IL SISTEMA PREVENZIONALE AZIENDALE NEL D. LGS. 81/2008
Ancora un castello di carte o una cosa seria?
di Francesco Stolfa
Sommario | |
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2 | I principi generali del sistema prevenzionale alla luce del d.lgs. 81/2008 |
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5 | L’incerta sanzionabilità delle violazioni del dovere generale di sicurezza |
1.- La sottovalutazione del “sistema prevenzionale aziendale”
Al momento dell’approvazione del d. lgs. 19 settembre 1994 n. 626 e negli anni successivi, come si ricorderà, la sicurezza del lavoro conquistò l’attenzione dei mass media e dell’opinione pubblica. Dopo un lungo oblio, la sicurezza di nuovo “faceva notizia”, era spesso sulle prime pagine dei giornali anche senza che ci fosse scappato il morto o, meglio, la strage (di solito una sola vittima non basta per lo scoop da prima pagina). Le aziende, tutte le aziende, indipendentemente dalle dimensioni e dal settore di appartenenza, cominciarono a occuparsene, più o meno seriamente, e si dotarono dei famosi “piani di sicurezza” che prima erano stati appannaggio esclusivo di quelle industriali ad alto rischio. Si affermarono nuove professioni: il medico competente, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il manager della sicurezza; e, nel settore edile, il responsabile dei lavori, i coordinatori ecc.. Gli esperti della materia entrarono (o, almeno, fecero capolino) in luoghi di lavoro fino allora inesplorati come gli studi professionali, le organizzazioni no-profit, i piccoli esercizi commerciali. Laddove, poi, le nuove norme vennero più correttamente applicate, cioè in alcune delle aziende più moderne e meglio organizzate, le nuove misure e cautele di sicurezza divennero un corpus organico di regole e procedure interne, un vero e proprio sistema destinato a integrarsi, costituendone parte essenziale, nel più ampio sistema di qualità aziendale. Sembrava, per dirla con un vecchio termine abusato del secolo scorso, una rivoluzione culturale destinata, come tale, a determinare profondi cambiamenti nei costumi delle imprese e dei lavoratori italiani.
La storia della sicurezza in Italia è, per il vero, costellata di questi improvvisi sussulti, spesso legati all’approvazione di importanti riforme legislative o a gravi episodi infortunistici, seguiti, però, di solito, da lunghi periodi di oblio. Ma l’esperienza sul campo mi porta a ritenere che, negli anni 1994-1997, coincidenti con il lungo periodo di graduale entrata in vigore della riforma europea, gli imprenditori ci abbiano creduto davvero che la sicurezza fosse diventata anche in Italia una cosa seria. Essi – facendo a posteriori una valutazione complessiva – chi più chi meno, si sono impegnati a fare almeno qualcosa, investendo soprattutto risorse per adeguarsi alla nuova normativa (preoccupati soprattutto delle severe sanzioni prevenzionali) e per creare almeno una parvenza del sistema prevenzionale voluto da legislatore all’interno di ogni azienda. Era, insomma, quello che si dice un buon inizio.
Il resto avrebbero dovuto farlo, naturalmente, la costanza delle prassi applicative, la chiarezza delle linee guida, un’ampia e capillare attività di sensibilizzazione e promozione dei comportamenti virtuosi e, poi, naturalmente, la vigilanza sindacale e la regolarità dei controlli prevenzionali.
Decisivo sarebbe stato infine, ovviamente, anche il rilievo che la magistratura inquirente e gli stessi giudici avrebbero attribuito alla idoneità del sistema prevenzionale aziendale anche in sede di repressione dei delitti di lesioni e omicidio colposi.
E, invece, a distanza di tanti anni, dobbiamo purtroppo constatare che è mancata proprio l’attenzione a promuovere, prima, e a vagliare, poi, la realizzazione effettiva, in ogni singola azienda, del sistema prevenzionale voluto dalla riforma di ispirazione europea.
È quasi un luogo comune quello secondo cui i non esaltanti risultati ottenuti nell’impedire gli infortuni sul lavoro nel nostro Paese deriverebbero da una scarsa diffusione della cultura della sicurezza. Ma, dopo la riforma europea del 1994, la cultura della sicurezza, in azienda, non è più un concetto astratto, essa si sostanzia e si misura nella seria, puntuale ed effettiva realizzazione delle procedure, delle prassi e degli istituti disegnati e imposti dal d. lgs. 626/94.
È, invece, accaduto che né i soggetti abilitati a intervenire in via preventiva (gli ispettori, le organizzazioni sindacali) e neanche quelli deputati alla repressione dei delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. (magistratura e ufficiali di polizia giudiziaria) abbiano mai prestato particolare attenzione alla puntualità e all’efficacia del sistema prevenzionale creato nella singola azienda.
I rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, ad esempio, si sono troppo spesso tenuti alla larga da ogni valutazione sulla congruità degli adempimenti programmati (in particolare sulla congruità della valutazione dei rischi e conseguente piano di sicurezza), talvolta per un pregiudizio ideologico (evitare qualsiasi contaminazione con il potere organizzativo imprenditoriale) talaltra per pura e semplice ignoranza (preoccupati cioè di non farsi coinvolgere in responsabilità penali, in effetti inesistenti). Il diritto del R.L.S. ad ottenere copia del piano di sicurezza aziendale è ora sancito espressamente nella riforma ma derivava già, a mio avviso, da una ragionevole esegesi della disciplina previgente. Eppure raramente, troppo raramente, i rappresentanti dei lavoratori hanno avanzato richieste in tal senso. Si consideri, tra l’altro, che, in mancanza di una qualsiasi forma di verificazione della documentazione aziendale in materia di sicurezza (che, prima del D. Lgs. 81/2008 non aveva data certa) proprio la sua consegna al R.L.S. avrebbe potuto costituire un (parziale) deterrente rispetto a quella triste e inveterata prassi di inventarsi di sana pianta o di modificare i piani sicurezza, in tutta fretta, nella notte successiva all’infortunio o comunque prima dell’arrivo degli organi di vigilanza (pare peraltro che il correttivo in cantiere si stia orientando in tal senso).
