Comportamenti antieconomici e attività di accertamento del Fisco.
di Geremia Rendine

E’ un dato acquisito che negli accertamenti fiscali un ruolo determinante hanno senz’altro gli orientamenti della Cassazione, cui poi necessariamente fanno riferimento le istruzioni dell’Amministrazione Finanziaria ai propri funzionari nell’attività di accertamento
Uno di questi orientamenti (1), ormai consolidato, è quello secondo il quale l’Amministrazione Finanziaria può sindacare l’antieconomicità dei comportamenti tenuti dai contribuenti in relazione ad alcune operazioni commerciali, per cui, in mancanza di validi argomenti, legittimamente l’Ufficio può ritenere che l’antieconomicità del comportamento del contribuente è sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie.
Infatti in una recente sentenza, appartenente a questo orientamento, la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n.10802 del 24/7/2002, sezione V) così si esprime: “In tema di imposte sui redditi, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento ai sensi dell’art.39, primo comma , lettera d) del D.P.R. n.600 del 1973 (n.d.r. trattasi dell’accertamento induttivo); a tale riguardo il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie.”
Questo sindacato, dunque, si esplica attraverso la valutazione della “congruità” dei costi e dei ricavi che afferiscono operazioni economiche , perlopiù di compravendita, i cui risultati poi vengono dichiarati nei bilanci, nelle scritture contabili, nelle dichiarazioni dei redditi. Il parametro di riferimento per effettuare questo riscontro da parte dell’Ufficio è l’utilizzo dei prezzi di mercato, che mettono a confronto il prezzo dichiarato dal contribuente con quello normalmente praticato nel commercio, a prescindere dalla presenza di scritture contabili regolarmente tenute e di atti posti in essere privi di vizi formali.
Un accertamento fiscale di questo tipo può aversi, per esempio nel campo delle imposte dirette, mediante l’utilizzo del maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro per la compravendita di un suolo edificatorio o utilizzando il valore di cessione di azienda definito ai fini dell’imposta di registro o nella compravendita di appartamenti con riferimento al prezzo di mercato oppure può riguardare la deducibilità delle perdite relative a crediti ceduti pro soluto, di compensi attribuiti dalle società agli amministratori, di costi sostenuti per fruire di servizi forniti da altre società del gruppo, di spese di pubblicità ritenute eccessive, e i casi potrebbero essere tanti. Naturalmente questi elementi fortemente indiziari da soli non bastano perché vanno supportati con altre circostanze e argomentazioni probatorie ( tra cui l’antieconomicità dell’operazione).
Questo orientamento è evidente preoccupa non poco gli imprenditori che vedono un’invasione di campo da parte del fisco in operazioni che essi sostengono essere solo delle libere scelte di gestione.
Si tratta di un’estensione a tutto campo di un principio già contemplato dalla vigente normativa tributaria (art.9 DPR n.917/86) che prevede l’applicazione del valore normale, ai fini delle imposte dirette, ma soltanto in presenza di particolari situazioni quali a) l’assenza di corrispettivi ( esempio l’assegnazione di beni a soci o la destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ) o b) la necessità di contrastare fenomeni patologici di evasione o elusione (esempio cessione del contratto di leasing, rapporti transfrontalieri nell’ambito dei gruppi, con l’applicazione del transfer pricing ).
L’orientamento sopra riferito legittima l’attribuzione della rilevanza indiziaria al “comportamento antieconomico dell’imprenditore, comportamento da questi in alcun modo non spiegato o non giustificato nella maggior parte dei casi, in presenza di altri elementi presuntivi a sostegno della pretesa tributaria”. Così la circolare, la n.1/2008, del Comando Generale della Guardia di Finanza avente ad oggetto “Manuale delle verifiche fiscali”.
