Corte di Cassazione – Sezione Terza – Sentenza del 16 dicembre 2008, n. 46203 


Con sentenza del 25.11.2005 il Tribunale di Roma dichiarava M. A. colpevole del reato di cui all’art. 35 comma 2 L. 675/96, perché, al fine di recare danno a M. L. diffondeva i suoi dati personali, consistenti nel nome, cognome e numero dell’utenza cellulare, aprendo una casella di posta elettronica con la seguente dicitura “omissis” (capo a) e del reato di cui all’art. 660 c.p. in relazione all’art. 48 c.p. perché, aprendo la casella di posta elettronica di cui al capo a), induceva in errore gli utenti di internet, che, lette le offerte contenute nella stessa, per petulanza o altro biasimevole motivo, contattavano la M. sull’utenza telefonica ivi indicata, recando disturbo o molestia alla stessa (capo c), unificati sotto il vincolo della continuazione, e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione; pena sospesa e non menzione; condannava inoltre il M. al risarcimento dei danni, in favore della costituita parte civile, liquidati in euro 10.000,00. Dichiarava infine non doversi procedere nei confronti del medesimo M. in ordine ai reati di cui agli artt. 594 e 595 c.p. ascritti ai capi b) e d) per difetto di querela.


Con sentenza del 2.5.2008 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava non doversi procedere nei confronti del M. in ordine al reato di cui al capo c) perché estinto per intervenuta prescrizione, rideterminando la pena per il residuo reato di cui al capo a) in mesi sei di reclusione e riducendo ad euro 6.000,00 la somma liquidata a titolo di risarcimento danni; confermando nel resto. Disattendendo i rilievi dell’appellante, riteneva la Corte territoriale che il trattamento dei dati personali sensibili senza il consenso dell’interessato, da cui derivi nocumento per la persona offesa, già punito ai sensi dell’art. 35 L. 675/96, è ancora punibile a norma dell’art. 167 comma 2 D.L.vo 30.6.2003, in quanto tra le due fattispecie vi è un rapporto di continuità normativa, essendo identici sia l’elemento soggettivo (dolo specifico) sia l’elemento oggettivo (le condotte di comunicazione e diffusione dei dati sensibili sono ora ricomprese nella più ampia dizione di trattamento dei dati sensibili: il nocumento per la persona offesa, considerato come circostanza aggravante, è ora una condizione obiettiva di punibilità). Assumeva la Corte, poi, che il numero di cellulare rientrasse certamente tra i dati personali, essendo possibile risalire all’intestatario, e che, comunque il M. aveva diffuso anche il nome e l’iniziale del cognome (“omissis”) della persona offesa.


Propone ricorso per cassazione il M., a mezzo del difensore. Premette in fatto che il M. in data 27.1.2001, al fine di sbeffeggiare la M. che aveva mutato atteggiamento nei suoi confronti, aveva immesso in rete una sola pagina grafica, contenente il numero di cellulare della M. medesima, ma non i suoi dati personali (il numero di utenza cellulare era svincolato da riferimenti anagrafici, tale non potendosi ritenere il nome “omissis”) ed aveva aperto una casella di posta elettronica con indirizzo di fantasia (mai appartenuta alla M.). La pagina grafica, contenente il numero di cellulare della M., non poteva essere vista se non da chi fosse stato a conoscenza del preciso indirizzo internet. Tanto premesso, denuncia, con il primo motivo, la inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 2 commi 2 e 3 c.p., art. 13 D.L.vo 28.12.2001 n. 467, art. 35 L. 675/96, nonché vizio di motivazione.


Con i motivi di appello era stata richiesta l’applicazione della normativa più favorevole e cioè quella che (art. 13 D.L.vo 467/2001), modificando l’art. 35 L. 675/96, non prevede più come reato la comunicazione o diffusione occasionale e non sistematica dei dati personali, ma solo il trattamento non autorizzato di sistematica raccolta o diffusione dei dati medesimi. La Corte territoriale, ritenendo la continuità normativa tra la legge del 1996 e quella del 2003, ha omesso di considerare che tra le due leggi predette era intervenuto il D.L.vo 28.12.2001 n. 467 che non prevedeva più come reato la comunicazione o diffusione (ma solo il trattamento) dei dati. Senza alcuna motivazione la Corte non ha applicato tale normativa certamente più favorevole. Il D.l.vo 196/2003 è, invece, entrato in vigore dopo la commissione del fatto e quindi non può applicarsi al M.. Denuncia poi la violazione dell’art. 1 c.p., in quanto il solo numero di cellulare non rientra tra i dati personali secondo l’art. 4 lett. b) del Codice della privacy, essendo avulso dalla persona fisica e non essendo possibile, attraverso di esso risalire al titolare dell’utenza per un comune cittadino. Chiede pertanto l’annullamento della sentenza impugnata, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato o, in via subordinata, dichiarando la prescrizione del reato con revoca delle statuizioni civili.