Anche gli ispettori, quando (con i limitati mezzi a loro disposizione) sono riusciti a svolgere anche la loro funzione prevenzionale, si sono quasi sempre limitati a un controllo di tipo puramente formale senza approfondire l’effettività e l’efficacia degli strumenti prevenzionali adottati nella singola azienda, senza quasi mai verificare, ad esempio, se le attività formative attestate sulla carta si fossero mai effettivamente svolte, con quali docenti, con quale utilità effettiva ai fini della sensibilizzazione dei lavoratori; tantomeno si sono mai arrischiati a verificare, per fare un altro esempio, la completezza della valutazione dei rischi operata dal datore di lavoro ovvero l’idoneità e adeguatezza delle misure e cautele individuate nel piano di sicurezza; e ciò per non assumersi le relative responsabilità.
Ciò che, tuttavia, è mancato soprattutto è il vaglio giurisdizionale del sistema di sicurezza aziendale e cioè la possibilità di sottoporre alla valutazione di un giudice imparziale la sua concreta efficienza ed efficacia consentendo il consolidarsi di orientamenti giurisprudenziali utili agli ispettori, alle aziende e agli operatori pratici. Nella fase prevenzionale ossia nel corso delle ispezioni effettuate non a seguito di un infortunio o di una malattia professionale, le disposizioni (ex art. 10, d.p.r. 520/55) o le prescrizioni (ex art. 20 ss., d. lgs. 758/94) eventualmente emanate dagli ispettori, anche perché quasi sempre limitate, come si è detto, agli aspetti formali e alle violazioni più evidenti, solo raramente sono state impugnate in sede giurisdizionale. L’ordinamento prevede, in effetti, specifiche forme di impugnazione giurisdizionale per entrambi tali provvedimenti: le disposizioni possono impugnarsi dinanzi al giudice amministrativo mentre le prescrizioni possono essere contestate dinanzi al p.m. inquirente, prima, e dinanzi al giudice penale, poi. In realtà, sono stati davvero molto rari i casi in cui simili questioni sono state effettivamente sottoposte alla magistratura; nel primo caso perché i costi di un giudizio amministrativo non giustificavano quasi mai l’esercizio dell’azione, nel secondo sia per la speciale sintonia da sempre esistente fra ispettori e p.m. sia anche a causa di talune incertezze interpretative in ordine alla effettiva impugnabilità dei provvedimenti degli ispettori sollevate in dottrina e persino in circolari ministeriali (cfr. Circ. Min. Lav. n. 25/96 e Lorusso). Ma neanche nelle indagini di polizia giudiziaria, svolte dopo il verificarsi dell’infortunio e finalizzate all’accertamento delle responsabilità delittuose, il sistema prevenzionale aziendale è stato quasi mai adeguatamente valutato e ponderato se non negli aspetti strettamente connessi allo specifico evento dannoso; e lo stesso disinteresse, forse ancor più marcato, ha manifestato gran parte della magistratura inquirente e giudicante che quasi mai, talvolta neanche su sollecitazione delle parti private, ha attribuito soverchia importanza a come l’azienda si fosse effettivamente attrezzata in via prevenzionale, alle procedure adottate, allo svolgimento effettivo delle riunioni periodiche, alla congruità dell’attività formativa, ecc.. Un segno evidente di tale disinteresse è dato, ad es., dalla scarsità delle perquisizioni e dei sequestri della documentazione aziendale in materia di sicurezza operati dalla magistratura in occasione degli infortuni, persino dinanzi a episodi particolarmente gravi (carenza, questa, denunciata anche dal sostituto procuratore di Torino, Guariniello, in una intervista televisiva trasmessa da Rai Tre, nel corso del programma “Ambiente Italia” del 8.3.2008). Ciò, ovviamente, ha consentito, fra l’altro, quelle prassi fraudolente, cui innanzi si accennava, della redazione o della rettifica dei piani di sicurezza nell’immediatezza del sinistro.
E, allora, inevitabilmente, quella positiva spinta iniziale si è andata, via via affievolendo. L’attività preventiva, specie nelle imprese minori, soprattutto nei settori diversi da quello industriale, ha finito per produrre, quasi sempre, solo una montagna di carte inutili che nessuno avrebbe mai letto e di sterili adempimenti amministrativi.
Risulta quindi spontaneo orientare oggi l’analisi giuridica della riforma innanzitutto a verificare se i corretti introdotti sono idonei a eliminare o almeno attenuare questi vizi capitali della disciplina previgente. Proprio per capire se in questa benedetta materia che tanto pesantemente coinvolge i diritti fondamentali della persona umana stiamo finalmente facendo sul serio o ci muoviamo ancora sulle sabbie mobili dell’ipocrisia.
In quest’ottica appare a mio avviso rilevante prendere in considerazione non tanto i singoli istituti e le novità per ciascuno di essi introdotte dalla riforma del 2008 quanto analizzare il dovere generale di sicurezza e cioè i principi generali che ispirano il sistema prevenzionale aziendale.
Le risposte che se ne traggono, anticipo così le conclusioni, non sono univoche ma, anzi, fortemente contraddittorie perché, come vedremo, la riforma mentre introduce alcuni potenti elementi promozionali di segno positivo, poi, per un svista dovuta probabilmente all’eccessiva fretta con cui la riforma è stata varata (non dimentichiamo che le ultime correzioni sono state introdotte nel momento della pubblicazione in G.U.), contiene anche una grave lacuna potenzialmente foriera di prassi involutive.
2. I principi generali del sistema prevenzionale alla luce del d.lgs. 81/2008
Come è noto – ormai è un dato acquisito in dottrina – la più importante novità che era stata introdotta dal d.lgs. n. 626/1994 è quella di imporre al datore di lavoro l’utilizzazione di uno specifico metodo per conseguire quegli obiettivi che, sanciti nell’art. 2087 c.c., vennero notevolmente arricchiti dalle misure generali di tutela di cui all’art. 3 della riforma del 1994. Un metodo che potremmo definire di tipo scientifico, non può estraneo all’attività imprenditoriale. Un metodo fondato sui principi della programmazione e dell’organizzazione scientifica dell’attività prevenzionale, affidata a soggetti qualificati ed esperti.
