LA RESPONSABILITA’ DEL MEDICO
E LA RESPONSABILITA’ DELLA STRUTTURA OSPEDALIERA.
I CRITERI DI IMPUTAZIONE ED IL NESSO DI CAUSALITA.
di Anna Maria Princigalli
1. L’ evoluzione della responsabilità medica dal torto al contratto si caratterizza per la formazione quasi esclusivamente giurisprudenziale di regole orientate alla tutela del paziente che lamenti di non aver ottenuto dal trattamento terapeutico il risultato positivo sperato.
L’attuale tendenza si caratterizza per l’ abbandono di standard decisionali a contenuto flessibile che in passato avevano dato origine, nel “sottosistema” della responsabilità medica, a un insieme di regole transtipiche che avevano messo in crisi la rigida distinzione tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale.
In giurisprudenza, in particolare nelle sentenze delle sezioni unite della Cassazione, sembra affermarsi un orientamento diretto ad allargare e omogeneizzare le regole della responsabilità contrattuale, più idonee ad assicurare la massima tutela per la persona danneggiata . Espressione di tale esigenza sembra essere anche la recente sentenza delle sezioni unite n. 26972 /2008 relativa all’ambito di applicazione del danno non patrimoniale. Si legge in motivazione che “ se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni”.
All’ attuale impostazione più rigida delle regole in tema di responsabilità medica si è arrivati gradualmente.
Una tappa è stata l’aver ricondotto il rapporto del paziente con la struttura pubblica o privata al c.d. contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria, contratto misto o complesso, cui si applicano le norme del contratto d’opera professionale solo in quanto compatibili (Cass. sez. un. n. 9556/2002).
Il contratto di spedalità obbliga la struttura a fornire prestazioni di diagnosi e cura che sono poste in essere dai medici e dal personale dipendente. Per tali prestazioni la struttura è responsabile indirettamente in forza dell’ art. 1228 c.c. . Non ha rilevanza il rapporto che lega il medico alla struttura. Anche in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, si reputa che comunque sussista un collegamento tra la prestazione del medico e l’ organizzazione aziendale dell’ospedale, non rilevando in contrario la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cass. n. 13066/2004; Cass. n. 2042/2005, in senso contrario Cass. 8826/2007). La struttura e il medico rispondono nei confronti del paziente danneggiato in solido, sebbene i medici pubblici dipendenti , nei rapporti interni con l’amministrazione, godano del privilegio di non essere soggetti alla rivalsa in caso di colpa semplice, rispondendo soltanto in caso di dolo o colpa grave.
La struttura pubblica o privata è altresì responsabile direttamente ex art. 1218 c.c. per i danni derivanti da disfunzioni della organizzazione (carenza strutturale, difetto di organizzazione anche relative alla sicurezza e alla manutenzione delle attrezzature e dei macchinari, infezioni ospedaliere, sterilizzazione della sala operatoria, omessa adozione dei sistemi di sicurezza, vigilanza e custodia dei pazienti). Si reputa che la responsabilità contrattuale della struttura per inefficienza dei servizi e delle attrezzature si basi sul dovere di comportarsi secondo le regole della correttezza e della buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). “Occorre (che l’ospedale) dia la sicurezza di uno standard organizzativo tollerabile corrispondente a quello che il paziente di buona fede può ragionevolmente attendersi e ragionevolmente prevedere tenuto conto del luogo, del tempo, delle circostanze e delle altre strutture ospedaliere affini”. (Iudica, in Resp. civ.prev. 2001, 3).
Le leggi regionali di accreditamento che stabiliscono gli standard di sicurezza e qualità possono essere validi criteri di riferimento.
Il medico deve informare il paziente a rischio sulla efficienza organizzativa della struttura ed eventualmente consigliare il ricovero in altra struttura che dia maggiori garanzie di sicurezza.
La prima decisione sulla responsabilità per difetto di organizzazione risale al 1995 (v. Trib. Monza 7 giugno 1995; v., fra le tante, Cass. 16 maggio 2000 n. 6318 ; Trib. Brescia 28/12/2004).
2. L’accoglimento giurisprudenziale della teoria del c. d. “contatto sociale” come fonte dell’obbligazione del medico dipendente e conseguente superamento della responsabilità extracontrattuale (Cass. 589/1999) ha segnato una svolta decisiva verso la omogeneizzazione della responsabilità medica.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza più risalenti nel tempo, si riteneva che con l’accettazione del paziente , si instaurasse un rapporto contrattuale soltanto con l’ente. Il medico, estraneo al contratto, rispondeva per i danni causati dal trattamento terapeutico secondo le regole della responsabilità aquiliana. Cass. 2750/1988, (seguita da Cass. 2428/1990), invertiva l’orientamento, affermando che la responsabilità dell’ente e la responsabilità del medico dipendente hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, pertanto sono entrambi responsabili secondo le regole contrattuali di tipo professionale. Tale orientamento è culminato nella sentenza della Cass. n. 589/1999 che ha giustificato l’ applicabilità delle regole della responsabilità contrattuale ai medici dipendenti sulla base del c.d. “contatto sociale”. Il paziente, in assenza di contratto, non potrà pretendere la prestazione sanitaria dal medico, ma se il medico in ogni caso interviene, l’esercizio della sua attività non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto.
