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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI TRANI
SEZIONE DISTACCATA DI RUVO DI PUGLIA


in funzione di Giudice Unico, in persona della Dott.ssa Paola Cesaroni, ha emesso la seguente


SENTENZA N. 120/2008


definitiva nella causa civile iscritta al N. dell’anno 2002 del Registro Generale Affari Contenziosi


TRA


TIZIA E CAIO rappresentati e difesi dall’avv. XXX elettivamente domiciliati presso l’avv. ATTORI


E


MEVIO rappresentato e difeso dall’avv. YYY presso lo studio dell’avv.elettivamente domiciliato CONVENUTO


NONCHÉ’


S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti ZZZ presso lo studio di quest’ultimo elettivamente domiciliate TERZO CHIAMATO


***************


All’udienza del 18/12/2 007, sulle conclusioni dei procuratori delle parti riportate a verbale, la causa era riservata per la decisione, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e memorie di replica.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 12.7.02, evocavano in giudizio il dr. Mevio chiedendone la Condanna al risarcimento dei danni subiti (quantificati in € 360.000) per non aver diagnosticato la malformazione da cui era affetto il proprio figlio CHICCO e non aver quindi consentito l’interruzione della gravidanza. Esponevano: che la TIZIA era stata seguita durante la gravidanza dal medico convenuto, il quale aveva effettuato sei visite e cinque ecografie, nel corso delle quali non era mai stata diagnosticata la malformazione del piccolo CHICCO affetto da amelìa dell’arto superiore destro, scoperta al momento della nascita; che, in particolare, durante l’ecografia cd. morfologica, il medico aveva annotato che gli arti erano regolari, mentre il piccolo risultava privo della mano e di parte dell’avambraccio destro; che tale malformazione avrebbe legittimato il cd. aborto terapeutico dopo il novantesimo giorno di gestazione e di aver quindi subito danni da tale evento, ivi compreso il danno psichico essendosi sottoposti a cure psichiatriche. Chiedevano, quindi, il risarcimento del danno – nelle diverse componenti del danno biologico, patrimoniale ed alla vita di relazione – equitativamente quantificato in € 360.000,00.
Si costituiva il convenuto, contestando la fondatezza della domanda, sia per essere stato diligente nello svolgimento della propria professione che per l’assenza dei requisiti per invocare il cd. aborto terapeutico, e lamentando l’esosità della richiesta risarcitoria.
Chiedeva di chiamare in causa la propria compagnia assicurativa.
Autorizzata la chiamata in causa, si costituiva la s.p.a., contestando la fondatezza della domanda e insistendo per la nomina di un consulente tecnico.
Concessi i termini per l’articolazione delle prove orali, le richieste istruttorie erano in parte ammesse con ordinanze del 30.7.2004 e del 5.4.2005; indi la causa era istruita oralmente e veniva disposta una Ctu medica.
Dopo aver richiesto chiarimenti al ctu nominato, alla luce delle osservazioni mosse dal ctp, la causa era rimessa ad udienza di precisazione delle conclusioni.
All’udienza del 18/12/2007, le parti precisavano le conclusioni e la causa era riservata per la decisione, all’esito della scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e repliche.


MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda è in parte fondata e deve essere accolta per quanto di ragione.
Preliminarmente, deve rilevarsi che correttamente parte attrice ha lamentato un inadempimento contrattuale del convenuto, per aver svolto con negligenza la propria professione, come da orientamento ormai consolidato della giurisprudenza [1] trattandosi di un’ipotesi di responsabilità professionale assoggettata alla disciplina dettata dall’art. 1218 cc.
Ne consegue l’onere per il danneggiato di dimostrare l’esistenza del danno ed il nesso di causalità tra danno e inadempimento, operando invece una presunzione di colpevolezza dell’inadempimento a carico della parte convenuta.
Ciò premesso, passando al caso specifico, l’elaborazione giurisprudenziale ha elaborato la figura del danno da nascita indesiderata, che ricorre nei casi in cui il medico non abbia diagnosticato durante la gravidanza una malformazione del feto che avrebbe legittimato l’interruzione della gravidanza stessa.
Occorre in primis precisare che tale figura di danno, strettamente correlata alla disciplina normativa dell’aborto ex L. 194 del 1978, mira unicamente a tutelare un diritto della madre, riconosciuto anche al padre da una pronuncia della Suprema Corte del 2005 [2], e non un diritto del feto a non nascere ovvero a nascere sano. Infatti, la madre è l’unico soggetto legittimato ad esercitare il diritto ad interrompere la gravidanza, diritto riconosciuto nei soli casi in cui la gravidanza possa comportare un pericolo di salute per la gestante, serio -entro i primi 90 giorni- o grave -dopo i 90 giorni; le eventuali malformazioni del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già di per sé considerate [3]. Ciò premesso, occorre quindi valutare se nel caso di specie si sia in presenza di una delle predette situazioni. La giurisprudenza prevalente più recente, al fine di semplificare quella che rischierebbe altrimenti di essere una probatio diabolica, investendo profili etici non facilmente preventivabili e conoscibili, afferma che “l’omessa rilevazione da parte del medico specialistico della presenza di gravi malformazioni al feto e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante deve, ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio da parte della donna della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro preferisca non portare a termine la gravidanza” [4].
Applicando tali principi, nella specie, deve in primis affermarsi la negligenza e l’imperizia tenuta dal convenuto nell’assistere la paziente, non avendo mai rilevato -né nel corso dell’ecografia morfologica né in quelle successive-la presenza di una malformazione -oltre che grave anche evidente, trattandosi dell’assenza di una mano e di parte dell’avambraccio destro.
Infatti, la regolare formazione degli arti costituisce – secondo le linee guida operanti nell’anno di gestazione della TIZIA un accertamento da compiere durante l’ecografia del quinto mese, nel corso della quale, nella specie, il convenuto ha riportato l’indicazione degli arti come “regolari”.
Né può condividersi quanto sostenuto dai convenuti in ordine al posizionamento errato del feto, che non avrebbe consentito l’individuazione e la misurazione degli arti. In tal caso, infatti, un medico accurato avrebbe riportato tale indicazione sul referto e consigliato di ripetere dopo qualche giorno l’esame, in modo da completare gli accertamenti ed avere un quadro completo dello stato di salute del feto.
Nella specie, ciò non è avvenuto, avendo il medico al contrario annotato l’indicazione “regolare”, così inducendo a credere di aver regolarmente visto e misurato gli arti e che tutto appariva nella norma.
Il medico convenuto, peraltro, non ha ripetuto dopo qualche giorno l’ecografia, ma solo alla visita successiva, al settimo mese di gestazione, allorquando era ampiamente decorso il termine per procedere all’interruzione volontaria della gravidanza, senza evidenziare nemmeno in quella sede la malformazione esistente.
Tali considerazioni portano a ritenere gravemente negligente il comportamento tenuto dal MEVIO, al di là dei margini di errore dell’esame ecografico, ricorrendo nella specie un evidente errore umano e non un mero limite della scienza diagnostica.
Parimenti, non ha pregio quanto evidenziato in ordine alla rarità di tali malformazioni: l’esame ecografico, e l’ecografia morfologica in particolare, non è una valutazione di dati statistici, come, avviene in altri esami chiamati ad esempio, a verificare le probabilità di incidenza di malattie genetiche quali la sindrome di Down, bensì un esame diretto a verificare la presenza e la corretta misurazione degli organi e delle parti del corpo principali, indipendentemente dalla valutazione di dati statistici che possano rendere maggiormente probabile o rara l’ipotesi di una malformazione.
Ciò chiarito in ordine al comportamento negligente del convenuto, deve ritenersi che la malformazione da cui è risultato affetto il piccolo CHICCO sia grave e tale da consentire il ricorso all’interruzione della gravidanza dopo i 90 giorni, come accertato dal ctu, con ragionamenti logici e corretti, oltre che congruamente motivati e quindi condivisibili.
Non può ritenersi non grave una malformazione che, pur non incidendo direttamente sulla sopravvivenza del feto, sia tuttavia in grado di limitarne enormemente le possibilità, oltre a rendere molto più difficile l’educazione e l’inserimento del bimbo nel contesto sociale. I progressi della scienza medica in questo campo, ossia la possibilità dell’applicazione di protesi, se consentono di rendere accessibili numerose attività che sarebbero altrimenti precluse, non elidono tuttavìa dì per sé il carattere grave e potenzialmente invalidante della predetta malformazione, incìdente sìa sulla funzionalità dell’arto che sull’aspetto estetico dell’individuo.
In base al criterio di’regolarità causale già riportato, la presenza di tale grave malformazione porta a ritenere che la madre avrebbe esercitato l’interruzione della gravidanza se tempestivamente informata.
Nella specie, inoltre, tale conclusione è avvalorata dalle conseguenze psichiche riportate dall’attrice a seguito del parto, confermate dalla propria psicanalista in sede di testimonianza, dalla documentazione prodotta nonché dalla ctu espletata, che ha riconosciuto un danno biologico del 6%.
Risulta così integrata, infatti, l’ipotesi contemplata dalla L.194/78 al fine di consentire l’interruzione della gravidanza, ossia quella del grave pericolo per la salute psichica della gestante (pericolo e non certezza, con la conseguenza che lo stato depressivo successivo al parto dimostra l’esistenza del pericolo, anche se è stato nella realtà evitato un esito infausto con il ricorso a cure specialistiche). Passando al quantum, gli attori hanno invocato il risarcimento del danno biologico, patrimoniale ed alla vita di relazione.