Quello prefigurato dal d.lgs. n. 626/94 e ancor più, oggi, dal d.lgs. n. 81/2008, ha assunto quindi le caratteristiche di un vero e proprio sistema prevenzionale espressamente finalizzato, peraltro, non solo a evitare i rischi di infortuni o malattie professionali ma anche, più in generale, ad adeguare l’ambiente di lavoro all’uomo, privilegiando le soluzioni ergonomicamente più idonee per i lavoratori.
Questi principi generali che hanno ispirato la legislazione in materia di sicurezza del lavoro hanno conservato tutta la loro validità, anzi hanno ricevuto solide conferme, con l’entrata in vigore della profonda riforma operata dal d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81.
Nell’ambito della nuova normativa, che si pone l’ambizioso obiettivo del riordino sistematico della complessa materia, l’aspetto organizzativo della sicurezza-lavoro viene, infatti, fortemente sottolineato, si direbbe quasi enfatizzato.
Sin dalle definizioni contenute nell’articolo 2 il legislatore attribuisce a questo elemento di fatto una specifica rilevanza: sono strettamente legate all’elemento organizzativo sia la definizione di “lavoratore” (individuato non tanto per il tipo di relazione che lo lega all’imprenditore quanto per il dato oggettivo del suo inserimento operativo nell’ambito di un’organizzazione di tipo produttivo), sia quella di “datore di lavoro” (tale non per essere il titolare dell’impresa ma in quanto responsabile dell’organizzazione produttiva) che di “azienda” e di “buone prassi”; ma ne sono direttamente influenzate anche le definizioni di “dirigente” e di “preposto”.
Tutte queste norme confermano la rilevanza che nel nostro ordinamento assumono, pur alla luce dell’ultima riforma, le dinamiche e le regole dell’organizzazione aziendale ai fini della individuazione dei vari soggetti onerati dal dovere di sicurezza e della valutazione delle loro responsabilità ma anche al fine di individuare lo stesso contenuto del dovere di sicurezza valutando, ad esempio, l’idoneità di una misura prevenzionale o la prevedibilità di una situazione di rischio nel contesto specifico dell’organizzazione data.
Ancor più chiaramente oggi, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2008, il sistema prevenzionale aziendale si pone come parte dell’organizzazione complessiva dell’azienda e va letto, decodificato, interpretato secondo le sue regole espresse (statuti, regolamenti, contratti collettivi aziendali, ordini di servizio ecc.) o anche secondo le sue regole non scritte ma consolidatesi nelle prassi interne.
3. L’art. 2087 c.c. e le nuove misure generali di tutela
Il nesso fra sicurezza del lavoro e potere organizzativo aziendale appare evidente anche dalla lettura delle cd. misure generali di tutela sancite dall’art. 16 del d.lgs. n. 81/2008 e che ricalcano, in gran parte, quelle già fissate dall’art. 3 del d.lgs. n. 626/1994. Esse rappresentano una sorta di compendio dei principi generali cui l’intervento legislativo intende ispirarsi, una sorta di esplicazione e specificazione di quella “carta fondamentale della sicurezza in Italia” (così NATULLO, 2007), costituito da oltre sessant’anni, dall’art. 2087 c.c.. Quest’ultima norma, per la verità, per la sua portata generale, continua a svolgere egregiamente la sua funzione di norma di chiusura del sistema e, nella sua semplicità, appare ancora in grado di offrire all’interprete lo strumento più duttile e moderno per regolare le situazioni concrete. La sua “doppia anima” (FRANCO), pubblicistica e civilistica, le consente un intervento ad ampio spettro che coinvolge tutti gli aspetti del bene giuridico tutelato sia nell’ambito del contratto di lavoro sia in sede penale, al fine di adeguare le ipotesi criminose generali (lesioni e omicidio colposi) alle specifiche fattispecie dell’infortunio e della malattia professionale.
La formulazione delle misure generali di tutela forgiata dalla riforma del 2008 appare più chiara e corretta nell’esposizione rispetto a quella del 1994 (si veda la riscrittura delle norme di cui alle lettere c], in materia di eliminazione/riduzione dei rischi in relazione al progresso tecnico, e d], che impone il rispetto dei principi ergonomici) e attribuisce, opportunamente, una rilevanza più marcata agli obblighi di informazione e formazione di cui alle lettere n), o), p), e q).
Le novità vere e proprie rispetto al testo previgente sono piuttosto scarse e riguardano le norme di cui alle lettere m) e t), ma anche, per alcuni aspetti, la lettera l). La prima di queste disposizioni (let. m) aggiunge espressamente all’obbligo di allontanare il lavoratore dall’esposizione a rischi sanitari anche quello di adibirlo “ove possibile” ad altre mansioni. Una norma, questa, dalle evidenti implicazioni civilistiche: la sua formulazione e specialmente l’inciso testualmente riportato, deve essere inteso non solo a favore del datore di lavoro (nel senso di rendere obbligatorio lo spostamento solo quando siano presenti, nell’ambito dell’organizzazio-ne aziendale data, posizioni lavorative cui possa essere assegnato il prestatore) ma anche a favore di quest’ultimo, nel senso che, in mancanza di posizioni assegnabili, non sorgerà in capo al datore di lavoro né un diritto né un dovere di licenziarlo ma egli potrà continuare a svolgere le sue mansioni. Sorgerà però, in tal caso, ovviamente, a carico del datore di lavoro l’obbligo di adottare ogni misura utile a ridurre al minimo il rischio per la salute di quel lavoratore. In altre parole, la norma sancisce un diritto soggettivo in capo al lavoratore e un correlativo obbligo a carico del datore di lavoro che incontrano però il limite oggettivo della mancanza di altre posizioni lavorative disponibili. In tal caso, il diritto del prestatore a essere assegnato a mansioni diverse, lungi dal determinare effetti irrazionali e potenzialmente controproducenti (quali, appunto, l’obbligo per l’imprenditore di inventarsi nuove posizioni lavorative o, all’opposto, di determinare la cessazione del rapporto di lavoro) semplicemente degrada al diritto di ottenere l’adozione di misure alternative volte comunque a eliminare il rischio o comunque contenerlo entro limiti tollerabili per la persona umana. Ciò che è condizionata infatti non è la sottrazione del lavoratore dalla situazione di rischio per la sua persona (che va comunque attuata) bensì solo l’adibizione a mansioni diverse. Ove ciò non sia possibile, quindi, sarà il datore di lavoro a dover individuare soluzioni alternative che valgano comunque a tutelare la salute del prestatore.
