“Riflessioni sulla carenza di interesse all’annullamento del provvedimento amministrativo
per vizio formale di difetto di motivazione”

di
Antonio Guantario

Sommario:
1.- L’oggetto dell’indagine.
2.- L’integrazione della motivazione e i suoi effetti sul giudizio in corso
3.- L’inutilità dell’annullamento per vizio formale di difetto di motivazione


1.- L’oggetto dell’indagine.
Il presente scritto trae origine dalle sollecitazioni provenienti da una pronuncia del T.a.r. Puglia-Bari, Sez. II, 13 novembre 2002 n. 4950 – Pres. Perrelli, Est. Mangialardi, , che si segnala per aver affermato l’inidoneità del vizio di difetto di motivazione – peraltro, nella specie, riconosciuto fondato – a soddisfare l’interesse sostanziale, ravvisabile nella realizzazione dell’intervento costruttivo proposto con la d.i.a., in quanto vi contrasterebbe la possibilità per il Comune, a seguito di una sentenza così assunta, di reiterazione del suo provvedimento negativo, questa volta ben motivato.
Affermazione questa potenzialmente ancor più densa di significato, appena si consideri che, nel caso di specie, l’interesse legittimo cautelato era di tipo c.d. oppositivo e, come è noto, in dottrina è sostanzialmente dominante l’opinione che in tali ipotesi, l’eliminazione dell’atto, nella mera ottica processuale, è sufficiente a restituire al ricorrente il bene della vita sacrificato dalla P.A. con l’atto impugnato (1). Difatti, la caducazione dell’atto per mero vizio formale, ripristinando la situazione giuridica da questo modificata, costituisce «una utilità sostanziale apprezzabile in se stessa» (2) nell’eventualità che la P.A. non riemani l’atto per sopravvenute valutazioni, o perché divenuto concretamente non riadottabile come nel caso in cui il difetto o insufficienza dell’enunciato motivante «… ridondi in erroneità od inconferenza dei motivi indicati, e questi costituiscano le effettive ragioni del provvedere» (3).
Invece, del tutto inopinatamente, il giudice amministrativo nella sentenza sopra indicata, per di più, in assenza di un motivo di ricorso specifico, proposto sotto forma di motivi aggiunti, che censurasse le ragioni di diniego esternate nel provvedimento di integrazione della motivazione, ha ritenuto di poter comunque esaminare “nel merito” la vicenda sottoposta al suo esame.


Il fatto.
Il ricorrente produceva denuncia di inizio attività (d.i.a.) di intervento di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo di immobile di sua proprietà.
Il Comune, quando ormai era decorso il termine di 20 gg. (ex art. 4, comma 15, legge 493/93) dalla presentazione della denuncia, con nota dirigenziale diffidava dal dare inizio ai lavori, in quanto, a suo dire, “l’intervento edilizio non rientrava tra quelli previsti ai sensi della legge n. 662 del 23/12/1996, art. 2 comma 60”. Non venivano esplicitate le ragioni specifiche dell’asserito contrasto normativo.
Di qui l’atto di ricorso ed in particolare il motivo di eccesso di potere e/o violazione di legge per difetto di motivazione per il quale il dovere di motivazione, previsto dall’art. 4 comma 15 legge 493/93 in caso di diniego di d.i.a., e più in generale dall’art. 3 legge 241/90, rendeva evidente l’omissione in cui era incorso il Comune, che, a sua volta, impediva al ricorrente di conoscere le analitiche ragioni di diniego agli interventi edilizi.
Con ordinanza n. 271 dell’8.4.99 l’istanza cautelare veniva accolta sotto il profilo della carenza di motivazione nell’atto impugnato.
Successivamente, con propria nota il Dirigente del Settore Urbanistica comunicava all’interessato le ragioni sottese al diniego d.i.a., sostanzialmente ripetitive di quanto già espresso dalla difesa comunale, che per suo conto –in virtù di quanto innanzi- deduceva un ravvisabile sopravvenuto difetto di interesse in capo al ricorrente in riferimento al vizio di difetto di motivazione.
In sede di decisione il collegio, quanto alla censura di difetto di motivazione, disattendeva l’eccezione di difetto di interesse al mezzo di gravame, avanzata dal difensore del Comune, stante la natura non provvedimentale della comunicazione dirigenziale che aveva integrato la motivazione del provvedimento amministrativo impugnato, sul rilievo che “i provvedimenti amministrativi debbano essere esaurientemente motivati e che la insufficiente motivazione non può essere sanata mediante argomentazioni svolte nel corso del processo (ex multis CdS Sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1396; 1 sett. 1999 n. 1378; TAR Pescara, 1 sett. 2000 n. 591)”.
Corollario dell’irrilevanza dell’integrazione della motivazione sarebbe dovuto essere l’accoglimento del ricorso per carenza di motivazione nell’atto impugnato. Senonchè, anche questa conclusione veniva disattesa, poichè la caducazione dell’atto per difetto di motivazione “non risulterebbe però satisfattiva dell’interesse sostanziale dell’IPAB (n.d.r. la parte ricorrente), ravvisabile nella realizzazione dell’intervento costruttivo proposto con la d.i.a.; vi contrasterebbe infatti la possibilità per il Comune, a seguito di una sentenza così assunta, di reiterazione del suo provvedimento negativo, questa volta ben motivato”.
Pertanto, considerato che le motivazioni rappresentate nella nota dirigenziale del 14.4.99 risultavano sostanzialmente ripetitive di quanto espresso nella memoria della difesa comunale del 30.3.99 e che a riguardo aveva puntualmente contro dedotto parte ricorrente nella sua memoria del 7 aprile ‘99, il Collegio riteneva di poter esaminare “nel merito” la vicenda sottoposta al suo esame, decidendo cioè se all’intervento costruttivo in questione potesse presiedere o meno la procedura della d.i.a. In conclusione le considerazioni comunali di opposizione alla procedura d.i.a per l’intervento de quo venivano nel merito qualificate infondate, con conseguente accoglimento della pretesa di parte ricorrente, previo annullamento degli atti ostativi.


