Tutela penale avverso gli atti dell’amministrazione.
Legittimità amministrativa accertata dal giudice amministrativo e processo penale:
i reati edilizi. (1)
di
Michele Laforgia



All’archeologo del diritto che abbia tempo e voglia di occuparsi del problema del controllo penale sugli atti amministrativi, e ancor più segnatamente del rapporto tra processo penale e processo amministrativo, verrebbe innanzi tutto da pensare che il mondo è proprio cambiato, ed anzi, che per certi versi si è rovesciato.


Se all’inizio del secolo la istituzione del sindacato dell’autorità giudiziaria sugli atti amministrativi rappresentava “una grande missione costituzionale per il giudice ordinario” – come si leggeva nel Trattato di diritto amministrativo a cura di Orlando dell’ormai lontano 1901 – ognun vede come oggi quella missione sia approdata ad una opposta prospettiva.


Non si tratta più di garantire, o di garantire pienamente, la tutela subiettiva del cittadino nei confronti dell’attività amministrativa, come con la vecchia legge 20.3.1865, n. 2248, all. E, bensì di legittimare – o de-legittimare, a seconda delle finalità perseguite – il potere di controllo oggettivo del giudice, e in particolare del giudice penale, sugli atti della pubblica amministrazione.


Indipendentemente dalla loro incidenza sulle posizioni private, ed anzi, sempre di più, e in modo maggiormente incisivo, contro le posizioni soggettive private e ben oltre i ristretti, tradizionali e tranquillizzanti confini della disapplicazione dell’atto amministrativo.


Con una progressione che è significativamente nata in relazione ai reati edilizi: un tempo, il regno della discrezionalità amministrativa, se non politica, e oggi materia nella quale, dopo la lunga querelle sulla disapplicazione dell’atto, si è da tempo consolidata la tesi secondo la quale il giudice penale conosce direttamente l’illegittimità del provvedimento amministrativo, non per disapplicarlo, bensì, semplicemente, per ignorarlo.


E’ noto infatti che la concessione edilizia illegittima si considera tamquam non esset ai fini della integrazione della fattispecie del reato di costruzione senza concessione (oggi permesso di costruire), così come accade all’autorizzazione ai fini del reato di lottizzazione abusiva.


Un mondo alla rovescia, appunto, almeno per gli studiosi del diritto amministrativo.


Nel quale la vecchia – e ormai superata – presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo che tutti abbiamo – erroneamente – desunto dallo studio dei manuali universitari si traduce nel suo contrario, in una sorta di presunzione di irrilevanza; per gli amministrativisti una sorta di ossimoro, atteso che il provvedimento amministrativo, per insegnamento tradizionale, è, o dovrebbe essere, per definizione efficace e imperativo anche quando è invalido e sino alla pronuncia di annullamento, riservata al giudice amministrativo.


Ma è un mondo ben strano anche per il penalista ancora romanticamente legato ai principi di legalità, tipicità e determinatezza delle fattispecie e alle prese invece con una ipotesi di reato fondata su una illegittimità amministrativa individuata a posteriori dal giudice penale; o meglio, dal P.M. e, prima di esso, dal suo consulente tecnico, urbanista, amministrativista, ingegnere o architetto “apprendista stregone” del diritto che sia.


In materia di lottizzazione abusiva, poi, la verifica di conformità riguarda sovente l’intero, complesso iter dell’autorizzazione, in riferimento a tutti i parametri previsti dallo strumento urbanistico e dalla legge; in ipotesi, a tutte le norme e a tutte le leggi: che suona un pò come dire che è reato disattendere i provvedimenti amministrativi e/o violare la legge, qualsiasi provvedimento e qualunque legge, con buona pace dei sacri principi di tipicità e determinatezza delle fattispecie penali.


Questo sistema, nato con la legge 47 del 1985, che per prima ha introdotto nella norma penale (art. 18) il requisito della conformità dell’autorizzazione allo strumento urbanistico generale e alla legge, oggi riprodotta nel T.U.E., si è consolidato nel corso degli anni per effetto della giurisprudenza “espansiva” della Terza Sezione Penale della Cassazione ed è stato definitivamente asseverato dalle Sezioni Unite nella nota sentenza del 2001, peraltro resa nell’ambito di una vicenda “barese”.


Alla stregua di quella pronuncia, il diritto vivente è questo: la lottizzazione abusiva è reato a consumazione alternativa, nel quale il giudice deve verificare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, ivi compresa la legittimità (id est: la conformità allo strumento urbanistico e alla legge) dei provvedimenti autorizzatori, senza alcuna limitazione, perché non si tratta di disapplicare l’atto amministrativo, bensì di verificare gli elementi della fattispecie penale.