Il ricorso è manifestamente infondato. Essendo stato il fatto commesso in data 29 gennaio 2001 non c’è dubbio alcuno che trovi applicazione l’art. 35 comma 2 L. 675/96 (vigente all’epoca). Tale norma prevedeva che “…chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, comunica o diffonde dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 21, 22, 23 e 24, ovvero del divieto di cui all’art. 28 comma 3, è punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni”. L’art. 35 in questione veniva modificato dall’art. 13 D.L.vo n. 467 del 28.11.2001 nei seguenti termini “…chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri o di recare ad altri un danno procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 21, 22, 23, 24 e 24 bis, ovvero del divieto di cui all’art. 28 comma 3, è punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni”. Secondo il ricorrente l’art. 13 cit., nel sostituire le parole “comunica o diffonde dati personali” con “procede al trattamento di dati personali” avrebbe reso non più rilevante penalmente la semplice diffusione o comunicazione. La Corte territoriale ha correttamente rilevato che vi è continuità normativa tra la fattispecie come delineata originariamente dall’art. 35 L. 31.12.1996 n. 675 e le successive modifiche (prima con l’art. 13 D.L.vo 467/2001 e poi con il D.Lvo n. 196/2003). Assume, infatti, che sono identici sia l’elemento soggettivo caratterizzato dal dolo specifico, sia gli elementi oggettivi, in quanto le condotte di comunicazione e diffusione dei dati sensibili sono ora ricomprese nella più ampia dizione di trattamento…”. Risulta evidente, pertanto, che la Corte territoriale raffronta, sotto il profilo che qui interessa, la condotta quale prevista dall’originario art. 35 della L. 675/96 (“comunica o diffonde dati personali”) e quella (“procede al trattamento di dati personali”) prevista sia dall’art. 13 D.L.vo 467/2001 che dall’art. 167 D.L.vo 196/2003. Non vi è, perciò, alcuna contraddittorietà nella motivazione della sentenza impugnata.


Come già affermato da questa Corte, l’art. 13 del D.L.vo 28.12.2001 n. 467 ha modificato l’art. 35 L. 675/96 “…in modo irrilevante per la concreta fattispecie, laddove ha sostituito alla condotta incriminata della “comunicazione” o “diffusione” una condotta più ampia di “trattamento dei dati personali”, che è comprensiva anche della comunicazione e della diffusione” (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 28680 del 26.3.2004 – Modena). La correttezza di tale interpretazione si ricava dallo stesso art. 1 della L. 675/96 (come aggiornato a seguito del D.L.vo 28.12.2001 n. 467) che definisce “trattamento” “qualunque operazione o complesso di operazioni, svolta con o senza l’ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati” (comma 2 lett. b). “Comunicazione” viene definita, poi, come “il dare conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati diversi dall’interessato in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione (comma 2 lett. g) e “diffusione” il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione (comma 2 lett. h). Palesemente, con il D.L.vo 28.12.2001 n. 467 si volle ampliare, e non certo restringere, la sfera di punibilità delle condotte, a tutela e rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all’identità personale (art. 1 comma 1 L. 675/96 e D.L.vo 467/2001); sicché nella più ampia dizione di “trattamento” è ricompresa, indiscutibilmente, anche la “comunicazione” e “diffusione”.


Manifestamente infondato è anche il secondo motivo, essendo indubitabile che il numero di cellulare rientri tra i dati personali. Lo stesso art. 1 comma 2 lett. c) definisce come dato personale “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale. L’indicazione “omissis”, accompagnata dal numero di cellulare, rendeva identificabile la M.. 3.3) Stante la manifesta infondatezza del ricorso non può essere dichiarata la prescrizione, maturata in data 29.7.2008 (e quindi successivamente alla emissione della sentenza impugnata). Questa Corte si è pronunciata più volte sul tema anche a sezioni unite (per ultimo sent. n. 23428/2005 – Bracale). Si è ritenuto così che le cause di inammissibilità originaria riconducibili all’art. 591 comma 1 lett. a), b) e c) c.p.p. privano il ricorso dei requisiti minimi perché l’atto possa avere natura impugnatoria. Si è in presenza, infatti, di “un simulacro di gravame che il provvedimento che ne dichiara l’inammissibilità, per sua natura dichiarativo, rimuove dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine”. Anche per le cause di inammissibilità previste dall’art. 606 comma 3 c.p.p. la sentenza a sez. un. 30.6.1999 – Piepoli, superando gli approdi interpretativi precedenti, ha considerato come causa di inammissibilità originaria del ricorso i motivi non consentiti e la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello.


Infine, con ulteriore pronuncia (sez. un. 22.11.2000 – De Luca) è stato enunciato il principio che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. La conclusione è nel senso “che la manifesta infondatezza resta definita sulla base di una cognizione sommaria con effetti di stretto diritto processuale, consistenti nel precludere l’accesso al rapporto di impugnazione. E ciò al fine di evitare che tale rapporto venga utilizzato come strumento, non soltanto per procrastinare la formazione del titolo esecutivo, ma anche per conseguire effetti di favore di ordine sostanziale in presenza di un gravame soltanto apparente”. La manifesta infondatezza va, infatti, annoverata tra le cause di inammissibilità intrinseche del ricorso. Operando una sintesi delle precedenti decisioni, la pronuncia a sez. un. n. 23428/05, infine, ha enunciato il condivisibile principio che l’intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido perché contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591 comma 1, con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, e art. 606 comma 3), precluda ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata sia di rilevarla d’ufficio. L’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice dell’impugnazione viene a tradursi in una vera e propria absolutio ab instantia, derivante da precise sequenze procedimentali, che siano in grado di assegnare alle cause estintive già maturate una loro effettività sul piano giuridico, divenendo altrimenti fatti storicamente verificatisi, ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale”. 3.4) Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento in favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria che pare congrua determinare in euro 1.000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. Vanno confermate le statuizioni civili ed il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla costituita parte civile, che liquida come da nota specifica, in euro 2.230,00, oltre accessori di legge.


P.Q.M.


 Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile che liquida in euro 2.230,00, oltre accessori di legge.