La stessa circolare raccomanda che “ occorre il supporto di altre circostanze e argomentazioni probatorie” e che il recupero di un costo per non congruità potrà avvenire “sia sulla base di precisi riscontri documentali e fattuali, sia sulla base di un confronto dell’entità della spesa con parametri oggettivi di riferimento quali,ad esempio, la natura del bene o servizio, l’entità complessiva dei costi e dei ricavi dell’impresa, l’attività da questa in concreto svolta. In questi ultimi casi, la motivazione del disconoscimento della quota del costo ritenuta non congrua dovrà essere particolarmente argomentata, facendo adeguatamente rilevare la grave, precisa e concordante valenza sintomatica della parziale destinazione extraimprenditoriale, risultante dai parametri di riferimento in concreto utilizzati”.
Altrettanto dicasi qualora l’Ufficio accerti maggiori ricavi o maggiori proventi facendo riferimento al criterio di non congruità e del prezzo di mercato. Si pensi a titolo di esempio a un costruttore edile che nella compravendita di appartamenti per civili abitazioni fatturi a €. 1.000,00 a mq. mentre sul mercato nello stesso periodo e nella stesa zona si vende a €. 2.000,00 a mq. o a un professionista che fatturi al di sotto della tariffa professionale.
E’ evidente che ogniqualvolta il Fisco contesti la non congruità delle spese ( per eccessività ) o dei ricavi dichiarati (per carenza ) e quindi effettui delle valutazioni circa la economicità o l’antieconomicità delle operazioni commerciali dovrà farlo attraverso il ricorso alle presunzioni (a meno che non ritenga, per avvalorarle ancor più, di dover attivare la particolare attività istruttoria delle indagini finanziarie o bancarie previste dall’art. 32, primo comma, numero 7, del D.P.R. n. 600/73).
Presunzioni che non potranno,però, che essere presunzioni semplici, dotate di gravità, precisione, concordanza.
Spetterà all’Amministrazione Finanziaria l’onere probatorio e la stessa dovrà dimostrare al giudice, in presenza di elementi probatori qualificanti, perché la spesa o il ricavo o il provento deve essere ritenuto non congruo rispetto all’attività esercitata e perché si palesa antieconomico.
Questo orientamento della Cassazione viene incontro all’esigenza comunemente avvertita dall’opinione pubblica di contrastare fenomeni di palese evasione fiscale (è noto il fenomeno di alcuni imprenditori edili che pretendono che una parte cospicua del prezzo pattuito sia pagato “a nero”, cioè non fatturato e in contanti ) che l’Amministrazione Finanziaria non riesce a contrastare con gli strumenti a disposizione. La difficoltà nasce nel momento in cui essa non riesce a dimostrare in modo certo e oggettivo la non congruità di costi e ricavi se non ricorrendo a una prova solo logica e che si basa su principi di ragionevolezza, di economicità , di normalità.
In materia di onere della prova (art.2697 c.c.) vale la pena qui rammentare che costituisce principio consolidato della giurisprudenza della S.C.di Cassazione che “ se è vero che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta all’Amministrazione Finanziaria – tra i generali principi che governano l’onere della prova – dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata, fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso rivelatrici dell’esistenza di un maggior imponibile, è altrettanto vero -però- che il contribuente il quale intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti, oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi, deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano”Cass.civ., sez. I^, 11/10/1997, n. 9894 ).
E’ utile, al riguardo, evidenziare che il principio in base al quale colui che ha posto in essere un comportamento antieconomico ha l’onere di fornire una giustificazione razionale della propria scelta, trova conferma, nel campo delle imposte dirette, nella disposizione di legge secondo cui”sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, dirette ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario”( articolo 37-bis del Dpr n.600/73).
Pertanto, è onere del contribuente motivare le scelte che non sono i linea con i criteri di gestione economica della propria attività, ovvero quelle scelte che appaiono incomprensibili in base ai normali criteri di valutazione.



Avv. Geremia Rendine
(già Dirigente Capo Area Controllo dell’Agenzia delle Entrate ,
Ufficio di Bari 1 e Bari 2, attualmente in pensione
)




  1. Nota :
    Cass. sentenza n.14428 dep. 08/07/2005, n.10802/2002, n.7680/2002, n.7484/2002, n.6337/2002, n.11645/2001,n.1821/2001.