La devianza minorile. Ipotesi contrasto.
(risposte o risorse ?)
di Antonietta di Lernia
Tutor corso di diritto penale I
I facoltà di Giurisprudenza – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”







Sommario:

  1. I dati del “Rapporto del Ministero dell’Interno sullo stato della sicurezza in Italia”.

  2. La “nuova” devianza minorile. Cenni.

  3. Le risposte.

  4. La devianza minorile e il diritto penale.

  5. Sanzione vs rieducazione: prospettive a confronto.

  6. Risposte o risorse ?


1. I dati del “Rapporto del Ministero dell’Interno sullo stato della sicurezza in Italia”.
Secondo il “Rapporto del Ministero dell’Interno sullo stato della sicurezza in Italia” la criminalità minorile nel nostro paese, dopo un periodo di flessione negli anni 2000 e 2001, è in lento ma costante aumento. Negli ultimi quattro anni sono stati denunziati 84.283 giovanissimi, con un incremento del 2,6% rispetto al precedente quadriennio 1997-2001. I giovani delinquenti, secondo il Rapporto, maturano comportamenti delinquenziali già a scuola o tra amici di quartiere, fino a formare dei veri e propri “gruppi”, dove approdano i figli di famiglie cosiddette “difficili”.
Il trend è proseguito negli anni successivi. Nel corso del 2006 alle Procure della Repubblica presso i Tribunali per i minorenni (Appendice). sono stati denunciati 41.434 i minorenni (il numero comprende i presunti minorenni che non sono stati personalmente identificati [1]). I minorenni noti sono in totale 39.626, di cui 6.318 di sesso femminile, evidenziando una diminuzione rispetto all’anno precedente del 1,8% e del 8,6% rispettivamente. Aumentano però i minorenni denunciati con età inferiore a 14 anni e, pertanto, penalmente non imputabili, che ammontano a 6.436 ( +4,0% rispetto all’anno precedente). A livello territoriale è la Lombardia – con 5.522 minorenni denunciati – la regione maggiormente coinvolta nel fenomeno della criminalità minorile. Seguono Lazio e Sicilia, entrambe con un numero di minorenni denunciati superiore ai 4 mila.
Sono 11.413, invece, i minorenni stranieri denunciati. Di questi, 2.709 sono di sesso femminile. I minorenni stranieri provengono principalmente da Romania (4.374), Marocco (1.640), Serbia (1.087) e Albania (785). Riguardo alle imputazioni, i minorenni denunciati per delitti contro il patrimonio rappresentano il 54,8% del totale; seguono i delitti contro la persona (pari al 24,1%) e i delitti relativi agli stupefacenti (riferibili al 10,1% del totale dei minorenni denunciati).


2. La “nuova” devianza minorile. Cenni.
La realtà della devianza minorile appare, rispetto al passato, ancora più sfuggente. E ciò non solo poiché sono in uso chiavi interpretative classiche e, perciò, non più adeguate ma, soprattutto, perché gli adolescenti abitano un sistema sociale frammentato, caratterizzato dalla perdita del senso di appartenenza, dalla crisi di identità e dalla contestuale necessità di assumere molteplici identità, da rapporti che Zygmunt Bauman definisce “liquidi”.
In questo contesto, il disagio minorile si caratterizza per la crescente complessità delle sue manifestazioni. All’unico monolitico modello precedente, costituito dalla devianza tradizionale, –quella dei minori vissuti in istituti o comunità o nei quartieri degradati di periferia, con famiglie disgregate ed incapaci di educare – si è andata sostituendo una pluralità di modelli, che induce a parlare non più di “devianza” al singolare, ma di “devianze”. Prevale, in altri termini, un articolazione in varie sottocategorie.
Altro elemento caratterizzante è costituito dall’emergere di nuove tipologie di devianza, e dall’ingresso nella devianza dei figli del ceto medio. Nell’ultimo decennio, infatti, alla devianza di tipo tradizionale si sono venute aggiungendo cinque nuove tipologie di devianza: quella dei ragazzi della mafia e quella dei ragazzi stranieri da un lato; il malessere del benessere, il bullismo, ultras e naziskin, dall’altro.
Quest’ampia articolazione può essere ridotta ponendo in rilievo due costanti: una di carattere sociopatico, entro la quale possono riferirsi i primi tre modelli appena indicati (la devianza tradizionale, quella di tipo mafioso e quella straniera), le cui comuni peculiarità sono costituite dalla provenienza sociale umile e marginale; dal tendere a realizzare un vantaggio economico diretto o indiretto, dall’influenza della famiglia o del quartiere; dalla maggiore presenza in aree metropolitane e dall’essere prettamente maschile.
L’altra costante, invece, non è frutto di sollecitazioni da parte di adulti, ma è anzi talora un’esplosione contro la famiglia; non ha motivazioni economiche; proviene da ragazzi con una precedente condotta irreprensibile e comunque incensurati, e che non hanno fatto una scelta di vita in senso deviante; ha, infine, una rilevante presenza femminile. Queste caratteristiche distinguono soprattutto il malessere del benessere e sotto certi aspetti il bullismo e la devianza degli ultras [2].
Le stesse forme di devianza segnano un’evoluzione o meglio un’involuzione nella condizione – certo non nuova – dei giovani che non aderiscono ad una subcultura criminale eppure, per un verso, non condividono la legalità, per l’altro, non rifiutano esplicitamente l’illegalità. Mentre la tradizionale devianza minorile era caratterizzata da singoli episodi, fatti isolati di singoli, sprovvisti di un supporto pseudo-culturale, contrastati non solo dalle istituzioni sociali, ma anche e soprattutto dalla famiglia, che aveva un atteggiamento decisamente critico, oggi gli episodi non sono più isolati, tendono a coinvolgere i gruppi e soprattutto vedono la famiglia sempre più spesso schierata a favore del figlio [3]. La più recente devianza, dunque, è spesso accompagnata da un supporto pseudo-culturale, da una motivazione sia pure distorta ma condivisa.