I punti di interesse che sollecitano le presenti considerazioni sono:


a) il riconoscimento di atto a natura non provvedimentale della comunicazione dirigenziale che ha integrato la motivazione del provvedimento amministrativo in corso di giudizio, a causa della sua affermata irrilevanza, dovuta al principio giurisprudenziale secondo cui la insufficiente motivazione non può essere sanata mediante argomentazioni svolte nel corso del processo.
b) l’assunto che l’accoglimento del ricorso sulla scorta della censura di carenza di motivazione non sarebbe comunque satisfattivo dell’interesse sostanziale del ricorrente, ravvisabile nella realizzazione dell’intervento costruttivo proposto con la d.i.a., in quanto “vi contrasterebbe, infatti, la possibilità per il Comune, a seguito di una sentenza così assunta, di reiterazione del suo provvedimento negativo, questa volta ben motivato”. Il che val quanto dire che l’annullamento per difetto di motivazione del provvedimento di diffida dal dare inizio ai lavori è inidoneo ad offrire tutela effettiva al ricorrente vincitore della causa.


Le affermazioni contenute nei due punti segnalati, prese in sè stesse, sono corrette. Senonchè, applicate al caso concreto potrebbero ingenerare confusione e travisamenti concettuali che è compito della dottrina scongiurare.
Invero, proveremo a confrontare le affermazioni di principio di cui innanzi alle nozioni generali di riferimento, per saggiarne la correttezza dell’applicazione fattane e, comunque, tentare un inquadramento teorico più generale


2.-L’integrazione della motivazione e i suoi effetti sul giudizio in corso.
Riprendendo una utile osservazione del GIANNINI (4) che avvertiva come il prevalere della comodità dell’eloquio sull’esattezza del linguaggio scientifico valesse quale criterio di spiegazione di talune contraddittorie affermazioni di dottrina e giurisprudenza in tema di motivazione, è utile e necessario enucleare il concetto di difetto di motivazione che non ha ricevuto una elaborazione scientifica adeguata rispetto ai risvolti giuridici ad essa connessi, soprattutto sul terreno della esecuzione del giudicato formatosi in ordine all’annullamento di un atto viziato sotto tale profilo (5).