3. Il superamento del sotto sistema della responsabilità medica come insieme di regole transtipiche tra responsabilità contrattuale ed aquiliana, è stato altresì favorito dall’esplicito ripudio giurisprudenziale della distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazioni di risultato. Cass. sez. un. 15781/2005, in tema di responsabilità del progettista, è la prima importante sentenza che ha preso posizione sulla storica distinzione; ma sono da menzionare, in tema di responsabilità medica , Cass. 8826/2007 e Cass. sez. un. 577/2008.
La classica distinzione, utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, aveva lasciato sopravvivere, per le obbligazioni di mezzi o di diligenza, la regola di responsabilità basata sulla colpa , analoga a quella dell’art. 2043 c.c., e il conseguente onere probatorio a carico del paziente insoddisfatto.
Al fine di mantenere la coerenza del sistema, non essendo giustificabile la compresenza di regole diverse di responsabilità, già da tempo, in dottrina (Mengoni), si contestava la validità della distinzione, dimostrandosi invece che in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento diligente del debitore ex art. 1176 c.c., sia di un risultato utile per il creditore anche se i due momenti si presentano in proporzione variabile a seconda del contenuto dell’obbligazione. Alla diligenza si attribuiscono due funzioni: nelle obbligazioni c.d. di mezzi la diligenza è criterio di determinazione del contenuto dell’obbligazione (art. 1176, 2 c. c.c.) oltre che criterio di imputazione del mancato adempimento.
Eliminata la distinzione delle due specie di obbligazione, si afferma che la responsabilità per inadempimento va regolata da una sola norma, quella contenuta nell’art. 1218 c.c., con il conseguente onere della prova liberatoria a carico del debitore.
Dal momento che il superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato è strettamente legata al problema dei criteri di imputazione della responsabilità e al problema della ripartizione dell’onere della prova, è su questo tema che si dovrà riflettere con la massima attenzione .
4. Dalle origini all’attuale assetto probatorio.
Considerando la obbligazione medica una tipica obbligazione di mezzi, la regola di base era la seguente: il paziente – creditore doveva provare, la colpa, il danno e il nesso di causalità materiale; incombeva al sanitario provare l’impossibilità a lui non imputabile della perfetta esecuzione della prestazione. Con riferimento al rapporto tra prestazione dovuta e complessità della fattispecie alla regola di base furono affiancate altre due regole :
a) Per gli atti medici che avessero richiesto la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà , con riferimento alla sola imperizia (art. 2236c.c.), il medico doveva provare la speciale difficoltà, mentre al paziente toccava la prova del dolo o della colpa grave .
b) Per gli atti medici c.d. di facile esecuzione o di routine dai quali fosse derivato un esito infausto, la negligenza del medico veniva presunta per cui il paziente creditore poteva limitarsi a provare che l’intervento era di quelli il cui esito positivo era considerato dalla scienza medica sicuro con una probabilità prossima al 100%, mentre rimaneva a carico del medico debitore la prova che la prestazione era stata diligente e che il risultato infausto era dovuto a un fatto a lui non imputabile (la prima decisione in tale senso, Cass. 6141/1978).
Sulla questione del nesso di causalità si discuteva: in alcune sentenze si affermava che la presunzione riguardava solo la negligenza medica per cui il nesso di causalità materiale doveva essere oggetto di prova a parte a carico dell’attore (Cass. 2044/2000), in altre sentenze si reputava che la presunzione si estendesse anche al nesso causale (Cass. 6220/1988).
In dottrina, alla facilitazione probatoria per gli interventi di routine vennero attribuiti conseguenze di natura sostanziale: si affermava che la regola finiva per attribuire al medico una responsabilità oggettiva (Somma); si denunciava l’artificio della distinzione obbligazione mezzi-risultato (Castronovo) e infine si proclamava la trasformazione dell’obbligazione del medico in obbligazione di risultato(Costantino).
5. L’ affermazione del principio della c.d. vicinanza della prova e del nuovo assetto della ripartizione dell’onere della prova in caso di inadempimento o di inesatto adempimento (Cass. sez.un. 13533/2001) hanno dato l’avvio a un nuovo corso della responsabilità civile medica. A differenza di quanto sostenuto da dottrina e giurisprudenza in applicazione dell’art 2967 c.c., le sezioni unite reputano che “anche nel caso in cui sia dedotto l’inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.