Deve precisarsi che, secondo l’orientamento manifestato dalle Sezioni Unite nel 2006, confermato nel 2007 [5], diretto ad inquadrare giuridicamente e dogmaticamente le diverse figure di danno emerse nell’elaborazione interpretativa giurisprudenziale, “il danno non patrimoniale include in sé tanto il danno biologico quanto il danno morale, quanto, ancora, il danno esistenziale. Quest’ultimo, a differenza del danno morale -(che ha natura emotiva e interiore) e del danno biologico (subordinato alla lesione dell’integrità psico-fisica del danneggiato medicalmente accertabile) consiste nel pregiudizio, oggettivamente accertabile, che l’illecito abbia cagionato sul fare a-reddituale del soggetto, alterandone abitudini di vita e assetti relazionali che a lui erano propri, sconvolgendone la vita quotidiana e privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La natura risarcitorio/riparatoria (e giammai sanzionatoria, non conoscendo il nostro ordinamento l’istituto della sanzione civile o pena privata) del danno esistenziale postula che, dello stesso, venga fornita la prova dall’istante, con riferimento non soltanto al fatto costituivo dell’illecito, ma anche alle relative conseguenze (relativamente cioè al “quomodo” la vicenda abbia inciso negativamente nella sfera di vita del soggetto), prova il cui onere può, peraltro, ritenersi assolto attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione della parte, dal deposito
di documentazione alla prova testimoniale a quella per presunzioni” [6].
Ciò premesso, può riconoscersi sulla base degli accertamenti tecnici compiuti e non specificamente contestati dalle parti- il danno biologico -nell’accertata componente psichica- subito dall’attrice a seguito del parto nella misura del 6%, all’età di 33 anni, quantificato in € 6300,00 secondo le tabelle elaborate con decreto ministeriale del giugno 2007, in ottemperanza a quanto stabilito dall’art. 139 del d.lgs. 209/05, estensivamente applicabile a tutte le tipologie di lesioni personali onde garantire un criterio uniforme e obiettivo di risarcimento. Trattasi di una voce di danno autonomamente considerata e tutelata, in ragione della rilevanza costituzionale del bene, risarcibile in via equitativa indipendentemente dal danno patrimoniale, come da costante insegnamento della Suprema Corte.
Non è stata dimostrata con la necessaria documentazione medica né con l’accertamento tecnico espletato l’esistenza di un’invalidità temporanea.
È rimasto altresì indimostrato ed è stato escluso dall’accertamento tecnico compiuto il danno biologico lamentato dal1’attore.
Non è stato, infine, documentato un danno patrimoniale, legato alle spese sostenute ed alla riduzione dell’attività lavorativa, che avrebbe dovuto formare oggetto di specifica dimostrazione, nella specie non fornita, ed al quale non è applicabile la valutazione equitativa invocata, trattandosi di una voce di danno suscettibile di specifica quantificazione e dimostrazione ad opera della parte danneggiata.
Né a tal fine può valere la specificazione delle voci di danno operata solo in comparsa conclusionale, ossia tardivamente, poiché trattasi di voci che avrebbero potuto e dovuto formare oggetto di prova, ad esempio in ordine all’entità delle spese sostenute e quindi presumibilmente sostenibili in futuro.
Analogo discorso va fatto per il danno morale, richiesto per la prima volta in comparsa conclusionale. Può, invece, riconoscersi il danno alla vita di relazione, presuntivamente ricavabile dal peggioramento delle condizioni di vita sociale e matrimoniale derivato agli attori dall’evento oggetto di causa.
Così la giurisprudenza descrive tale figura di danno: “Il danno alla vita di relazione, consistente nella impossibilità o difficoltà per il danneggiato di reintegrarsi nei rapporti sociali e di mantenerli ad un livello normale, è risarcibile quale danno non patrimoniale all’interno della categoria non del danno morale, ma del danno biologico, come autonoma componente del danno alla salute, da valutarsi distintamente nella determinazione complessiva della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento. Ne, consegue che, ai fini del riconoscimento del danno alla vita di relazione e della sua risarcibilità, è necessario che il richiedente abbia quanto meno allegato l’esistenza di tale autonoma categoria di danno nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado” [7].
È emerso dalle testimonianze raccolte che la mamma nei primi mesi rifiutava il contatto con i propri figli (anche i primi due), non allattava il piccolo CHICCO piangeva e si disinteressava di quanto accadeva intorno a sé, interrompendo anche il lavoro ed i contatti sociali. Tali circostanze, oltre ad integrare il danno psichico già riconosciuto, consentono di ritenere dimostrata altresì l’esistenza di un peggioramento delle proprie condizioni di vita e del rapporto con i familiari.
Ne consegue, inoltre, presuntivamente, un danno in capo al padre e marito CAIO, per essersi trovato a fronteggiare, pur senza riportare un danno biologico in proprio, una situazione di difficoltà legata alla nascita del piccolo affetto dalla malformazione descritta ed alla depressione vissuta dalla moglie contestualmente, con l’ulteriore necessità di essere vicino agli altri due figli in un momento così delicato.
In conclusione, dovendo procedersi necessariamente ad una valutazione equitativa delle voci di danno riconosciute, in considerazione del loro carattere non patrimoniale e quindi di diffìcile monetizzazione e dimostrazione, può riconoscersi agli attori la somma di € 176.300,00 così suddivisa:
€ 6300 a titolo .di danno biologico all’attrice, € 90.000 a titolo di danno alla vita di relazione;
€ 80.000 a titolo di danno alla vita di relazione all’ attore.
Tale somma viene quantificata tenendo conto dei parametri già evidenziati, avendo come riferimento sia le liquidazioni operate dalla giurisprudenza citata in relazione a fattispecie più gravi di quella oggetto di esame -poiché comportanti un’invalidità pressocchè totale del bambino-, sia le quantificazioni operate dal Tribunale di Milano in relazione all’ipotesi più grave del danno morale o esistenziale per morte del figlio, oscillante al momento tra € 100.000 ed € 200.000, riconoscendo una maggior somma alla madre, in considerazione del particolare legame che si instaura durante la gestazione tra madre e figlio e delle maggiori sofferenze vissute dalla TIZIA.
Trattasi di somme già rivalutate all’attualità, essendo state ricavate dalle tabelle milanesi e dal DM del 2007, su cui devono computarsi gli interessi legali.
Trattandosi di mora ex re, dovrebbero decorrere dalla data dell’illecito, ma, onde evitare una duplicazione con la rivalutazione, secondo il secondo il noto insegnamento della giurisprudenza di legittimità,- possono essere riconosciuti a partire.dal 2005, -data, media tra l’illecito e la sentenza esecutiva.
Il convenuto deve essere tenuto indenne dalla compagnia assicurativa chiamata in causa in qualità di garante per la responsabilità professionale.
Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.