3. Le risposte.
Alla problematica della devianza minorile sono state date, nel tempo, risposte diverse. Quattro sono quelle più diffuse.
Secondo il modello correzionale (anni ’40-’50) il minore deviante deve essere ri-formato mediante l’internamento in istituti appositi. L’esito, ovvero il successo dell’intervento, dipendeva dalla volontà di redimersi del soggetto; non è prevista una durata dell’internamento che si poteva concludere anche con il raggiungimento della maggiore età del ragazzo che, a quei tempi, era fissata al conseguimento del ventunesimo anno di età.
Nell’ottica del modello funzionale-riparativo (anni ’60), invece, il minore deviante era sottoposto ad osservazione presso i c.d. gabinetti medico-psico-pedagogici di osservazione della personalità, al fine di elaborare per lo stesso un trattamento di recupero e di reinserimento. L’obiettivo finale era quello di restituire alla società un soggetto adattato.
Intorno agli anni ’70-’80 si affermò il modello basato sulla teoria dello stigma, del quale uno dei più significativi esponenti è stato Erving Goffman (anni ’70-’80). Questa teoria ha il merito di aver offerto una nuova lettura della devianza, avendo messo in luce il ruolo stigmatizzante del contesto sociale e, in particolare, delle istituzioni totali. Il modello ha consentito, inoltre, di dare spazio all’intervento sul territorio, considerato come il luogo in cui devono ricondursi le contraddizioni sociali che il comportamento deviante segnala.
Negli ultimi venti anni, infine, si è assistito ad una ulteriore evoluzione nell’approccio alla devianza e al penale minorile: il territorio si considera, oggi, non solo come luogo dell’espressione dei problemi, ma soprattutto come luogo della loro ricomposizione, come insieme di reticoli con competenze utili a far fronte alle problematiche sociali, intese come disequilibrio della rete sociale dell’individuo che va sostenuta nelle sue competenze risolutive. I modelli di intervento sono strettamente connessi alle politiche di benessere ma, soprattutto, all’idea che il contesto sociale ha della devianza e della sanzione, cioè a come il contesto sociale considera la regola, la norma, la trasgressione e l’illecito.