Per una prima applicazione di tale regola in campo medico v. Cass. 9471/2004 (si trattava di un intervento mal riuscito di cambiamento di sesso. Si lamentava una errata valutazione dei profili di colpa ritenuti dai giudici di merito inesistenti). Intesa l’obbligazione del medico come obbligazione di risultato, la Corte reputa che l’attore, paziente danneggiato, possa limitarsi alla mera allegazione dei profili di colpa medica (l’inadempimento del medico)posti a fondamento dell’azione e che invece tocchi al medico la prova dell’incolpevolezza dell’inadempimento ossia della impossibilità non imputabile. L’allegazione è intesa nella sentenza come” contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quello che si ritengano essere in un dato momento storico le cognizioni ordinarie di un non professionista” Quindi, generica contestazione della colpa per categorie generali (omessa informazione dei rischi, adozione di tecniche non sperimentate in luogo di protocolli collaudati, negligenza ).
Ricorre al principio della vicinanza della prova, anche Cass. 10297/2004, (un ostetrico aveva provocato la paralisi dell’arto superiore destro del nascituro durante il parto). La S.C. ribadisce che quella del medico e della struttura è una obbligazione di mezzi per cui l’inadempimento consiste nell’aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta , mentre il mancato raggiungimento del risultato può costituire danno consequenziale.
Inoltre, in tema di onere della prova si reputa che non ha senso distinguere tra interventi di facile esecuzione e prestazioni implicanti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà , in quanto l’allocazione del rischio non può dipendere dalla maggiore o minore difficoltà della prestazione.
Il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e/o il “contatto sociale, l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico dell’obbligato medico la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.
La principale novità della decisione sta nell’abbandono della distinzione tra interventi facili e difficili che tuttavia, secondo la dottrina , “ha comportato la perdita di quel sistema di automatismi che, nella disciplina degli interventi di routine, consentiva la predefinizione del risultato atteso, il cui mancato consolidarsi rappresentava il danno”. La generica allegazione dell’inadempimento crea incertezza sulla prestazione dovuta e, di riflesso, sulla stessa qualificazione giuridica del danno(Pucella).
Coerentemente alla esigenza di semplificazione delle regole e alla unificazione delle stesse, Cass. 11488/2004 chiude il cerchio. In un caso in cui un radiologo aveva mancato di rilevare una grave malformazione del feto da una ecografia prenatale la Corte ribalta la regola della ripartizione della prova per gli interventi che comportano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (art. 2236), affermando che non compete al paziente provare la colpa grave dovendo il difetto di colpa o la non qualificazione della stessa in termini di gravità essere allegate e provate dal medico.
6. Scardinato il sistema di regole che avevano governato la responsabilità medica fino alla fine del secolo, proprio con riferimento al superamento della distinzione tra obbligazione di mezzi- obbligazioni di risultato, a pochi mesi di distanza, vengono pubblicate due sentenze per ovviare alla difficoltà di individuare il “risultato utile” del trattamento, cui fa affidamento il paziente, e per stabilire quando la negligenza è causa del danno e fonte di responsabilità.
Premesso che l’inadempimento medico consiste nella violazione del diritto del paziente alla conformità ai canoni della perizia professionale del comportamento del debitore (i canoni della perizia sono indicati dai protocolli scientifici, dalle linee guida che, accreditati da società scientifiche, diventano PDT – percorsi diagnostico-terapeutci), Cass. 8826/2007 reputa che il medico e l’ente siano contrattualmente impegnati a realizzare il risultato dovuto, ovvero il risultato conseguibile secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, alla abilità tecnica del medico e alla capacità tecnico-organizzativa della struttura. Il risultato dovuto non è quello netto e predefinito stabilito al di fuori del rapporto negoziale, ma solo quello che si modella caso per caso in relazione alle peculiarità della fattispecie concreta. Nella specie, si trattava di un intervento di settorinoplastica che aveva lasciato inalterato il difetto funzionale della respirazioni di cui era afflitto il paziente, costringendolo ad affrontare un altro intervento. Anche “lo stato di inalterazione e di non risolutività” del difetto , per i giudici di legittimità, è indice sintomatico dell’inadempimento del medico . Inoltre, si reputa irrilevante se la prestazione sia di facile esecuzione o se implichi la soluzione di problemi di speciale difficoltà , distinzione che secondo la Corte dovrebbe valere solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa del sanitario. In definitiva, il paziente deve provare il contratto e/o il contatto sociale e allegare la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza. Al debitore medico, presunta la colpa, incombe l’onere di provare, sulla base della vicinanza della prova, che la prestazione è stata esattamente eseguita o che l’inesattezza dipende da causa a lui non imputabile.