Questa norma appare particolarmente significativa nell’esprimere la ratio complessiva che ispira l’intervento legislativo, nell’ambito della quale le esigenze dell’impresa sono tenute in considerazione adeguata ma mai prevalente rispetto a quelle della salute e della sicurezza del lavoratore.
L’altra novità sostanziale è quella della lettera t) che impone al datore di lavoro “la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, anche attraverso l’adozione di codici di sicurezza e di buone prassi”. In precedenza, l’art. 3, let. b), del d.lgs. n. 626/1994 prevedeva semplicemente l’obbligo di eliminare i rischi “in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico” e, ove ciò non fosse stato possibile, la “loro riduzione al minimo”, norma questa che non è stata sostituita ma riprodotta, tal quale, nella lettera c) del nuovo art. 15. La novità sostanziale introdotta dalla riforma è, quindi, l’obbligo di realizzare una apposita programmazione finalizzata al miglioramento nel tempo del sistema prevenzionale non solo attraverso l’applicazione di ogni nuova e migliore tecnologia di sicurezza ma anche mediante una sempre maggiore diffusione in azienda della cultura della sicurezza. Potrà sembrare una novità trascurabile ma si può essere certi che sarà proprio su queste sfumature che si giocherà, anche davanti al giudice penale, ad esempio, la valutazione della correttezza dei modelli organizzativi di cui all’art. 30 e, quindi, un aspetto rilevante delle responsabilità dei soggetti onerati dal dovere di sicurezza.
Alla lettera l), infine, compare un’altra novità rilevante in quanto vi si prevede l’obbligo di sorveglianza sanitaria per tutti i rischi esistenti nell’ambiente di lavoro e non più solo, come prevedeva, invece, la stessa lettera dell’art. 3 del d.lgs. n. 626/94, per i soli rischi specifici.
Il quadro complessivo che emerge da queste norme conferma l’orientamento del sistema verso una sicurezza assoluta, condizionata solo dai limiti delle umane conoscenze tecnologiche ma non dalle convenienze economiche dell’impresa, secondo il noto schema della massima sicurezza tecnologicamente fattibile (sul tema generale rinvio a Natullo nel Commentario Utet del 2007).
4. I modelli di organizzazione e di gestione e la loro influenza indiretta sul sistema prevenzionale aziendale
Il rapporto fra sistema prevenzionale e organizzazione aziendale viene particolarmente evidenziato dalla normativa in materia di “modelli organizzativi”, posta dagli artt. 30 e 300. È con queste norme (già anticipate dalla legge delega L. 123/07) che la sicurezza come organizzazione (e, suo tramite, l’organizzazione di impresa nel suo complesso) fa finalmente pieno ingresso nel processo penale per essere esaminata, valutata e giudicata. Si tratta di una novità rilevante e dalle promettenti implicazioni. Vediamo meglio, nel dettaglio, di che si tratta.
Come sanno bene i penalisti, il d.lgs. n. 8 giugno 2001 n. 231 ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento uno specifico titolo di responsabilità (si ritiene di natura amministrativa, cfr. Cass. pen., 26 febbraio 2007, n. 10500; Cass. pen.,23-6-2006, n. 32626; v. ora esplicitamente l’art. 30), connessa alla commissione di specifici reati, a carico di soggetti a struttura complessa. In particolare, esso si applica a tutti gli enti forniti di personalità giuridica, alle società commerciali e persino alle associazioni non riconosciute, con esclusione però delle amministrazioni statali, degli enti pubblici territoriali e degli altri enti pubblici non economici nonché degli enti che svolgano «funzioni di rilievo costituzionale» (art. 1, d.lgs. n. 231/01).
Si tratta di un impianto normativo pensato in riferimento a fattispecie di natura dolosa che, dapprima, con l’art. 9 della l. n. 123/2007 e, ora, con il d.lgs. n. 81/2007 è stato, per la prima volta, esteso ai casi di reati colposi previsti e puniti dagli artt. 589 e 590, comma 3, c.p. ove commessi con violazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro.
Come è noto, questa nuova e specifica forma di responsabilità si distingue da quelle di natura personale ascrivibili ai soggetti agenti: quella penale per i delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. e quella (penale o amministrativa) derivante dalle violazioni prevenzionali di natura contravvenzionale commesse sia autonomamente che unitamente a quei delitti. Quella di cui al D. Lgs. 231/2001 ricorre, a carico dell’ente, quando il delitto di lesioni colpose gravissime (art. 590, comma 3, c.p.) o di omicidio colposo (art. 589 c.p.) siano stati commessi, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, da persone che vi svolgano, anche di fatto, funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione anche solo nell’ambito di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale ovvero anche da persone «sottoposte alla loro direzione o vigilanza» (art. 5, d.lgs. n. 231/2001).
