LA TUTELA DELLA PROPRIETA’ NELLA CONVENZIONE PER I DIRITTI DELL’UOMO – ESPROPRIAZIONI E OCCUPAZIONI


di Arcangelo Cafiero


In un momento in cui l’opinione pubblica è maggiormente attenta ai problemi della tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inalienabili della persona, sollecitata dal tema della discriminazione razziale e della violenza, specie sulle donne, parrebbe un fuor di luogo parlare, specie a chi ancora oggi ritiene che la proprietà sia un furto, della tutela della proprietà nella Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.


Va però precisato che la Convenzione originaria non aveva alcun richiamo alla tutela della proprietà privata.


Ed a ben donde: la Convenzione affonda le sue radici nei movimenti nati nel secolo XVII, con il Bill of right e l’Habeas Corpus Act, per affermare e garantire la protezione dei diritti umani nei confronti dell’autorità, e sviluppatisi poi con le teorie illuministiche e con quelle liberali e già democratiche –si pensi al Saggio sulla libertà di Stuart Mill– sino alle fondamentali solenni dichiarazioni americana del 1776 e francese del 1789.


Immediato precedente è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata nel dicembre del 1948 dall’Assemblea dell’ONU, con l’intento di rendere sacro l’impegno a più non commettere gli errori e soprattutto gli orrori, come l’Olocausto, della Seconda Guerra Mondiale.


Le solenni affermazioni, quindi, di tutela e protezione della persona e del cittadino, inerivano orginariamente solo alle libertà fondamentali e non già a quelle strumentali quali la proprietà o l’impresa.


Però, solo due anni dopo, con il primo Protocollo Addizionale firmato a Parigi, -altri protocolli in seguito integreranno la Convenzione- all’art. 1 viene introdotta ed inserita nel novero dei diritti della persona la tutela e protezione della proprietà: “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica”.


Il protocollo, unitamente alla Convenzione originaria, fu recepito nel nostro ordinamento, come fonte normativa primaria, a seguito dell’ordine di esecuzione della L. 848/1955.


La ragione dell’affermazione delle nuova tutela è intuitiva: la tutela dei diritti della persona, storicamente affermatasi, è il prodotto di un ceto e di una società borghese, di poi capitalistica, conscia e gelosa dei propri valori tra i quali rientra certamente e principalmente l’assolutezza del diritto di proprietà.


La riprova è che i primi firmatari della Convenzione romana –siamo in piena guerra fredda- furono solo le democrazie occidentali, governi di espressione e di identità borghese e capitalistica.


D’altra parte -non certo la Magna Cartha, che dopo tutto, anche con un primo abbozzo dell’Habeas Corpus, in realtà era indirizzato ad affermare i diritti dei Baroni nei confronti del Re, e forse nemmeno il Bill of Right, dove le affermazioni delle libertà e dei diritti dei cittadini, meglio, allora, dei sudditi, si accompagnavano alla rivendicazione dell’autorità del Parlamento, tant’è che si dichiarava decaduto Giacomo II e minutamente si disciplinava la successione dinastica- le solenni dichiarazioni storiche in realtà costituivano rivendicazioni del ceto borghese nei confronti dei ceti sovraordinati, lasciando, purtroppo, nel limbo degli ignorati dalla storia, le classi dei non possidenti o, per usare un termine ormai in disuso, dei proletari.


Ed infatti, nonostante la solenne dichiarazione americana, si è dovuto attendere quasi due secoli per limitare negli Stati Uniti la discriminazione razziale e non è stato impedito l’eccidio delle popolazioni autoctone, così come la dichiarazione francese non ha impedito gli eccessi della guerra d’Algeria.


Grazie al cielo, però, in controtendenza era la nostra costituzione repubblicana, che, all’art. 42, riconosce e garantisce la proprietà pubblica e privata, sancendo, inoltre, per la proprietà privata, l’accessibilità a tutti e soprattutto il limite della “funzione sociale”, che è cosa ben diversa dalla “utilità pubblica”, prevista dal successivo protocollo di Parigi.


E ben s’intende: la nostra costituzione, a differenza di altre, scaturisce dall’incontro delle ideologie liberali e cattoliche con quella socialista.


Ed era certamente la rottura con il sistema imperante sino al 1948.


E’ ben vero che l’espropriazione era già disciplinata da una legge del 1865, ma è altrettanto vero che la legislazione civilistica post-unitaria –e sino all’attuale codice civile del 1942- modellata sul “Code Napoleon”, era tutta incentrata sulla proprietà, tant’è che le successioni, le obbligazioni, la tutela dei diritti, non avevano la dignità di libri o titoli autonomi, ma erano considerati, nel libro terzo, quali “modi di acquistare e di trasmettere la proprietà e gli altri diritti sulle cose”.