Secondo le Sezioni Unite, è la “descrizione normativa del reato di lottizzazione abusiva, che impone un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa; di tal che il giudice penale, nel valutare la liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione edificatoria, indipendentemente dalla circostanza che la lottizzazione sia o meno autorizzata”: (2) il provvedimento amministrativo è, per l’appunto, del tutto irrilevante (o meglio, rileva solo se non c’è).


Il bene giuridico tutelato, dunque, non è (più) soltanto la riserva pubblica di programmazione territoriale, ma, ed essenzialmente, la risultante di questa, ossia la concreta conformazione del territorio derivata dalle scelte di programmazione effettuate (id.), secondo una interpretazione condivisa anche pronunce del giudice amministrativo. (3)


Resta il dubbio, tuttavia, che questa ampiezza di poteri e di controlli inevitabilmente tardivi finisca con l’attribuire allo stesso giudice penale la funzione di pianificatore (postumo): ché ognuno intende come interpretare la concreta conformazione del territorio sia attività non sempre agevolmente distinguibile dalla pianificazione in sé.


Con gli inconvenienti e le ambiguità che comporta una pianificazione per via giudiziaria (penale), al di fuori delle garanzie e delle regole del procedimento amministrativo, che è per sua natura rappresentazione, selezione e graduazione di interessi e posizioni soggettive giuridicamente rilevanti, e con effetti ancor più gravosi di quelli solitamente conseguenti a un processo penale, rappresentati dalla confisca dei terreni ogniqualvolta il giudice riconosca la sussistenza in fatto della lottizzazione.


Ciononostante, secondo una interpretazione consolidata nella giurisprudenza di merito e di legittimità, la confisca contemplata dall’art. 44 T.U.E. non è una pena, bensì una misura amministrativa eccezionalmente adottata dal giudice penale in sostituzione dell’autorità amministrativa, come tale compatibile anche con l’esito assolutorio del processo (con formula diversa dalla insussistenza del fatto) e dovuta anche in caso di prescrizione del reato, e cioè quando la pretesa punitiva dello Stato si è, in qualche modo, esaurita.


Anzi, secondo una recentissima pronuncia delle Sezioni Unite penali, in questo caso l’accertamento del fatto (presupposto) di reato finalizzato alla confisca travalicherebbe anche il principio (l’obbligo) della immediata declaratoria delle cause di estinzione del reato sancito dall’art. 129 c.p.p. (4)


Siamo davvero in un mondo nuovo, nel quale l’unico, sottile argine allo strapotere del giudice penale sembra essere rappresentato dalla perdurante vincolatività del giudicato amministrativo, costantemente affermata anche dalla Cassazione penale sulla base della valorizzazione – testuale – dei diritti civili del cittadino. (5)


Il limite va peraltro inteso in senso restrittivo, con riferimento ai soli profili effettivamente e specificamente dichiarati legittimi: “il potere del giudice penale di accertare la conformità alla legge ed agli strumenti urbanistici di una costruzione edilizia trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell’opera”. (6)


Ma, se la legittimità dell’atto autorizzatorio costituisce elemento della fattispecie di reato, perché la decisione giudiziaria (civile o amministrativa) non soggiace alle regole generali sancite dagli artt. 2 e 3 c.p.p.?


Il giudice penale, infatti, quando si occupa del fatto vi accede, in via di principio, senza limitazione alcuna, risolvendo, a norma dell’art. 2 c.p.p., ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito, e senza essere vincolato (salvi i casi espressamente previsti dall’art. 3 c.p.p.) dalle pronunce di altre autorità giudiziarie.


Allo stesso modo, il giudice penale conosce e accerta i fatti presupposti al provvedimento amministrativo, giungendo frequentemente alla integrazione delle fattispecie di falso, con tutto quello che ne consegue ai fini della relativa validità ed efficacia in materia di reati edilizi.


Orbene, se questo è lo stato dell’arte diventa davvero difficile, se non impossibile, attribuire concreta portata limitante al giudicato amministrativo: anche perché, di norma, il giudice amministrativo del fatto non si occupa affatto, o si occupa molto poco.


La funzione della giustizia amministrativa, in linea di principio (e guardando ovviamente al modello tipico del giudizio di annullamento) non è quella di ricostruire i fatti, bensì di verificare se l’amministrazione ha correttamente esercitato il suo potere, statuendo se ha motivato e correttamente applicato la regola di diritto: com’è stato autorevolmente osservato, il processo amministrativo è usualmente volto a sindacare la valutazione dei fatti incontestati, non a verificare e stabilire come i fatti sono andati. Nel giudizio amministrativo, almeno in via di principio, non si contesta e non si può contestare la verità dei documenti acquisiti nel corso del procedimento, che attestano i (soli) fatti rilevanti ai fini del decidere.