Queste sono precisamente le regole e le condizioni fissate dalla normativa generale. Ma non pare proprio possa dubitarsi che la sua estensione alla materia della sicurezza-lavoro operi alle medesime condizioni fissate dallo stesso d.lgs. n. 231/01, salve soltanto le specificità espressamente introdotte dall’art. 25 septies della l. n. 123/2007, come modificato dall’art. 300 del d.lgs. n. 81/2007, ad esempio, con riferimento alla durata delle sanzioni interdittive e all’entità di quelle pecuniarie. Da tale responsabilità derivano, appunto, non solo pesanti sanzioni pecuniarie ma anche sanzioni interdittive di non minore rilevanza (interdizione dall’esercizio dell’attività, sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni, divieto di contrattare con la p.a., esclusione da vari benefici o finanziamenti o loro revoca, divieto di pubblicizzare beni o servizi, confisca e pubblicazione della sentenza di condanna). Si tratta nel complesso di sanzioni particolarmente severe e incisive, dotate di elevata efficacia deterrente, che in questa sede non abbiamo il tempo di esaminare ma che possono agevolmente essere ricavate dall’esame del testo legislativo.
Si pensi solo che le sanzioni interdittive possono essere applicate, addirittura, con ordinanza, su richiesta motivata del P.M., anche in via cautelare (artt. 45 ss.) ove si ravvisino gravi indizi di responsabilità e si ritenga sussistente il pericolo della reiterazione del reato.
Anche le sanzioni pecuniarie si presentano molto severe tenendo conto dei loro importi particolarmente elevati e determinati per quote, di valore variabile; un efficace meccanismo, questo, fondato su una duplice forma di determinazione che consente di adeguare la sanzione sia alla gravità dell’illecito e al grado di responsabilità dell’ente (a tali elementi è commisurato infatti il numero delle quote da applicare) che alle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente responsabile (cui è commisurato l’importo delle singole quote). Il vecchio testo dell’art. 25 septies della L. 123/07 prevedeva, addirittura, che, in tutte le ipotesi di delitto connesso a un infortunio sul lavoro, il numero delle quote fosse determinato in misura fissa e addirittura corrispondente al massimo edittale (mille quote) mentre ciò che restava da determinare era solo il valore della singola quota (che può variare da un minimo di 258 a un massimo di 1.549 euro). La sanzione concretamente applicabile a tali ipotesi risultava, quindi, particolarmente elevata, variando da un minimo di 258.000 a un massimo di 1.549.000 euro.
Il nuovo testo dell’art. 25 septies, introdotto dall’art. 300 del d. lgs. 81/2008, ha ridotto sia la durata minima della pena interdittiva sia l’entità di quella pecuniaria commisurandole entrambe al tipo di attività svolta dall’azienda; per cui quelle terrificanti originariamente fissate nel 2007 sono rimaste invariate solo per i casi di omicidio colposo commesso nelle aziende a rischio elevato di cui all’art. 55, co. 2, T.U. (che, ad es., comprende anche i cantieri edili o di ingegneria civile in cui operino più imprese e la cui entità presunta non sia inferiore a 200 uomini-giorno) con grave violazione degli obblighi di valutazione dei rischi e di redazione del piano di sicurezza; in tutti gli altri casi di omicidio colposo o di lesioni colpose gravissime derivanti da infortunio sul lavoro o malattia professionale, la durata delle sanzioni interdittive e l’entità di quelle pecuniarie è stata ora, invece, notevolmente attenuata: da 250 a 500 quote con sanzioni interdittive da tre mesi a un anno, in caso di omicidio; fino a 250 quote, con sanzioni interdittive non superiori a sei mesi, in caso di lesioni. Sanzioni che, pur così attenuate, restano comunque particolarmente severe e onerose.
Ciò che conta sottolineare in questa sede è che il legislatore, una volta fissato questo quadro sanzionatorio iniziale particolarmente severo, lo ha dotato anche di una spiccata elasticità predisponendo contemporaneamente gli strumenti utili a ridimensionarlo considerevolmente, ove si verifichino determinate condizioni.
Sono state previste, infatti, una serie di ipotesi di totale esonero dell’ente da ogni responsabilità che impediscono, quindi, l’applicazione sia delle sanzioni pecuniarie che di quelle interdittive: ciò accade quando l’ente abbia previsto e concretamente attuato, prima del verificarsi dell’evento dannoso, rigorosi modelli organizzativi volti a prevenire la commissione di quei reati i quali, quindi, siano stati realizzati (sia dai dirigenti apicali che dai soggetti sottoposti alla loro direzione) eludendo fraudolentemente le regole interne e il relativo sistema di controlli.
L’adozione dei “modelli organizzativi” determina la revoca delle sanzioni interdittive o la (notevole riduzione di quelle pecuniarie anche quando intervenga “a posteriori”, cioè dopo il verificarsi dell’evento lesivo e persino durante il relativo processo penale, addirittura anche dopo pronuncia della sentenza di primo grado.
Si tratta quindi di un potente meccanismo destinato a incidere non solo e non tanto nella repressione dei reati quanto nella fase prevenzionale nella promozione di comportamenti virtuosi.
Nel delineare questi modelli organizzativi, il legislatore del 2001, all’art. 6, si limita a fissare standard di comportamento di carattere generale e, tuttavia, sufficientemente determinati. In estrema sintesi, si tratta dell’adozione di un sistema di strumenti di organizzazione e di gestione idonei a prevenire i reatii che consentano, in particolare di:
- a) individuare le attività a rischio (in cui «possono essere commessi reati»);
- b) «prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione» all’attività prevenzionale;
- c) individuare idonee modalità di gestione delle necessarie risorse finanziarie;
- d) individuare un organismo interno dotato di «autonomi poteri di iniziativa e di controllo» al quale tutti i soggetti coinvolti abbiano l’obbligo di fornire le necessarie informazioni;
- e) creare infine un sistema disciplinare «idoneo a sanzionare il mancato rispetto» del modello organizzativo.
Fin qui la norma di carattere generale che è stata tuttavia integrata da una disciplina specifica afferente la materia della sicurezza-lavoro dalla riforma operata con il d. lgs. 9 aprile 2008 n. 81 che, appunto, all’art. 30 disciplina i “Modelli di organizzazione e di gestione” utili ad esonerare gli enti dalla responsabilità amministrativa connessa ai reati in materia di sicurezza del lavoro. In realtà quest’ultima norma non aggiunge molto alla disciplina generale limitandosi a sancire che il modello di organizzazione:
- -deve essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici» in materia,
- – deve prevedere o «il rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici;» o le «attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti»;
- le «attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza»;
- le «attività di sorveglianza sanitaria»,
- quelle «di informazione e formazione dei lavoratori»,
- quelle di «vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori»,
- quelle di «acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge»
- «periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate».