E’ stato osservato che tale sentenza pone sul tappeto due questioni: a) trasferisce impropriamente l’uso del dato probabilistico dall’indagine sul nesso causale all’indagine sul risultato ottenuto; b) non dà soluzione ai casi in cui non c’è evidenza chiara di cosa sia normale attendersi dall’attività del medico (Pucella, NGCC 2007, II, 445) .
In una prospettiva più conservatrice, forse per la diversa fattispecie cui deve dare soluzione (si trattava della riduzione chirurgica della frattura del femore), Cass. 14759/2007, non solo riafferma che l’obbligazione medica è una obbligazione di mezzi, ma ripropone ancora una volta la distinzione tra interventi facili e non. Il totale insuccesso di un intervento di routine dagli esiti normalmente favorevoli si presenta come possibile e altamente probabile conseguenza dell’inesatto adempimento e alla stregua dei criteri di accertamento del nesso di causalità nel settore della responsabilità civile, giustifica la prova della relazione causale. Si viene a ribaltare quanto affermato da Cass. 2044 /2000 secondo cui il nesso di causalità doveva essere provato dal paziente. Nella sentenza n. 14759/2007 si sposta il problema relativo alla valutazione dell’insuccesso dell’attività medica dal piano della colpa a quello della causalità e alla luce della sentenza n. 13533/2001 si esonera il paziente dalla relativa prova. Se sussiste anche un rapporto di mera probabilità scientifica, afferma la corte, deve ritenersi che il nesso di causalità sussista anche quando,in presenza di indici presuntivi, il danno sia conseguenza altamente probabile e verosimile della condotta medica.
Qualche mese dopo intervenivano le sezioni unite con una serie di sentenze relative a questioni collegate a trasfusioni di sangue infetto. In particolare, sul problema della prova si è pronunciata Cass. sez.un. 577/2008 . Si trattava di una infezione di epatite C contratta a seguito di una trasfusione; nella specie l’attore aveva presentato la documentazione relativa all’assenza della patologia antecedentemente all’intervento oltre i termini di cui all’art. 184 c.p.c. , per cui la domanda di risarcimento era stata rigettata. Le sezioni unite, prendendo atto della tardività della domanda, tuttavia cassano la sentenza di appello e colgono l’occasione per fare il punto sull’onere della prova in materia sanitaria . Viene affermato che “il paziente danneggiato deve provare il contratto o il contatto sociale e il danno (l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di una affezione nuova) e allegare un inadempimento qualificato, cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”. Le sezioni unite pongono l’accento sul nesso di causalità per cui l’allegazione del debitore non dovrebbe attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma solo a quello che costituisce astrattamente causa o concausa efficiente del danno. Presunto il nesso eziologico, competerà al medico convenuto dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.
L’allegazione sostanzialmente non muta il favor processuale per l’attore, ma lascia irrisolto proprio la questione della prova del nesso causale. In alcuni casi il nesso di causalità si presume facilmente : intervento sul rene sano invece che su quello malato. In altri casi il nesso causale non è altrettanto evidente. In caso di infezione addominale, la mera allegazione dell’inadempimento non sembra giovare molto all’attore il quale dovrebbe individuare in quale segmento delle varie fasi pre o post, operatorie può essere insorta l’infezione, e quindi in quale momento si è verificato quel comportamento negligente astrattamente idoneo a causare il danno.
A parte i numerosi rilievi , i commentatori della sentenza unanimemente hanno preso atto invece che tale assetto dei carichi probatori è tutto sbilanciato a carico del medico con conseguente rischio del collasso del sistema assicurativo e dell’aumento della c.d. medicina difensiva. Va comunque sottolineato che il passaggio dalla responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) alla responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) comporta già di per sé una modifica in ordine all’onere della prova : nel primo caso l’onere della prova della colpa del danno e del nesso di causalità è a carico del danneggiato con la conseguenza che le cause ignote rimangono a suo carico; nella responsabilità contrattuale le posizioni sono rovesciate perché spetta al debitore provare i fatti estintivi dell’inadempimento; se tale prova non riesce, le cause ignote saranno addebitate al debitore inadempiente Fra l’altro, le regole sull’onere della prova non possono essere modificate dalla giurisprudenza , la quale invece può fornire soltanto moduli argomentativi per favorire un approccio più concreto e realistico al problema della individuazione dei temi di prova posti a carico di debitore e creditore.
E’ appena il caso di ricordare che”l’onere della prova non attiene alla formazione del convincimento del giudice, bensì a una regola di giudizio che si propone qualora la fase di valutazione delle prove si sia chiusa con esito negativo, lasciando il giudice nell’incertezza sui fatti che devono costituire l’oggetto della decisione”. (Mengoni)
La rigida applicazione delle regole contrattuali alla responsabilità medica si espone a non poche riserve. E’ auspicabile che si ritorni a modelli più flessibili sacrificando la coerenza del sistema.
Prof.ssa Anna Maria Princigalli