La rottura operata dalla Costituzione con l’affermazione della funzione sociale, e la considerazione che l’attuale codice civile non definisce la proprietà ma invero solo il “proprietario”, ha comportato il frantumarsi dell’unitario concetto ed istituto della proprietà, con l’individuazione -specialmente con l’opera del PUGLIATTI– delle diverse forme proprietarie, si pensi alla proprietà conformata, definita dalla pianificazione del territorio, richiamata più volte ancora dalla giurisprudenza, tant’è che si è iniziato a parlare dello Statuto delle Proprietà, con problemi di inquadramento dell’istituto tant’è che addirittura per Rodotà la proprietà era diventata un “diritto terribile”.


Epperò sino ad allora, non v’era stato alcun conflitto con la Convenzione dei Diritti della Persona.


Il contrasto, invece, sorse in materia di procedimenti ablatori, così come allora erano disciplinati, soprattutto in ragione del ristoro che non era satisfattivo: si pensi alle iugulatorie modalità di calcolo dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili (per le zone agricole e, comunque, per quelle non edificabili, l’indennità si determinava secondo i parametri della Legge sulla Casa, la 865/1971), che veniva effettuato con il successivo defalco addirittura del 40%, contenute nel D.L. 11 luglio 1992 n. 333, applicato sino allo scorso anno, che aveva il solo scopo, provvisorio ma poi –come suole- divenuto permanente, del risanamento della finanza locale.


Epperò il conflitto si acuì con l’introduzione, pretoria, e cioè da parte della Giurisprudenza e, quindi, non legislativa, nel nostro ordinamento dell’accessione invertita e cioè l’acquisizione originaria, da parte dell’amministrazione, della proprietà del bene privato a seguito della realizzazione di un’opera pubblica in mancanza originaria o sopravvenuta della dichiarazione di pubblica utilità o del compimento del procedimento ablatorio con il conclusivo decreto di esproprio.


Anche e soprattutto in tal caso veniva sacrificata la proprietà privata sia per la mancanza di un legittimo titolo adquirendi sia perché, il comma 7 bis dell’art. 5 bis del D.L. 333/1992, introdotto dalla Finanziaria L. 662/1996, l’importo del risarcimento veniva determinato in maniera non congrua come per l’indennità di espropriazione.


In definitiva, la giurisprudenza introduceva un nuovo titolo di acquisto originario della proprietà però “per fatto illecito”.


La vita giudiziaria del nuovo istituto non fu affatto serena: si iniziò a distinguere tra occupazione acquisitiva e occupazione usurpativa, la prima sorretta comunque da una valida, almeno originariamente, dichiarazione di P.U., la seconda sine titulo, ma comunque, come specificato successivamente dalla Corte delle Leggi, espressione di attività non collegata con il potere autoritativo dell’amministrazione; con la conseguenziale diversità –in origine- del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno: cinque anni per la prima e, originariamente, dieci anni per la seconda, che prevedeva però la restituzione del bene qualora ciò fosse stato possibile o se al reintegro si rinunciava in favore del risarcimento.


Fondamentale fu la sentenza delle SS.UU. del 1983 (26 febbraio n. 14649)  che parlò di illecito istantaneo con effetti permanenti nonché la sentenza delle SS.UU. del 1990 (11 luglio n. 7210) che affermò la dicotomia tra spossessamento illecito ed acquisizione lecita (con la conseguente nascita per l’ablato di un diritto personale di credito che si prescrive in dieci anni), che ebbe pure l’avallo della Corte Costituzionale con la sentenza 23.5.1995 n. 188. In alcune decisioni, poi, di questo variegato panorama giurisprudenziale, si parlò non più di risarcimento del danno ma di indennizzo, con l’ovvia determinazione del termine decennale di prescrizione.


Si pose pure un problema di giurisdizione, già con il decreto legislativo 80/1998 –ove si ripartiva la giurisdizione tra il giudice ordinario e quello amministrativo per blocchi di materie, attribuendo in via esclusiva al giudice amministrativo la materia urbanistica, intendendosi tutti gli aspetti dell’uso del territorio- e, di poi, censurate dalla Corte Costituzionale le norme in questione, con la l. 205 del 2000, causando un palese conflitto tra il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione, risoltosi definitivamente -pare- solo lo scorso anno con l’attribuzione dell’intera materia al giudice amministrativo, competente anche per il risarcimento del danno, ed al giudice ordinario solo i casi in cui l’attività acquisitiva sia stata posta in essere senza l’assistenza di un atto, ancorché illegittimo, proveniente dall’amministrazione.