Fin qui, francamente poco di nuovo rispetto agli obblighi in materia di sicurezza-lavoro già imposti dalla legge alla generalità dei datori di lavoro.
Più significativo appare, invece, l’obbligo di «prevedere idonei sistemi di registrazione dell’avvenuta effettuazione delle attività di cui al comma 1» (imposto dal secondo comma) nonché quello di definire anche «un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio» (terzo comma). Infine, rilevante appare anche l’obbligo di prevedere «un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello» ricalca una norma già fissata nell’art. 6 del d.lgs. 231/01 (let. e).
Ancor più interessante è infine il quarto comma secondo cui «Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate». La norma, infatti, non prevede alcuna autonomia in capo all’organismo che deve essere preposto a tale controllo, così come sancisce invece l’art. 6 del d. lgs. 231/01. Essa che, per la sua natura speciale deve ritenersi senz’altro prevalente, consente quindi di conferire tale funzione di controllo allo stesso Servizio di Prevenzione e Protezione di cui agli artt. 31 ss.. del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81.
Non è previsto, come accade invece, nella disciplina generale, che i modelli possano essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti (art. 6, III co., D. Lgs. 231/01). Il quinto comma prevede soltanto che, in sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui ai commi precedenti per le parti corrispondenti. Ulteriori modelli di organizzazione e gestione aziendale possono essere indicati dalla Commissione di cui all’articolo 6. Questo naturalmente non esclude che modelli di organizzazione non strettamente conformi a tali linee guida possano ugualmente integrare i requisiti di cui all’art. 30 del D.Lgs. 81/08. Né, tantomeno, ciò impone alle aziende l’onere di ottenere una vera e propria certificazione di qualità.
Come è agevole constatare, quindi, il modello organizzativo disegnato dal d. lgs. 231/2001 e integrato dall’art. 30 della riforma del 2008 coincide quindi largamente con il sistema prevenzionale aziendale imposto dalla normativa in materia di sicurezza.
In definitiva, pare necessario aggiungere soprattutto il sistema di sanzioni disciplinari che può ben essere quello regolato dall’art. 7 della L. 300/70 (e dalla contrattazione collettiva) inserendovi espressamente sanzioni specifiche relative alle violazioni in materia di sicurezza, cosa questa già prevista da molti contratti collettivi e comunque largamente diffusa, almeno nelle realtà aziendali medio-grandi.
In altre parole, il sistema prevenzionale aziendale disegnato dal d.lgs. n. 81/2008 integra o può agevolmente integrare (con pochi aggiustamenti) il modello organizzativo di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 231/01.
Come ho già sottolineato, questa sapiente combinazione fra severità ed elasticità del meccanismo punitivo, finisce per essere un potente incentivo a predisporre un sistema prevenzionale aziendale serio e rigoroso.
A questo proposito è importante, infine, sottolineare che il d.lgs. n. 231/01 attribuisce la cognizione in ordine alla responsabilità amministrativa dell’ente al medesimo giudice penale chiamato a conoscere dei reati connessi. Nel medesimo processo, quindi, si deciderà sia sulla responsabilità penale delle persone fisiche che sulla responsabilità amministrativa della persona giuridica; e poiché quest’ultima è espressamente condizionata anche all’esistenza, alla congruità e alla corretta attuazione del modello organizzativo prevenzionale applicato in azienda, quest’ultimo pare finalmente destinato a fare ingresso nel processo penale assumendovi una rilevanza decisiva ai fini dell’accertamento di ogni tipo di responsabilità derivante da un infortunio sul lavoro o da una malattia professionale.
Con l’estensione della sanzione amministrativa a carico dell’ente anche alla materia della sicurezza del lavoro, l’effettiva e corretta istituzione del sistema prevenzionale aziendale dovrebbe aver dunque trovato finalmente un giudice deputato a conoscerla e valutarla con particolare attenzione. E questo non potrà non costituire un ulteriore, potente incentivo alla corretta attuazione del sistema prevenzionale aziendale.
5. L’incerta sanzionabilità delle violazioni del dovere generale di sicurezza
Proprio però mentre introduce questo potente incentivo alla serietà attuativa del sistema prevenzionale interno all’azienda, lo stesso D. lgs. 81/08, in modo del tutto contraddittorio, ai limiti della schizofrenia, ne introduce un altro di segno esattamente opposto sul piano dei principi generali.
Come è noto, mentre i singoli adempimenti prevenzionali sono sanzionati penalmente anche in via prevenzionale, ossia anche in mancanza di un evento lesivo (infortunio o malattia professionale), tutte le norme che sanciscono il dovere generale di sicurezza (art. 41, comma 1, Cost., art. 2087 c.c. e l’art 3 del d.lgs. n. 626/1994, ora sostituito dall’art. 15, del d.lgs. n. 81/2008) sono invece sfornite di specifica sanzione penale.
Esse assumono una rilevanza notevole in sede penale ma solo a seguito del verificarsi dell’evento lesivo, nel riempire di contenuto le fattispecie criminose di cui agli artt. 589 e 590. La giurisprudenza finora ha utilizzato in tal senso soprattutto l’art. 2087 cod. civ. ma nulla esclude (anzi tutto fa ragionevolmente ritenere) che in tal senso possano essere utilizzate anche tutte le altre norme che sanciscono il dovere generale di sicurezza e, specificamente, ora, l’art. 15 del d.lgs. n. 81/2008.
In via preventiva, invece, tali norme mancano di apposite sanzioni afflittive (penali o amministrative) poste a garanzia del loro rispetto.