P.Q.M.


Il Tribunale di Trani, sezione distaccata di Ruvo di Puglia, in funzione di Giudice Unico, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta, con atto di citazione notificato il 12.7.02, da TIZIA e CAIO nei confronti del dr. MEVIO e da quest’ultimo, in garanzia, nei confronti della s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., così provvede:




  1. Accoglie la domanda e, per l’effetto, condanna il convenuto al pagamento:
    in favore dell’attrice della somma di € 96.300,00 oltre interessi legali dal 2005;
    in favore dell’attore della somma di € 80.000 oltre interessi legali dal 2005;


  2. Condanna parte convenuta al rimborso in favore degli attori delle spese processuali del presente giudizio, che liquida in complessive € 12.241,76 di cui € 1541, 76 per spese (comprensive del costo della ctu, posta a carico della parte soccombente ), € 3700 per diritti ed € 7000 per onorario, oltre rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge;


  3. condanna il terzo chiamato a tenere indenne il convenuto da ogni conseguenza pregiudizievole a lui derivante dalla presente causa;


  4. condanna il terzo chiamato al rimborso deTle spese processuali sostenute dal convenuto nel presente giudizio, che liquida in complessive € 7530,00 di cui € 30 per spese, € 2500 per diritti ed € 5000 per onorario, oltre rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge.