E se questa peculiarità del giudizio impugnatorio indusse Massimo Severo Giannini a definire icasticamente il giudice amministrativo con grandi orecchie, ma senza occhi e senza mani, oggi l’impari confronto è con un giudice penale spesso tanto poco incline all’ascolto da apparire senza orecchie, ma con occhi e mani enormi.


In mezzo, peraltro, si trovano i cittadini: imprenditori, acquirenti, a volte terzi incolpevoli e purtuttavia attinti, talvolta senza rimedio, da misure ablatorie e ripristinatorie gravissime quali confische e ordini di demolizione.


I dubbi di razionalità, coerenza, compatibilità interna del sistema di controllo e tutela che ne derivano sono dunque molteplici, nè può stupire più di tanto la recente frizione con i principi europei secondo l’interpretazione della Corte di Giustizia e della CEDU, attestata dalla recente declaratoria di ammissibilità della domanda di risarcimento conseguente a confisca pronunciata con l’assoluzione degli imputati perché il fatto non costituisce reato in relazione alla nota vicenda, pure “barese”, della lottizzazione di Punta Perotti. (7)


Una pronuncia “rivoluzionaria” perché fondata sulla natura sostanziale di sanzione penale della confisca, al di là del nomen iuris e anche della qualificazione interpretativa adottata dalla giurisprudenza nazionale.


Secondo la Corte Europea, infatti, il diritto interno costituisce un punto di partenza, non di arrivo, mentre le nozioni di pena e di accusa penale ai fini del concreto rispetto della Convenzione derivano dalla propria interpretazione autonoma, libera di andare oltre le apparenze e valutare se una misura particolare costituisce in sostanza una pena ai sensi della Convenzione. (8)


Per la Corte, “ricadono in generale nel diritto penale le infrazioni i cui autori si espongono a pene destinate ad esercitare un effetto dissuasivo e che consistono generalmente in misure privative della libertà e ammende”.


Più in generale, i criteri progressivamente elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ai fini della individuazione del carattere sostanzialmente penale di una sanzione prevista dal diritto interno sono riconducibili a quattro grandi categorie:




  1. qualificazione prevalente negli Stati contraenti;


  2. natura generale della infrazione;


  3. natura punitiva e gravità della sanzione diretta a fini preventivi e punitivi;


  4. collegamento con una violazione penale.


Sembra davvero difficile, alla stregua di questi principi, continuare a affermare che la confisca in materia di lottizzazione abusiva configuri una misura amministrativa e non una sanzione penale.


Non vale ovviamente obiettare che si tratta di una conseguenza dell’accertamento del fatto che prescinde del tutto dalla colpevolezza e può attingere anche terzi del tutto estranei al giudizio penale, perché questo è esattamente il problema, non la sua soluzione: che l’interprete è chiamato a risolvere valutando se queste sue peculiari caratteristiche siano compatibili con la sua concreta natura e le sue reali finalità, alla stregua dei principi sanciti dalla Convenzione (e dalla Costituzione).


E i dubbi aumentano se si analizzano le ragioni esposte dalle stesse decisioni che hanno riaffermato la natura non penale della confisca, com’è agevole desumere dal seguente passaggio motivazionale di una fra le tante pronunce rese dal Supremo Collegio in subiecta materia: “Sulla base di queste premesse la Corte ritiene che la confisca in esame costituisca un provvedimento ablativo radicale, nelle forme e nelle conseguenze. Tale caratteristica, lo si ripete, è perfettamente in linea con il giudizio del legislatore circa l’estrema gravità delle condotte di lottizzazione in relazione al bene protetto, e si spiega anche con le correlate finalità che la confisca viene così ad acquisire. Il fatto che, senza discrezionalità alcuna, la proprietà dei terreni e dei beni lottizzati venga trasferita dai privati al patrimonio del comune assomma in sé, a ben vedere, numerose conseguenze di grande interesse.
La prima è quella di prospettare ai privati un rischio elevatissimo: la perdita della proprietà sui beni oggetto di lottizzazione, e quindi dovrebbe costituire un forte elemento di deterrenza.
La seconda è quella di evitare che la sanzione possa essere in concreto non applicata e/o non eseguita a causa di incuria o boicottaggio da parte degli amministratori locali.
La terza è quella di evitare che questi ultimi siano sottoposti alle pressioni dei destinatari della confisca affinché vengano assunti, ancorché ex post, provvedimenti di sanatoria, con il pericolo di forzature e distorsioni delle politiche di gestione del territorio e, se si vuole, evitandosi in tal modo anche rischi di attentati alla lealtà e correttezza dell’azione amministrativa.
La quarta conseguenza, non meno importante, è l’attribuzione al comune della libertà di utilizzare l’area e gli eventuali manufatti senza subire i condizionamenti di coloro che su quei beni altrimenti conserverebbero aspettative e interessi diretti
”. (9)


Non si potrebbe essere più chiari, specie ove si consideri la normale corresponsabilità dello stesso Comune nella dedotta violazione delle norme urbanistiche: con l’effetto, del tutto paradossale, di premiare oltre misura proprio chi, con la sua condotta quantomeno omissiva, ha reso possibile la consumazione del reato.