4. La devianza minorile e il diritto penale.
«Nel sistema penale – è stato di recente ribadito [4]– non esiste una definizione di devianza». Il che – s’intende – non fa venir meno il problema del rapporto tra devianza e diritto penale poiché, come l’esperienza storica insegna, non si è mai realizzata una totale separazione tra i due termini della relazione. «Una quota di devianza – com’è ovvio – sfocia nel diritto penale e viceversa: una parte del diritto penale – com’è altrettanto scontato – allude a comportamenti devianti. Per il resto l’esperienza storica indica che quella quota e quella parte cambiano di continuo nello spazio e nel tempo».
I modelli di relazione tra devianza e diritto penale, inoltre, sono molti e instabili. Limitandosi, in questa sede, ad indicare le linee di tendenza prevalenti, esse sono quella della «coincidenza» e quella della «separazione». La prima ha trovato espressione nei sistemi di common law, dove la percezione di un comportamento deviante (per lo più moralmente) orienta(va) (anche sotto questo profilo, a partire dal secondo dopoguerra, il quadro è molto mutato) il potere di dichiarare la legge (declaratory power) e di affermare la rilevanza penale di quel comportamento ritenuto appunto deviante. In realtà, anche nei sistemi di common law questo modello è rimasto valido finché il contesto sociale di riferimento è stato omogeneo e stabile, con un orizzonte e soprattutto una gerarchia di valori e interessi altrettanto semplice, univoca e condivisa. Una relazione di identità, di corrispondenza, tra devianza e diritto penale è indissolubilmente legata, infatti, all’esistenza di un sistema sociale semplice (o forzatamente semplificato, come nel caso dei totalitarismi o delle dittature). Nelle società «complesse», come la nostra, il rapporto tra devianza e diritto penale non può che essere di corrispondenza/separazione parziale. In altri termini si può pensare a due cerchi che si intersecano, e, quindi, ad una «quota» di comportamenti devianti che sono anche reati, ad una «quota» di comportamenti devianti che non sono reati, e, anche, ad una «parte» di diritto penale che non qualifica comportamenti (ritenuti) devianti (è il problema di alcuni reati c.d. economici o della c.d. criminalità artificiale) [5].


5. Sanzione vs rieducazione: prospettive a confronto.
Nel corso degli ultimi due decenni, nel dibattito riguardante la finalità della pena, si è radicalizzata la contrapposizione tra coloro che sostengono la concreta possibilità di rieducare i devianti, offrendo loro adeguate opportunità di crescita, e coloro che sostengono le c.d. teorie neo-retribuzioniste (o neo-classiche) della pena. Da ultimo si registra un ritorno, anche nel settore penale minorile, di tendenze e scelte neo-rigoriste.
In questo contesto, i concetti sanzione/rieducazione sembrano escludersi a vicenda, essere antitetici, non compenetrabili. La sanzione, infatti, presuppone la violazione di norme regolative della società, e ne costituisce la reazione; la rieducazione, invece, richiama aspetti di comprensione e di accoglienza.
La concezione retributiva della pena definisce e giustifica la sanzione penale come una ricompensa (il deviante ha violato un comando giuridico, merita un castigo e, pertanto, deve essere punito). Le teorie retribuzionistiche hanno carattere retrospettivo (quia peccatum est), e considerano la pena ciò che serve ad arginare e canalizzare le esigenze di vendetta da parte delle vittime e/o dei loro parenti più stretti. Com’è noto la vendetta, come mera espressione di disprezzo, non utilizza modelli positivi, evocati dal passato, per risolvere i problemi del futuro, ma guarda al passato come qualcosa di negativo, e usa il futuro per cercare di distruggere – meglio, negare – ciò che vi è avvenuto, per saldare un conto rimasto in sospeso. Charles Socarides [6] per contro osserva: “La vera vittoria non sta nella vendetta, ma nel superamento del danno infantile subito dall’Io e nella costruzione di un Io più stabile e maturo, in contatto con la realtà e capace di tollerare le delusioni che questa procura”. Sul piano della psicologia sociale, la pena retributiva sembra, pertanto, soddisfare il “bisogno di giustizia collettiva” e sembra essere qualcosa di intrinsecamente giusto e buono e, soprattutto, necessario per riequilibrare quella “bilancia morale” della società che è stata squilibrata dal reato. Tuttavia, è ormai negata dalla stragrande maggioranza dei penalisti e filosofi del diritto italiani l’idea che la pena debba essere prevista e applicata con finalità essenzialmente, o esclusivamente, di retribuzione.
Il superamento della concezione retributiva – che Francesco Carnelutti definì “la concezione pessimistica della pena” – è avvenuto in maniera molto lenta e graduale. Negli anni ’50, infatti, la concezione retributiva della pena era ancora prevalente, anche nel diritto penale minorile. È a partire dagli anni ’70 che si riconobbe l’esigenza di superare la retribuzione per valorizzare il principio di rieducazione e l’intero quadro costituzionale.
Rieducare, invero, significa rappacificare il condannato con quella parte della società che vive e lavora onestamente, in modo che siano rispettati il più possibile i valori di fondo tutelati dall’ordinamento giuridico. La rieducazione del minore è un processo che sollecita l’autore del reato a prendere coscienza delle conseguenze delle sue azioni (la c.d. relapse prevention), ad interiorizzare gradualmente principi e valori diversi da quelli che lo hanno caratterizzato.
Rieducazione è quindi anche educare, e-ducere, “tirar fuori”, cioè svolgere il paziente lavoro di chi, senza traumi e in modo naturale aiuta a far nascere l’uomo ‘nuovo’ che già si trova dentro ogni persona. Scopo dell’educazione, infatti, è lo sviluppo di quelle qualità che permettono di vivere in modo autonomo e con ragionevolezza. Anche quando viene utilizzata un’istituzione totale (e tendenzialmente statica) come la prigione, la nozione di educazione implica sempre un progresso e un movimento, in quanto essa è il risultato di un alternarsi di movimento e inerzia sia individuali (interni) sia collettivi (esterni, nella società). Con la rieducazione, pertanto, si cerca di motivare una persona in modo duraturo verso standard di vita accettati come validi e, quindi, di motivare a una vita di lavoro e di responsabilità sociale; in altri termini si cerca di “educare alla responsabilità”. Il processo di rieducazione comporta, pertanto, lo sviluppo di un grado di sicurezza di sé tale da impedire al deviante di dover riaffermare il proprio senso di autostima con comportamenti penalmente illeciti. Richiede, inoltre, la formazione di una coscienza che aiuti il reo a conoscere e controllare gli istinti naturali, e a tenere così in considerazione le ragioni della vittima, interiorizzando le norme, i valori, gli orientamenti e i modi di comportamento della collettività a cui appartiene. La ri-educazione, infine, si esercita anche attraverso il controllo/contenimento del minore, che è un compito fondamentale perché favorisce la strutturazione dell’Io, l’instaurarsi del principio di realtà e l’abbandono dei deliri di onnipotenza, che spesso connotano l’esperienza adolescenziale, soprattutto nel deviante. In questa prospettiva punire è educare, perché l’intervento punitivo mira alla trasformazione/cambiamento della personalità. Nei casi estremi in cui si avverte la necessità dell’intervento penale si dovrà, di conseguenza, tentare di rieducare il deviante aiutandolo a raggiungere quella indipendenza interiore che costituisce l’unica condizione che “porta alla libertà e mette fine al bisogno di ribellioni senza costrutto” [7].


