I diritti umani nell’epoca della globalizzazione
di Giuseppe Parente

«I diritti dell’uomo sono la religione civile del nostro tempo», così esordiva N. Bobbio in occasione dell’anno Giubilare del 2000 e del suo 90° compleanno, sottolineando l’interesse crescente per la questione, ma anche le difficoltà ancora esistenti per la loro effettiva protezione sia all’interno degli Stati che sul piano internazionale.
A ben vedere, a 60 anni dalla proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la realtà ci mostra una verità sconcertante e paradossale: la maggior parte delle violazioni dei diritti umani proviene proprio dagli Stati cui appartengono i cittadini titolari dei diritti violati.
Come più volte denunciato dai rapporti delle Nazioni Unite, sono circa 77 gli Stati in cui si ricorre alla prigione per soli motivi di opinione e 81 quelli in cui la tortura dei detenuti continua ad essere ammessa. In molti paesi continuano oggi applicazioni indiscriminate della pena di morte, abusi e violenze su detenuti, uso politico della detenzione. Sono 142 i paesi in cui si riscontrano in generale violazioni di diritti umani, mentre torture e maltrattamenti si segnalano in 125 Stati.
Il rapporto annuale del 2008 di Amnesty International ci rivela fatti e dati impressionanti.
In 23 paesi sono tutt’oggi in vigore legislazioni discriminatorie nei confronti delle donne, in 15 nei confronti dei migranti e in 14 delle minoranze.
In Egitto, in soli 6 mesi, nel 2007, sono state assassinate circa 250 donne dal marito o da altro familiare convivente, senza che sia stato attivato alcun procedimento penale a loro carico.
Sempre nel 2007 sono stati riscontrati procedimenti giudiziari iniqui in 54 paesi, con ingiuste detenzioni che vanno dalle 600 persone detenute a Bagram (base aerea statunitense), alle oltre 25.000 arrestate dalla Forza multinazionale presente in Iraq, per finire alle 500.000 imprigionate dal governo cinese. Tutte senza processo, né accusa alcuna.
Per quanto riguarda la pena di morte, ciò che fino ad un decennio fa era solo un sogno oggi finalmente è realtà. Benché la pena capitale sia ancora in vigore in 59 Stati, molti non l’adoperano più.
Infatti nel 2008 soltanto 25 paesi hanno giustiziato esseri umani.
I dati di Amnesty International relativi al 2008 ci rivelano che sono state condannate a morte 2.390 persone, di cui 346 in Iran e 1.718 in Cina (pari al 72% nel mondo). Ma questi dati sono purtroppo destinati ad aumentare vertiginosamente, considerato che le sentenze capitali comminate nell’anno 2008 sono 8.864 (nel 2007 erano 3.347) e tutt’oggi sono in fase di esecuzione.
Tale situazione, alla fine del 2007, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha generato complessivamente in Europa un esodo di quasi 1,6 milioni di rifugiati. Di questi, circa 1,4 milioni si trovavano nei 27 paesi dell’Unione Europea e costituivano meno di un decimo dell’intera popolazione immigrata, stimata in circa 20 milioni di persone. La distribuzione dei rifugiati nei paesi europei non è omogenea: si passa da paesi come Norvegia, Germania e Svezia, che ospitano oltre 7 rifugiati ogni 1.000 abitanti, ad altri, come alcuni paesi dell’Europa meridionale – Grecia, Portogallo, Spagna – dove si conta meno di 1 rifugiato ogni 1.000 residenti.
In Italia i rifugiati sono circa 38.000, pari a 0,6 ogni 1.000 abitanti, ovvero un rifugiato ogni 1.500 residenti circa.
Dopo un sensibile aumento proseguito fino ai primi anni del nuovo millennio, dovuto principalmente ai conflitti verificatisi lo scorso decennio nella regione balcanica, il numero di domande d’asilo inoltrate nei paesi europei è in progressiva diminuzione, anche a seguito dell’introduzione di politiche immigratorie più restrittive.
Questi dati significativi sottolineano quanto la globalizzazione dei mercati e delle merci non si sia purtroppo tradotta anche nella globalizzazione dei diritti civili e politici.
Tale importante fenomeno economico del nostro tempo, infatti, pur portando con sé incredibili opportunità, se non adeguatamente governato, accentua la polarizzazione tra ricchezza e povertà, poiché apre una nuova divisione nel mondo tra chi può accedere ai suoi processi, godendo dei suoi innegabili benefici, e chi invece ne è escluso.
La questione dei diritti si pone in modo drammatico nel rapporto tra gli esclusi e gli inclusi in questi processi e si sostanzia nella possibilità di accedervi, perché la stessa globalizzazione possa riuscire a mantenere ciò che promette.
Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del PIL mondiale di dieci volte, da 3 mila miliardi ad oltre 30 mila miliardi di dollari, assistiamo, anche per effetto della parzialità della globalizzazione, ad un preoccupante allargamento della forbice economica già esistente tra paesi industrializzati e i paesi in via di sviluppo.
Questi dati confermano una tendenza di lungo periodo nella distribuzione mondiale del reddito, se si calcola che la distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992.
Ancora oggi, nella cosiddetta società del benessere, molti paesi meno sviluppati, a causa della povertà, si vedono negare alcuni importanti diritti, come quello all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute, fino al fondamentale diritto alla vita.
La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la principale causa di morte nel mondo. Le donne e i giovani sono le vittime più vulnerabili della povertà.
Si calcola che oltre 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo, vivano sotto la soglia di povertà e che ogni anno muoiano in tutto il mondo circa 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa della malnutrizione o di malattie legate alla povertà.