Parafrasando Dostojevskij: un castigo senza delitto, almeno per i terzi estranei e del tutto incolpevoli, e un delitto senza castigo, appunto, per l’autorità amministrativa che ha fattivamente contribuito alla realizzazione dell’illecito.


Qui il paradosso della doppia tutela, penale e amministrativa, contro gli atti illegittimi della p.a. appare in tutta la sua evidenza e rivela la sua irrazionalità di fondo, conservando peraltro una comune incertezza sulla individuazione dei parametri del sindacato giurisdizionale sull’attività amministrativa.


Un paradosso incoerente con i principi del diritto e del processo amministrativo – che rischia di essere vanificato nella sua funzione e finanche nella sua pratica utilità, non solo in materia edilizia (10) – che finisce col minare in radice i tradizionali presupposti del giudizio e della sanzione penale, a discapito della certezza dei rapporti giuridici e della tutela delle posizioni soggettive.


Resta dunque persistente e imprescindibile l’esigenza di garantire l’unità e la razionalità del sistema, come peraltro si osservava profeticamente ormai trent’anni fa: “come sarebbe assurdo, in ipotesi, immaginare la funzione legislativa ordinata, ad esempio, a togliere effetto – mediante la produzione di apposite norme – alle sentenze dei giudici, non diversamente deve apparire assurdo che queste ultime siano precostituite al fine di vanificare gli atti del potere esecutivo.
Non si può accettare l’idea di una possibile conflittualità permanente fra le funzioni dello Stato
”. (11)


Che è poi esattamente quello che è accaduto e ancora accade, forse sottovalutando, al di là delle legittime opinioni e preoccupazioni di ciascuno dei protagonisti della scena politica e giudiziaria, gli effetti dirompenti che questa conflittualità sistematica ha prodotto alla stessa idea che il diritto non sia mero simulacro per l’esercizio del potere: contro i cittadini, e non a loro tutela.


Avv. Michele Laforgia


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Note




  1. Il testo è la sintesi dell’intervento pronunciato nel corso del convegno I danni della pubblica amministrazione: le forme di tutela, tenutosi a Molfetta, Auditorium Madonna della Pace, il 30 ottobre 2008.


  2. Cfr. Cass., SS.UU., dep. 8.2.2002, n. 5115, Salvini ed altri.


  3. V., per tutte, Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. 16.9.2008, n. 4362, Pres. Cossu, Est. Saltelli: “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, al giudice penale non spetta alcun sindacato sull’atto amministrativo, essendo egli tenuto ad accertare la conformità tra il fatto (opera da eseguire o già eseguita) e le previsioni urbanistico–edilizie vigenti, con la conseguenza che la constatata difformità tra fattispecie concreta e previsione astratta gli consente di affermare la illiceità della condotta, a prescindere dalla stessa disapplicazione dell’atto amministrativo: del resto il bene giuridico tutelato dall’articolo 20, lett. b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 non è l’interesse formale e strumentale al controllo dell’attività edificatoria da parte dell’amministrazione, quanto piuttosto la protezione del territorio in conformità alla normativa urbanistica“.


  4. V., in motivazione, Cass., Sez. Un., 10.7/15.10.2008, n. 38834 (segnatamente a. pagg. 19-21-22).


  5. V., ex multis, Cass., Sez. III, 5.6.2003, n. 39707.


  6. Cfr., in questi termini, Cass., Sez. III, 14.12.2006/23.1.2007, n. 1324.


  7. Cfr. CEDU, 30.8.2007, in www.echr.coe.int.


  8. Cfr., fra le tante, Escoubet c. Belgio 28.11.1999: “in ogni caso la nozione di pena contenuta nell’art. 7 della Convenzione come quella di accusa in materia penale che figura nell’art. 6 hanno portata autonoma … la Corte non è vincolata dalle qualificazioni del diritto interno, che hanno valore relativo”.


  9. V., in termini, Cass., Sez. III, 12.4/29.5.2007, n. 21125.


  10. Gli stessi principi risultano infatti invocati e applicati in ambiti diversi, ad esempio in materia ambientale.


  11. Sono parole di Gaetano Contento, estratte da Giudice penale e pubblica amministrazione, Laterza, 1979.