6. Risposte o risorse ? – Strumenti collaudati o nuovi strumenti? Migliorare quelli esistenti o progettare soluzioni inedite?
Sarebbe ingenuo pensare che la risposta sia da una parte o dall’altra. Ingenuo – se non peggio – ignorare il convitato di pietra di questi discorsi: il tema delle risorse. Un esempio. Si dice un gran bene della messa alla prova, tanto che si pensa di estenderne l’applicazione.
È una prospettiva irrealizzabile senza superare le deficienze attuali. Occorrerebbe aumentare le presenze di educatori professionali; favorire nei servizi minorili la specializzazione degli educatori; costruire un sistema policentrico della giustizia strettamente collegato al tribunale per i minorenni e all’ufficio di servizio civile per i minorenni; favorire la collaborazione con centri culturali e associazioni di volontariato, anche attraverso la figura dei mediatori culturali e degli educatori professionali.
La realtà, all’esatto contrario, è che mentre si sperimentano anche nuove soluzioni, come ad esempio la peer education [8], l’investimento nel settore, già di per sé insufficiente, risulta colpito dalle limitazioni di spesa imposte alle risorse del welfare.


Appendice



























































































































































Tabella 1


Minorenni denunciati alle Procure per i minorenni per cittadinanza, età, sesso e tipo di delitto – Anno 2001-2006


 


 


 


DELITTI


Italiani


Stranieri


Meno di 14
(non imputabili)


 


14-17
(imputabili)


 


TOTALE


 


Meno di 14
(non imputabili)


 


14-17
(imputabili)


 


TOTALE


 


 


MF


F


MF


F


MF


F


MF


F


MF


F


MF


F


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


Contro la persona


1.206


149


6.944


1.043


8.150


1.192


174


13


1.163


130


1.137


143


Contro la famiglia, la moralità pubblica, il buon costume, e il sentimento per gli animali.


8


3


127


15


135


18


4


2


38


19


42


21


Contro il patrimonio


2.420


543


11.029


1.284


13.449


1.827


2.197


849


5.862


1.374


8.059


2.223


Contro l’economia e la fede pubblica


166


12


4.143


272


4.309


284


111


12


1.309


187


1.420


199


Contro lo Stato, le altre istituzioni sociali e l’ordine pubblico.


