanto capacità di espletare attività che ha tale idoneità.
La normativa fissazione della riduzione (di capacità), indennizzabile con l’assegno di invalidità, presuppone che la residua capacità lavorativa:
a. di per sé sola non sia sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia  un’esistenza libera e dignitosa è qualità propria di ogni lavoro;
b. conservi tuttavia la potenzialità per conseguire una parte di questa retribuzione;
c. esiga, nella misura della propria insufficienza, l’integrazione.
L’assegno ha questa funzione integrativa, come copertura dell’accertata incapacità.
In tal modo (e quale algebrica negazione di quanto la ricorrente deduce), il riconoscimento dell’assegno è normativa qualificazione della residua capacità lavorativa come insufficiente a far conseguire al lavoratore una retribuzione che assicuri un’esistenza libera e dignitosa.
5. Il ricorso deve essere respinto. In applicazione dell’art. 152 disp. Att. Cod. proc. Civ., nulla è da disporre in ordine  alle spese del giudizio di legittimità.


P.Q.M.


La Corte respinge il ricorso; nulla dispone in ordine  alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2009.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 12 MAGGIO 2009.


Nota di Antonio De Simone 


Cass., sez. lav., 12 maggio 2009, n. 10860. Pres. G. Sciarelli, Rel. P. Cuoco – “ASSEGNO DI INVALIDITÀ CIVILE: È INDENNIZZABILE LA RESIDUA CAPACITÀ LAVORATIVA SE INSUFFICIENTE A FAR CONSEGUIRE AL LAVORATORE UNA RETRIBUZIONE CHE ASSICURI UN’ESISTENZA LIBERA E DIGNITOSA” – Antonio DE SIMONE


La Corte di Cassazione, con tale sentenza, si sofferma – sia pur rapidamente – sulla nozione di “riduzione della capacità lavorativa”, contenuta nell’art. 13 della L. 30 marzo 1971, n. 118, così come sostituito dall’art. 1, co. 35, L. 24 dicembre 2007, n. 247 ai fini dell’assegno mensile di invalidità civile.
In proposito, si rammenta che  tale provvidenza economica, a carico dello Stato ed erogata dall’INPS, come è noto, viene riconosciuta agli invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo e il sessantaquattresimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento, che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui sussiste tale condizione, ed è subordinata al non superamento di determinati limiti di reddito annuo personale (e non riferito, dunque, al nucleo familiare), che sono rivalutati annualmente.
L’assegno, istituito dall’art. 13 della predetta Legge, nella formulazione originaria della norma, presupponeva una riduzione della capacità lavorativa nella misura superiore ai due terzi; successivamente, il D.Lgs. 23 novembre 1998, n. 509 ha elevato la percentuale di invalidità minima al 74%, ma tale innalzamento è decorso dall’entrata in vigore delle tabelle percentuali di invalidità di cui al D.M. 5 febbraio 1992 e, cioè, solo dal 1992.
Occorre, altresì, ricordare che la Legge n. 118/1971 prevedeva, come ulteriore condizione per il riconoscimento dell’assegno, l’iscrizione nelle liste speciali di collocamento e, dunque,   l’essere “incollocati” al lavoro, ovvero che l’invalido non dovesse essere disoccupato per aver rifiutato un posto di lavoro al quale fosse stato chiamato in base alle disposizioni sul collocamento obbligatorio.
Inoltre, l’art. 1, co. 249, Legge n. 662/1996 prevedeva l’obbligo, a carico dei soggetti invalidi titolari dell’assegno mensile, di presentare annualmente alle prefetture, al comune o all’unità sanitaria locale competente per territorio, una “dichiarazione relativa alla permanenza dell’iscrizione nelle liste speciali di collocamento”.
Sennonchè, la recente succitata Legge n. 247/2007, avente ad oggetto “Norme di attuazione del protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale”, all’art. 1, commi 35 e 36, ha abrogato quest’ultimo obbligo e, con un’importante modifica della norma istitutiva n. 118/1971, ha sostituito il requisito dell’“incollocabilità lavorativa” con quello di “non svolgere attività lavorativa”, per cui attualmente non viene più richiesta l’espressa iscrizione alle liste di collocamento, ma è previsto che attraverso dichiarazione sostitutiva, resa annualmente all’INPS, il soggetto invalido titolare della prestazione in questione autocertifichi di non svolgere attività lavorativa, e, qualora tale condizione venga meno, lo stesso ne dia all’INPS tempestiva comunicazione (art. 1, co. 35, n. 2, L. n. 247/2007).
L’INPS, con messaggio 06/02/2008, n. 3043, ha dichiarato che tale prescrizione che prevede    l’invio della suddetta dichiarazione sostitutiva “non impedisce che il soggetto vada lo stesso ad iscriversi nelle liste di collocamento” e, con successivo messaggio 06/03/2008, n. 5783, ha chiarito che “l’innovazione, introdotta a vantaggio del soggetto invalido, non ha comportato né comporta alcuna modifica in ordine ai requisiti, sanitari e reddituali, per il riconoscimento della provvidenza economica”, precisando inoltre che “la dichiarazione che viene resa con la compilazione del nuovo Modulo ICLAV2008, allegato al messaggio n. 3043 del 6 febbraio 2008, di prestare attività lavorativa tale da assicurare un reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizione (per l’anno in corso, euro 7.500 per il lavoro dipendente ed euro 4.500 per il lavoro autonomo) equivale alla dichiarazione di non prestare alcuna attività”; ha, infine, ribadito, con lo stesso messaggio, che “la verifica reddituale deve avvenire tenendo conto del solo reddito personale del richiedente”.
Orbene, tornando alla annotata pronuncia dei giudici di legittimità, è interessante rilevare come la Corte, di fronte alle censure proposte dal ricorrente con i motivi del ricorso ed, in particolare, al rilievo teso ad identificare il lavoro da considerarsi ai fini dell’assegno de quo con quello “espletabile proficuamente, nell’ambito del rispetto della dignità del soggetto”, mostra di accogliere una nozione di “riduzione della capacità lavorativa” – ai fini, appunto, della provvidenza economica prevista per gli invalidi civili – che fa perno sull’invocato parametro di cui all’art. 36 Cost.
Difatti, si rileva che, poiché, ai sensi della precitata norma costituzionale, il lavoratore ha diritto ad una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, l’idoneità ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa è qualità propria di ogni lavoro, facendo così conseguire che “la capacità lavorativa è capacità di espletare attività che ha tale idoneità”.
Sottolineando, quindi, la funzione “integrativa” della provvidenza dell’assegno di invalidità, come copertura cioè dell’accertata incapacità lavorativa, il Supremo Collegio afferma che la normativa fissazione della riduzione (di capacità), indennizzabile con l’assegno di invalidità, presuppone che la residua capacità lavorativa:
1) di per sé sola non sia sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa è qualità propria di ogni lavoro;
2) conservi tuttavia la potenzialità per conseguire una parte di questa retribuzione;
3)  esiga, nella misura della propria insufficienza, l’integrazione.
Sulla scorta di tali enunciazioni, la Corte sancisce il principio secondo cui “il riconoscimento dell’assegno è normativa qualificazione della residua capacità lavorativa come insufficiente a far conseguire al lavoratore una retribuzione che assicuri un’esistenza libera e dignitosa”.


Avv. Antonio De Simone