Si deve quindi ritenere che, in mancanza di evento lesivo, ancora oggi il datore di lavoro possa essere punito solo se incorra in un inadempimento espressamente individuato da una delle cd. norme tecniche? Nessuna sanzione gli si potrebbe applicare invece qualora egli esponga i propri dipendenti a evidenti situazioni di pericolo (avendo predisposto un piano di sicurezza evidentemente lacunoso) che però non siano espressamente tipizzate dalla legge? E nessuna sanzione prevenzionale potrà applicarsi neanche al datore di lavoro che addirittura, pur avendo individuato una determinata situazione di rischio e i relativi rimedi prevenzionali sia rimasto poi inerte violando così le prescrizioni dello stesso piano di sicurezza aziendale?
Se così fosse, ne verrebbe fortemente sminuita l’efficacia complessiva del nuovo sistema prevenzionale: le disposizioni di legge, infatti, come è noto, non possono mai arrivare a prevedere tutte le situazioni di rischio e sono, peraltro, destinate a rapida obsolescenza di fronte alla rapida evoluzione dell’organizzazione aziendale e delle tecniche produttive. Intervenire, dunque, solo in funzione repressiva, dopo il verificarsi dell’evento lesivo, non tutelerebbe adeguatamente i rilevantissimi interessi protetti.
Già in sede di interpretazione del d.lgs. n. 626/1994 (sia nel mio quaderno edito da Cacucci nel 2001 che nel mio contributo al Commentario UTET del 2007) avevo personalmente cercato di superare in via esegetica questo che si presenta come un limite storico della normativa prevenzionale. Rilevavo, infatti, che l’art. 4, imponesse all’imprenditore – specie nella formulazione modificata dall’art. 21, della l. 1.3.2002, n. 39 (a seguito della condanna della CGCE 15 novembre 2001 [causa C-49/00, in Riv. it. dir. lav. 2002, II, 221]) – di individuare e valutare tutti i rischi esistenti nell’azienda (art. 4, comma 1) e di predisporre un dettagliato piano delle misure e cautele necessarie a fronteggiarli adeguatamente (art. 4, comma 2). Rilevavo inoltre che la concreta attuazione delle misure così individuate era imposta all’imprenditore dal successivo comma 5 della medesima norma che rendeva doverosa non solo l’attuazione di alcuni adempimenti particolari (ad esempio, affidare le mansioni tenendo conto delle esigenze di tutela dei lavoratori [let. c], fornire i dispositivi personali di protezione [let. d], limitare l’accesso alle zone con rischio grave e specifico ai soli lavoratori che abbiano ricevuto adeguate istruzioni [let. e], esigere l’osservanza degli obblighi del medico competente [let. g], adottare le misure necessarie in caso di emergenza anche per l’evacuazione dei lavoratori interessati [let. h], adottare le misure necessarie in caso di rischio grave e immediato [let. q] e informare adeguatamente i lavoratori esposti [let- i]), ma imponeva anche, alla lettera f), a tutti soggetti obbligati, di “richiedere l’osservanza, da parte dei singoli lavoratori, delle norme vigenti nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e igiene del lavoro …”.
In pratica, con questa norma, penalmente sanzionata dal successivo art. 89, II comma, let. b, il legislatore del 1994 imponeva di attuare concretamente le disposizioni contenute nel piano di sicurezza aziendale che, a sua volta, doveva individuare, valutare e fronteggiare tutti i rischi esistenti nello specifico ambiente di lavoro.
L’organo di vigilanza, quindi, in caso di accesso ispettivo, anche in caso di constata omissione o lacunosità del piano di sicurezza ovvero in caso di mancata attuazione delle sue prescrizioni, poteva emettere non una mera disposizione ex art. 10 del d.p.r. n. 510/1955 (che, come è noto, non presuppone alcun reato, si limita imporre adempimenti che non siano già imposti dalla legge penale e, quindi, in caso di ottemperanza, non comporta l’applicazione di alcuna sanzione) bensì un vero e proprio provvedimento di prescrizione ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 19 dicembre 1994 n. 758 che, invece, presuppone il perfezionarsi del reato e comporta, comunque, l’applicazione di sanzioni amministrative.
Questa ricostruzione esegetica mi appariva conforme alla ratio della legge e delle stesse direttive europee da essa recepite posto: sarebbe infatti davvero assurdo imporre al datore di lavoro di individuare tutti i rischi esistenti nella sua azienda e di prevedere gli accorgimenti necessari per evitarli salvo poi lasciarlo libero in ordine alla loro … concreta attuazione.
Non mi pare possano sollevarsi dubbi sulla legittimità costituzionale di un simile meccanismo applicativo ad esempio ritenendo eccessivamente generico il precetto penale che ne deriva ovvero scandalizzandosi del fatto che esso finisca per essere dettato mediante rinvio a regolazioni privatistiche (valutazione dei rischi e relativo documento). A parte infatti l’abbondanza di precedenti analoghi nell’ambito del diritto penale, a parte anche il fatto che gli atti privatistici considerati nel caso di specie sono posti in essere dallo stesso soggetto responsabile, decisiva appare a mio avviso la circostanza che, in sede repressiva, al fine cioè di accertare i delitti di cui agli artt. 589 e 590, la magistratura ha sempre fatto largo uso di quegli stessi precetti generali (art. 2087 c.c.) e delle prescrizioni del piano di sicurezza aziendale. Non si vede, quindi, per quale ragione non se ne possa tener conto anche al fine di applicare le meno gravose sanzioni contravvenzionali.
In questo modo poteva ritenersi sanata in modo indiretto ma efficace, nel vigore della disciplina precedente, la lacuna da tempo individuata nel nostro ordinamento dalla più attenta dottrina (SMURAGLIA 1974) circa la mancanza di una sanzione penale che assistesse il dovere generale di sicurezza sancito dall’art. 2087 c.c. e dall’art 3 del d.lgs. n. 626/1994.