98


30


1.487


254


1.585


275


23


5


314


65


337


70


Altri delitti


26


3


559


10


585


13


3


1


215


52


218


53


TOTALE


3.924


740


24.289


2.869


28.213


3.609


2.512


882


8.901


1.827


11.413


2.709


Dott.ssa Antonietta di Lernia


Note




  1. Dati Istat e Ministero della Giustizia (http://giustiziaincifre.istat.it).


  2. Per una più dettagliata articolazione delle devianze, cfr. E. Speretta, I devianti dalla ‘retta’ via, Dossier, in Narcomafie, 2003, I, pp. 15 ss


  3. Emblematico in tal senso un episodio accaduto qualche anno fa a Bari. Nella scuola media di un quartiere degradato, il preside, per riportare la disciplina nelle classi, ha sequestrato durante le ore scolastiche un certo numero di telefoni cellulari agli alunni venendo subito raggiunto dai genitori che hanno preso con decisione le difese dei loro figli e, per protesta, hanno bloccato al suo interno il preside impedendogli di uscire. Si è reso necessario l’intervento della polizia la quale però, singolarmente, ha proceduto alla denuncia non dei genitori, ma del dirigente scolastico, perché si era rifiutato di declinare le generalità !


  4. G. Losappio, Normalità e devianza nella prospettiva penalistica (http://www.ordineavvocatitrani.it/pubblica/articolo.php?articolo=1053).


  5. Cfr. G. Losappio, Normalità e devianza nella prospettiva penalistica, cit..


  6. C. Socarides, On vengeance: the desire to “get even”, in J. Bowlby, H.F. Searles, C. Socarides, On anger and vengeance, n. 14, 1966, pp. 127 ss., trad. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1992.


  7. E. Fromm, To Have or To Be, 1976, trad. It., Avere o essere, Milano, ed. Mondatori – CDE, 1977, pp. 94 ss.


  8. Peer education, o letteralmente, educazione tra pari: si tratta di una sperimentazione che alcune realtà associative italiane hanno realizzato di un modello di intervento educativo attraverso l’interazione di adolescenti, con esperienze di disagio sociale e non. Si parte dal presupposto che l’interazione avvii un processo di crescita individuale e collettiva. Per un approfondimento si rinvia a G. Boda , Life skill e peer education: strategie per l’efficacia personale e collettiva, Milano, La Nuova Italia Scientifica, 2001.

Riferimenti bibliografici




  • E. Goffman, Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, New York, Anchor Books, Doubleday & Company, Inc., 1961, trad. it. a cura di F. Basaglia, introduzione di F. e F. Basaglia, Torino, Giulio Einaudi,1968 –


  • E. Goffman, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, Harmondsworth, Pelican Books, 1968, trad. it., Laterza, Bari, 1970 –


  • M. Laufer – M.E. Laufer, Adolescence et rupture du development, PUF, Parigi, Fil Rouge, 1989, (I), trad. it., a cura di M. Cerletti Novelletto, Torino, Bollati Boringhieri, 1986 –


  • G. Losappio, Normalità e devianza nella prospettiva penalistica, Relazione presentata al Convegno “Normalità e devianza”, Andria, 30 maggio 2007 (http://www.ordineavvocatitrani.it/pubblica/articolo.php?articolo=1053) –


  • I. Marchetti – C. Mazzucato, La pena in castigo. Un’analisi critica su regole e sanzioni, in Vita e pensiero, Milano, 2006, pp. 22 ss –


  • O. Matarazzo – D. Bacchini, Denominare e valutare le proprie emozioni, in Adolescenza. Psicologia e società, 1999, XXV (XLVI), pp. 59-87 –


  • N. Mazzacuva, Il diritto penale come strumento di pacificazione e di risoluzione del conflitto sociale: l’impiego della clemenza collettiva, in L’indice penale, 2004, pp. 13 ss –


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  • F. Occhiogrosso, Il malessere del benessere, in Bulli e bulle – nuovi aspetti di un fenomeno tradizionale: controllo sociale, sicurezza ed educazione, Quaderno della Regione Piemonte, edito insieme ad ACNUR, Torino, 2003, pp. 45 ss –


  • M. Rutter, Epidemiological approach to developmental psychopathology, in Archives of General Psychiatry, 1988, (45), pp. 486-495 –


  • M. Rutter, Developing Minds. Challenge and Continuity Across the Life Span, 1992, trad. it., a cura di A. Lucarelli, Firenze, Giunti, 1995 –


  • P. Stella, Rieducare il minore deviante o “dare a ciascuno il suo ?”, in Minori e giustizia, 2007, I, pp. 61 ss. –


  • D. N. Stern, The Interpersonal World of the Infant, 1987, trad. it., a cura di A. Biocca e L. Biocca Marghieri, Torino, Bollati Boringhieri, 1987 –


  • Z. Baumann, Liquid Modernity, Polity Press, 2000, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2002 –
    Id., Liquid Love: On the Frailty of Human Bonds, Polity Press, 2003, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2003.