In questa vicenda però ben presto si inserisce la Corte di Strasburgo, la Corte dei Diritti Umani, con le fondamentali sentenze Belvedere Alberghiera s.r.l. e Carbonara-Ventura, ambedue del 30 maggio 2000 che censurarono l’istituto della occupazione acquisitiva ritenendolo illegittimo perché evidentemente lesivo del diritto di proprietà tutelato dall’art. 1 del Protocollo parigino e, quindi, della certezza dei rapporti giuridici, riconoscendo l’obbligo della restituzione del bene e condannando lo Stato italiano al risarcimento del danno.


In definitiva, per la CEDU, l’istituto dell’accessione invertita comportava la violazione dell’art. 1 del Protocollo di Parigi per la violazione del principio di legalità nel bilanciamento degli interessi tra il privato e l’amministrazione, consentendo all’amministrazione di trarre vantaggio da una situazione di illiceità.


Reagisce, quasi immediatamente, la Corte di Cassazione a SS.UU. nel 2003 (la n. 6853), e già ponendosi il quesito dell’efficacia nel nostro ordinamento delle norme e delle sentenze della CEDU, affermando pilatescamente che “le due discipline non sono in contrasto”, rimarcando per altro che la sentenza Belvedere riguardava una fattispecie di occupazione usurpativa, con disciplina diversa da quella acquisitiva (per cui per essa non si produce l’effetto acquisitivo in favore dell’amministrazione potendosi richiedere la reintegrazione in forma specifica o il risarcimento del danno senza questione di prescrizione trattandosi di illecito a carattere permanente), mentre la sentenza Carbonara-Ventura, invece, censurava non già l’istituto dell’occupazione ma il solo irregolare bilanciamento degli interessi (principio di legalità).


Di conseguenza, riguardando il contrasto solo l’irregolare bilanciamento degli interessi, la Prima Sezione della Suprema Corte, con ordinanza 20 maggio 2006, rimetteva alla Corte Costituzionale la questione delle legittimità costituzionale del famigerato art. 5 bis  e del suo comma 7 bis (quelli della determinazione dell’indennità nella espropriazione e del danno nell’occupazione acquisitiva) per violazione del giusto processo e della parità tra le parti, richiamando espressamente la violazione della Convenzione.


Nel frattempo la CEDU continuava l’azione demolitrice dell’istituto con la causa Lanteri del 2005, con la causa Iuliano del 2006, e soprattutto con le sentenze in causa SCORDINO, del marzo e maggio 2007, trattate anche in sede di Gran Corte nel marzo 2006, ove si censurava ben anche il sistema incongruo della determinazione, come stabilito dall’art. 5 bis, della indennità di espropriazione, riconoscendosi l’obbligo del privato d’ottenere, in caso di mancata restituzione del bene una somma pari al valore del bene in natura oltre l’ulteriore risarcimento per le perdite subite.


La CEDU, in queste decisioni, dichiarava espressamente che lo Stato italiano ”era tenuto” ad una celere riforma legislativa in materia, ponendo fine alla strutturale violazione dell’art. 1 del Protocollo di Parigi.


E lo stesso Comitato dei Ministri presso il Consiglio d’Europa, con la risoluzione interinale del 14 febbraio 2007, aveva censurato l’istituto per “violation systemique” del diritto di proprietà.


I tempi erano ormai maturi.


Infatti interveniva nel dibattito il Consiglio di Stato, con la sentenza della IV Sezione 21 maggio 2007 n. 2582, per la quale “non può ritenersi vigente l’istituto giurisprudenziale dell’occupazione espropriativa sia per contrasto con la Convenzione sia anche perché incompatibile con l’art. 43 del D.P.R. 327/2001 sull’acquisizione sanante”, entrato in vigore però nel giugno di due anni dopo, e di cui parleremo in seguito.


Pone la parola fine la Corte Costituzionale, sia alle modalità di determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili, come prevista dai primi due commi dell’art. 5 bis, con la sentenza n. 348 sia, in definitiva, all’istituto pretorio dell’occupazione appropriativa con la sentenza n. 349, con l’eliminazione del comma 7 bis, ambedue le sentenze nella medesima data del 24 ottobre 2007, componendo finalmente il conflitto con la CEDU.