Un ostacolo letterale che nell’ambito di tale soluzione esegetica si doveva affrontare per risolvere del tutto il problema della lacunosità della valutazione dei rischi era connesso alla mancata sanzione penale del primo comma dell’art. 4, proprio quello in cui era stato inserito il riferimento a tutti i rischi (recependo, come si è detto, l’input della Corte di Giustizia Europea). Ma il problema appariva risolvibile, appunto, in via esegetica dovendosi ritenere che, se il secondo comma (penalmente sanzionato dall’art. 89, comma 1) rendeva obbligatoria la valutazione dei rischi, questa non poteva che essere la stessa di cui al primo comma dello stesso art. 4 e quindi essere necessariamente “completa”, secondo le indicazioni di tale norma.
Il nuovo testo normativo introdotto dal d.lgs. n. 81/2008, comunque, colma ampiamente tale ipotetica lacuna poiché il richiamo alla completezza della valutazione dei rischi viene ripetuto sia nel primo comma dell’art. 28 che nella lettera a) del secondo comma e persino nell’art. 17, che riguarda i compiti indelegabili. Ma, ciò che più conta, l’art. 55 in materia di sanzioni, punisce espressamente sia la mancata realizzazione della valutazione dei rischi sia la sua effettuazione “in assenza degli elementi di cui alla lettera a)” che, appunto, sottolinea che il documento deve riguardare tutti i rischi esistenti.
Il problema della sanzionabilità penale della omissione o della incompletezza della valutazione dei rischi e del relativo documento può considerarsi così definitivamente risolto dovendosi quindi ritenere che questo atto deve individuare, valutare e fronteggiare tutte le situazioni di rischio esistenti nello specifico ambiente di lavoro indipendentemente dalla loro corrispondenza a specifiche ipotesi di reato legislativamente codificate.
In caso di accesso ispettivo, quindi, l’organo di vigilanza potrà senz’altro emanare una prescrizione per ogni lacuna del genere eventualmente riscontrata. Per ragioni di coerenza interna del sistema e soprattutto in omaggio all’imprescindibile principio della personalità della responsabilità penale dovrà trattarsi naturalmente sempre di lacune individuabili con la diligenza professionale e specifica ampiamente divisata dallo stesso d.lgs. n. 81/2008 dal quale si ricava il principio secondo cui il sistema prevenzionale aziendale si deve avvalere delle più aggiornate conoscenze tecnologiche e di personale esperto e qualificato.
Del tutto diversa e molto più complicata appare invece la situazione sull’ulteriore versante della sanzionabilità penale della omessa attuazione delle prescrizioni contenute nel documento di valutazione dei rischi (alias: piano di sicurezza), cioè del mancato, concreto apprestamento delle cautele e misure in esso previste.
Nella riforma, infatti, incredibilmente, è scomparso il dovere del datore di lavoro (e dei dirigenti) di attuare le prescrizioni del piano di sicurezza che egli stesso ha elaborato. Nella nuova formulazione sono spariti, infatti, sia l’inciso di apertura del comma 5 dell’art. 4 (“Il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e in particolare:”) sia, e la cosa è particolarmente grave, la sanzione penale connessa alla violazione della lettera f) che, anche nella riforma prescrive di “richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti nonché delle norme aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro …”; tale norma è, quindi, oggi sfornita di sanzione.
La svista (perché solo di questo può trattarsi) appare grave proprio per il fatto di non poter essere agevolmente colmata in via interpretativa, trattandosi appunto di legge penale.
Nessun’altra norma contenuta nella riforma impone, del resto, al datore di lavoro o ai dirigenti il rispetto delle prescrizioni contenute nel piano di sicurezza aziendale.
A parte gli adempimenti “burocratici”, quindi, (elaborazione della valutazione dei rischi e del documento, nomina dei vari collaboratori dell’imprenditore ecc.), resta penalmente sanzionata solo l’omissione degli specifici adempimenti prevenzionali espressamente richiamati dall’art. 18, come ad esempio quelli in materia di informazione e formazione, e da altre norme specifiche del decreto legislativo, ma non l’omissione di quegli stessi adempimenti individuati come necessari dallo stesso datore di lavoro nel proprio piano di sicurezza; restandone gravemente minata la coerenza stessa del sistema normativo così delineato.
Sul piano pratico, la cosa potrebbe indurre a prassi pericolosamente distorte. Certo, in caso di infortunio sul lavoro, la responsabilità del datore di lavoro sarebbe notevolmente aggravata ove si riscontrasse la mancata attuazione delle stesse prescrizioni di sicurezza individuate nel d.v.r.. In simili situazioni, si potrebbe persino ipotizzare una responsabilità dolosa con dolo eventuale (come nella famosa ordinanza del GUP di Torino nel caso Thyssen Group). Ma non dobbiamo farci soverchie illusioni: specie nei settori in cui l’incidenza degli infortuni è minore, i datori di lavoro potrebbero essere facilmente indotti a non attuare alcuna delle misure di sicurezza previste dal documento (come del resto è largamente accaduto sin’ora), con la riserva mentale di porvi mano solo a seguito di eventuale accesso ispettivo dell’organo di vigilanza e della emanazione da parte di questi del provvedimento di disposizione ex art. 10, d.p.r. n. 520/1955. Si può anche agevolmente immaginare che, in caso di infortunio, le aziende più furbe, tenterebbero di attuare precipitosamente le misure omesse nel lasso di tempo – purtroppo non sempre breve – intercorrente fra l’evento e l’arrivo delle autorità inquirenti.
Insomma, in mancanza di un rapido intervento correttivo del legislatore, la schizofrenia del sistema italiano fra lassismo preventivo e severità repressiva rischia, oggi, dopo la riforma del 2008, assurdamente, di aggravarsi ulteriormente.
Personalmente ho denunciato questa lacuna o svista che dir si voglia nel commentario IPSOA e in tutti i miei interventi nella pubblicistica. Presumevo (rectius: speravo) che nel porre mano al correttivo di cui si parla in questi giorni il legislatore ne avrebbe tenuto conto. Ma le indiscrezioni di stampa sin’ora disponibili non lasciano molto spazio all’ottimismo. Vedremo il testo definitivo.
Avv. Francesco Stolfa