Ruvo di Puglia, 28/05/2008


IL GIUDICE
Dr.ssa Paola Cesaroni


DEP. IN CANCELLERIA IL 4-6-08


_______________________________
Note



  1. Cass., 8 maggio 2008, n. 6386.

  2. Cass., 20 ottobre 2008 n. 20320.

  3. Cass., 21 giugno 2004 n. 11488.

  4. Cass. n. 11488 citata; Cass., 28 luglio 2004, n. 14488.

  5. Cass., Sez. III, 25 maggio 2005 n. 12247.

  6. Cassazione Civile, sez un. 24 maggio 2006, n. 6572.

  7. Cassazione civile, Sez. III, 27 giugno 2007 n. 14852.






Commento di Nicola Ulisse


SULLA RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE DEL MEDICO GINECOLOGO.


Con sentenza n° 120/08, depositata il 4/6/08, il Tribunale di Trani – sezione distaccata di Ruvo di Puglia, in persona del G.U. dott.ssa Paola Cesaroni, affronta il tema della responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto.
La citata pronuncia è degna di menzione per il sapiente garbo che traspare in ordine alle determinazioni sulle conseguenze afferenti la sfera esistenziale dei genitori (dal punto di vista psichico, sociale, matrimoniale, familiare) e sul diritto della madre ad una procreazione cosciente e responsabile.
Da un punto di vista più strettamente tecnico, la decisione, ricca di richiami giurisprudenziali, si distingue per l’approfondito e chiaro corpus motivazionale, in linea con orientamenti ormai consolidati della Suprema Corte.
Veniamo al caso. Una giovane donna è in attesa del terzo figlio. Si rivolge alle cure di un ginecologo per le visite e gli esami di routine. Il medico la sottopone a cinque ecografie di cui una c.d. morfologica e non evidenzia alcuna anomalia del nascituro. Tant’è che sul referto riporta l’indicazione degli arti come regolari. Purtroppo, al momento del parto il piccolo manifesta l’amelia dell’arto superiore destro, cioè il mancato sviluppo dell’avambraccio. La madre cade in un profondo stato depressivo che, specie nei primi mesi di vita del bimbo, la aliena completamente; ella non è in grado di accudire il piccolo, rifiuta persino i contatti con i primi due figli, interrompe il lavoro e trascura qualsiasi contatto sociale e familiare.
Nella vicenda, com’è agevolmente presumibile, l’indagine peritale del c.t.u. ha assunto un ruolo determinante nell’accertamento del nesso causale.
Il Giudice ha ravvisato una grave negligenza nel comportamento del medico. Egli, infatti, è incorso in un evidente errore, non giustificato da limiti della scienza o degli strumenti utilizzati per gli esami ecografici, ma per mero difetto di diligenza e perizia.
Conseguentemente il Tribunale ha riconosciuto che l’obbligazione del medico ginecologo è di natura contrattuale, assoggettata alla disciplina dell’art. 1218 Cod. Civ. (tra le sentenze indicate in motivazione cfr. pure Cass. 6735/02).
In particolare ha affermato che l’omessa rilevazione da parte del medico specialistico della presenza di gravi malformazioni al feto e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante deve ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio da parte della donna della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza (v. Cass. 11488/04; Cass. 14488/04).
Ma nel caso di specie, secondo quanto rilevato dal Tribunale, occorre soprattutto considerare che l’ecografia morfologica non è una valutazione di dati statistici, come avviene in altri esami chiamati ad esempio a verificare la probabilità di incidenza di malattie genetiche (quali la sindrome di Down), bensì un esame diretto a verificare la presenza e la corretta misurazione degli organi e delle parti del corpo principali, indipendentemente dalla valutazione di dati statistici che possano rendere maggiormente probabile o rara l’ipotesi di una malformazione.
Gli attori, genitori del piccolo, hanno ottenuto il risarcimento per il danno biologico e alla vita di relazione patiti a seguito dell’inattesa realtà con cui quotidianamente si confrontano.


Avv. Nicola Ulisse