La povertà costringe sino a 160 milioni di bambini al lavoro minorile e circa 2 milioni a prostituirsi.
Le dimensioni attuali della schiavitù superano di gran lunga quelle del passato.
Secondo alcuni studiosi che hanno esaminato la tratta degli esseri umani tra l’Africa e le Americhe, in ben quattro secoli, la cifra relativa a questo traffico non ha superato i 12 milioni.
Negli ultimi 30 anni, invece, nella sola Asia la compravendita di donne e bambini ridotti in schiavitù sessuale riguarda circa 30 milioni di persone. Si devono aggiungere però anche le cifre che riguardano l’Africa, alcuni paesi balcanici e dell’Europa centrale e dell’Est. Una gran parte di questo disumano business, alimentato anche dagli uomini dei nostri paesi “civili”, è nelle mani della grande criminalità organizzata.
Lo squilibrio tra i paesi meno sviluppati ed i nostri paesi si traduce, oltre che in disperazione umana, in massicci movimenti migratori che provocano nei paesi ricchi ondate razziste difficilmente controllabili.
E’ necessario che i paesi più ricchi rafforzino il loro impegno a livello nazionale e internazionale per garantire a tutti la libertà dal bisogno, alcune condizioni minime di vita ed il diritto allo sviluppo.
Per raggiungere questi obiettivi occorre estendere i benefici della globalizzazione a coloro che ne sono ancora esclusi ponendo nel contempo solidi diritti per tutti.
Occorre fare in modo che al processo di mondializzazione dell’economia, del commercio e della comunicazione corrisponda un processo analogo per i diritti fondamentali dell’uomo, nella consapevolezza che non può esservi sviluppo senza giustizia sociale.
Anche l’Europa, benché non affetta dalle drammatiche questioni che affliggono i continenti più popolosi del mondo, non resta comunque immune da altre non meno importanti violazioni di diritti fondamentali.
Lo scorso 29/01/2009 il Presidente della Corte Europea dei diritti dell’uomo Jean-Paul-Costa, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, ha sottolineato un dato allarmante: nella civilissima e democratica Europa sono pendenti oltre 97.000 cause per violazione di diritti fondamentali, tra i quali: il diritto alla vita, alla libertà di espressione, di associazione e di religione, a non essere soggetti alla tortura o a trattamenti degradanti e non ultimo ad avere un processo equo.
Il 57% dei ricorsi che arrivano a Strasburgo provengono da soli quattro paesi: Russia, Turchia, Romania ed Ucraina. Essi riguardano soprattutto la correttezza dei processi e dispute sulla proprietà. Ma appena dopo questi paesi, la nazione che dà più lavoro alla Corte è senz’altro l’Italia, con ben 4.200 casi, di cui 2.600 riguardanti l’eccessiva lentezza dei processi.
In questo, l’Italia, detiene il triste primato da oltre dieci anni a questa parte essendo il paese più condannato per la lentezza dei processi.
Detto ciò, appare chiaro che la questione della tutela dei diritti fondamentali, ove più ove meno, non risparmia nessun continente e pone a carico di tutti gli Stati, il dovere di contribuire alla definizione di un terreno ideale sul quale costruire delle risposte certe e concrete.
Questo terreno potrebbe essere costituito dal cosmopolitismo, che rifiuta l’altra impostazione che si esprime invece in termini di comunitarismo e che è fondata sull’egoismo, sull’esclusione, sulla chiusura e sul rifiuto del diverso da sé.
Le democrazie cosmopolite e pluraliste si fondano sul riconoscimento di un nucleo di valori costitutivi che sono il primato della persona umana, la solidarietà, il rispetto delle differenze, la libertà dal bisogno unita indissolubilmente alla libertà di agire.
Questi valori in quanto resi “vivi” e concreti dal buon funzionamento delle istituzioni politiche definiscono in termini positivi la democrazia pluralista, come strumento che non ostacola ma agevola l’allargamento degli spazi di libertà e garantisce l’effettività dei diritti dei più deboli.
Una democrazia cosmopolita e pluralista non si fonda sulla mera tolleranza, ma su una coesistenza fondata sul limite invalicabile del rispetto della persona umana e dei suoi diritti.
Anche a fronte di questi dati si ritiene ormai matura una riflessione sull’opportunità che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo possa essere nel futuro integrata da un distinto documento, una Carta dei doveri degli Stati.
Un documento di seconda generazione rispetto alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che la integri e che indichi i doveri universali degli Stati: a non uccidere i propri condannati, a non torturare i propri detenuti, a rispettare i diritti fondamentali di coloro che si trovano sul proprio territorio, nonché ad investire una quota ragionevole delle loro risorse contro la povertà e contro la fame, per l’istruzione e per la liberazione dal bisogno.
Oggi, con la fine del bipolarismo internazionale ed il declino della vecchia sovranità nazionale, si può finalmente porre la questione degli strumenti e delle modalità per vincolare gli Stati all’osservanza di determinate regole.
Con rinnovata efficacia, il primato dei diritti umani rende assoggettabili a responsabilità gli Stati e le persone che in ragione dell’esercizio di pubblici poteri si rendono responsabili delle violazioni di tali diritti.
E’ dunque ormai possibile fare in modo che ai diritti universali degli uomini corrispondano finalmente anche i doveri universali degli Stati.
Lavorare per questa Carta può costituire forse uno degli impegni più nobili di ogni paese civile, libero e democratico, perché come detto da K. R. Popper “il prezzo della libertà è nell’eterna vigilanza”.


Dr. Giuseppe Parente