Innanzi tutto la Corte delle leggi si pone il problema dell’inquadramento delle norme della CEDU nell’ambito delle fonti del diritto, considerando che, dopo tutto, trattandosi non di norme comunitarie che producono effetti diretti nel nostro ordinamento, ma di norme pattizie, che, però, vincolano gli Stati firmatari al loro rispetto. Il problema viene risolto sulla scorta del nuovo art. 117, primo comma, della Costituzione, che condiziona la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione Europea pei Diritti dell’Uomo. Le norme CEDU, però, non assumono direttamente rango costituzionale, ma esse stesse, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, integrano il parametro di costituzionalità (si parla di “rinvio mobile”) che però va verificato dalla Corte Costituzionale, non potendo il giudice comune disapplicare la norma ordinaria ritenuta contrastante con una norma CEDU, sempre nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo.


Di qui l’illegittimità delle norme degli art. 5 bis, comma 1-2 e 7 bis del D.L.333/1992 e dell’art. 37 del D.Lgs. 327 del 2001, sull’indennità di esproprio.


La Corte, infatti, premesso che già con la sentenza di rigetto 293/1993 aveva affermato il principio del “serio ristoro”, proclamato dalla CEDU, d’altra parte escludeva in tema di espropriazione l’identificazione pura e semplice dell’indennità con il valore venale del bene. Pur tuttavia, la Corte, poiché in fatto la norma dell’art. 5 bis, 1° e 2° comma, prevedeva una indennità oscillante intorno al 30-50 % del valore del bene, in ragione poi di una sfavorevole congiuntura economica che non poteva prorogarsi all’infinito, con la sentenza n. 348 ha ritenuto che la disposizione non superava il controllo del ragionevole legame con il valore venale prescritto dalla CEDU né quello del “serio ristoro” come già inteso dalla Corte Costituzionale.


E con la sentenza n. 349 la Corte, per le medesime ragioni censurava ancora l’art. 5 bis, stavolta per il comma 7 bis, in ragione della non congruità del risarcimento per l’occupazione appropriativa, anche se previsto in misura -ma solo leggermente- superiore all’indennità per l’espropriazione.


La Corte, infine, auspicava un intervento legislativo di risistemazione del sistema che, in ogni caso, non dovesse però prevedere una totale identificazione dell’indennità con il valore venale, ma che rispondesse a pieno al principio del serio ristoro, nel rispetto dell’art. 1 del Protocollo Parigino ai fini della tutela della proprietà privata.


Epperò nel frattempo era stato emanato il T.U. sulle Espropriazioni n. 327/2001, entrato in vigore ben due anni dopo, che stabilisce una ferrea scansione temporale e giuridica con la quale deve svolgersi il procedimento ablatorio unico, prevedendo che il decreto di esproprio possa essere emanato qualora vi sia stata la dichiarazione di P.U. e che sul bene sia già stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio e che infine sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l’indennità di esproprio dopo la redazione dello stato di consistenza. Con gli ulteriori atti endoprocedimentali quali l’avviso del procedimento, la fase dell’eventuale partecipazione, la cessione bonaria e l’immissione in possesso.


L’indennità di espropriazione va determinata “con i criteri di legge” (al momento dell’entrata in vigore non v’erano ancora evidentemente gli arresti della Corte Costituzionale) e non può superare il pregiudizio subito dal proprietario espropriato.


L’indennità è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di cessione o alla data di emanazione del decreto di esproprio, valutando i vincoli conformativi e non quelli espropriativi.


Per i terreni agricoli ogni anno l’apposita Commissione ne determina il valore medio.


Per le aree edificabili, va posto in rilievo che, conseguente all’intervento delle sentenze nn. 348 e 349 della Corte delle leggi, già la Finanziaria del 2008 aveva previsto l’indennità di esproprio con un valore pari a quello venale del bene, pur con gli annosi problemi della determinazione del concetto di edificabilità: se legale, cioè quella prevista dalla pianificazione territoriale, o invece di fatto, in zone senza previsione di piano o agricole o riservate a verde o a interventi pubblici.


Rilevante nel T.U. è la scomparsa dell’istituto dell’occupazione appropriativa che, però, esce dalla porta e vi rientra dalla finestra con l’istituto della “acquisizione sanante”, prevista dall’art. 43, che, pur precludendo all’amministrazione di diventare proprietaria di un bene se non in costanza di un titolo previsto dalla legge, consente di acquisirne la proprietà con un mero provvedimento amministrativo. Il presupposto indubbiamente è che l’amministrazione, legittimamente o il più delle volte illegittimamente, abbia il possesso di un bene privato senza aver titolo per diventarne proprietario. L’acquisizione sanante, in ispecie quella amministrativa, viene disposta –s’è detto- con puro e semplice provvedimento amministrativo (denominato in genere “decreto”), di natura discrezionale -e con effetti ex nunc- pur con il rispetto dei dovuti presupposti e della congrua motivazione (interesse pubblico eccezionale rispetto a quello privato) a seguito di un regolare procedimento amministrativo. In tal caso l’amministrazione evita la restituzione del bene, che pur sarebbe dovuta, ma l’obbliga al risarcimento del danno secondo il valore venale del bene.


A proposito dell’acquisizione sanante, una pregevole sentenza del T.A.R. di Bari (n.1751/2008), ha stabilito che, sia che la occupazione sia acquisitiva sia che sia usurpativa, l‘amministrazione non può mai ritenersi proprietaria del bene solo per l’esecuzione dell’opera pubblica, e, per converso, il proprietario non perde mai la proprietà, tant’è che può richiedere la restituzione con azione personale e non reale, che però, potrà essere paralizzata dalla manifestazione dell’amministrazione di volerne acquisire la proprietà, corrispondendo il risarcimento. In definitiva per il TAR di Bari il diritto di proprietà può estinguersi, in mancanza di decreto di esproprio o di cessione volontaria, solo per effetto del decreto di acquisizione sanante.


In conclusione:


La Corte di Cassazione, con le sentenze del 14 dicembre 2007, ha inteso delineare un orientamento uniforme in materia di espropriazione, dando attuazione ai dicta delle sentenze nn. 348 e 349 della Corte Costituzionale.


Con la sentenza n. 24260 la Corte ha ribadito il criterio di prevalenza o autosufficienza della edificabilità legale che, tra l’altro, prevede, ai fini della determinazione dell’indennità, anche la considerazione della facoltà di edificare, escludendo però dal computo dell’indennità le opere abusive, anche se per esse è stata richiesta ma non ancora ottenuta la sanatoria.


Con la più estesa sentenza n. 26275, la Corte innanzi tutto ha statuito sulla retroattività -anche ai giudizi in corso- della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 5 bis, superando la tesi di chi voleva che la pronuncia riguardasse gli espropri successivi all’entrata in vigore del nuovo art. 117 della Costituzione, che ha confermato –come abbiamo già visto- l’efficacia nel nostro ordinamento dell’art. 1 del Protocollo parigino nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo; soprattutto la Corte di Cassazione, con questa sentenza, ha affermato che il criterio valevole per la quantificazione dell’indennizzo è quello del valore venale del bene, attraverso l’espansione dell’art. 39 della Legge Fondamentale del 1865 (“giusto prezzo….in una libera contrattazione ”), art. 39 ritenuto non totalmente abrogato dall’art. 58 del T.U.-


La terza sentenza, n. 26732, riguarda l’acquisizione sanante che è ritenuta inapplicabile per le occupazioni anteriori all’entrata in vigore dell’art. 43 del T.U.-


Sembra, dunque e finalmente, ormai stabilizzato il quadro giurisprudenziale sia con riguardo all’indennità di esproprio sia con riguardo al possesso da parte dell’amministrazione di beni privati senza la causa adquirendi, senza, cioè, un titolo previsto dalla legge.


Sembra, perché, la storia delle occupazioni è proprio infinita.


Il TAR di Napoli, con una pregevole ordinanza di qualche mese fa (28 ottobre 2008), ha rimesso alla Corte Costituzionale, eccependo anche un eccesso di delega, la questione di legittimità dell’art. 43 del T.U., quello dell’acquisizione sanante, perché in spregio degli artt. 3, 24, 42, 97, 113 e 117 della Costituzione in relazione, sempre, all’art. 1 del Protocollo parigino ed anche -questa è nuova- dell’art. 6/f del Trattato di Maaastricht, perché consente all’amministrazione l’acquisizione di un bene utilizzato senza titolo in assenza di un atto ablatorio; conseguendo –è questo è vero- una finalità di sanatoria di situazioni nelle quali lo Stato –violando l’art. 1 del Protocollo- abbia compresso il fondamentale diritto di proprietà in assenza di procedure legittime di esproprio, rompendo il fondamentale equilibrio tra autorità e libertà, con palese elusione degli obblighi procedimentali, così violando la legalità sostanziale.


Non è finita, dunque; ne sentiremo ancora parlare.



       Avv. Arcangelo M. Cafiero
Presidente Emerito Ordine Forense di Trani
      



Relazione tenuta per il Convegno “La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e la Cooperazione Internazionale”. Barletta 27 – 28 marzo 2009