In altri termini i limiti di reiterabilità dell’atto annullato per difetto di motivazione variano a seconda del significato che la motivazione (e, per converso, il suo difetto) abbiano assunto nella pratica giurisprudenziale. Non è raro, anzi, accade sovente che le massime giurisprudenziali, riprese anche dalla dottrina, ricalchino schemi concettuali tralatici e non offrano elementi di distinzione tra le differenti ipotesi sostanziali racchiuse nella formula “difetto di motivazione” che può, invece, scindersi sotto tre diversi profili:
1) difetto di motivazione come carenza grafica (6);
2) difetto di motivazione come non completa- logica- e documentata espressione discorsiva delle ragioni di pubblico interesse sottese all’atto (7);
3) difetto di motivazione come inesistenza di ragioni di pubblico interesse (difetto di motivi) (8).


A ciascun rilevato profilo del difetto di motivazione corrispondono, poi, diverse nozioni di motivazione c.d. successiva, normalmente ritenuta inammissibile ove emessa in corso di giudizio di annullamento nel quale sia stata fatta valere la censura di difetto di motivazione.
La motivazione successiva ha potuto vantare una sua dignità contenutistica fino a quando il giudice amministrativo ha considerato la motivazione formale come «schermo motivazionale». In tale prospettiva, pertanto, risultava utile anche una successiva esternazione che, al pari della motivazione contestuale, si offrisse quale «schermo» postumo, cui estendere il sindacato per eccesso di potere, così limitando, al tempo stesso, la possibilità di censura dell’atto per assenza di motivazione.
Viceversa, con l’abbandono della concezione della motivazione formale come «schermo», e il contestuale riconoscimento del potere istruttorio del G.A. di acquisire e conoscere gli atti del procedimento, per verificarne la ponderazione degli interessi, è divenuta irrilevante (o quanto meno si è fortemente svalutata) anche la portata della motivazione successiva ai fini del sindacato di eccesso di potere.
Pertanto, la declaratoria di inammissibilità della motivazione successiva, in realtà, si sostanzia nella affermazione della oggettiva irrilevanza della stessa ai fini del sindacato sotto forma di eccesso di potere e riproduce integralmente gli effetti che si riconnettono al carattere di artificialità della motivazione in cui gli eventuali motivi viziati o assenti non possono essere rispettivamente sostituiti o integrati da un mero discorso motivante formale.
Ciò fornisce una linea guida in sede di ricostruzione del dibattito concernente la questione della sanabilità dell’atto, affetto dal vizio del difetto di motivazione, in corso di giudizio.
Invero, ha senso parlare di «sanabilità» dell’atto in relazione al difetto di motivazione ove quest’ultimo venga classificato come vizio formale, ossia vizio esternativo.
Al contrario, ove il difetto di motivazione, come ci sembra più corretto, venga qualificato come mero dato sintomatico di una difettosa ponderazione dell’interesse pubblico (difetto di motivi e/o manifesta irragionevolezza della scelta) (9), l’esternazione successiva di un semplice discorso motivante non sarebbe, comunque, idonea a sanare un vizio di natura sostanziale. In tale evenienza, infatti, occorrerebbe una nuova istruttoria da cui emerga l’effettiva sussistenza di motivi di interesse pubblico. Del pari, ove il discorso motivante successivo sia in grado di dimostrare che il sospetto di difettosa ponderazione dell’interesse pubblico possa essere fugato da elementi ricavabili dal dossier procedimentale, più che di motivazione successiva dovrebbe parlarsi di discorso chiarificatore – avente ad oggetto motivi già dedotti dalla P.A. e, pertanto, già nel libero dominio dei soggetti processuali – che funga da traduzione di un giudizio logico in mera affabulazione semantica (10).
La stessa giurisprudenza, invero minoritaria, espressasi a favore della c.d. motivazione successiva (o, se si preferisce, della integrazione della motivazione in corso di giudizio), ha dato origine ad un dibattito che ha registrato posizioni fortemente contrapposte, ma che, a nostro avviso, appare caratterizzato, ab origine, da eccessiva astrattezza.
Detto dibattito si è, infatti, sviluppato senza che, da parte della giurisprudenza, sia stata preliminarmente delineata la nozione di motivazione successiva accolta in sentenza e senza che ne sia stata verificata la possibile rilevanza ai fini decisionali.
La cennata astrattezza ha impedito di procedere ad una corretta lettura del fenomeno.
È importante considerare, infatti, che la formula «motivazione successiva» sul piano logico può riguardarsi sotto tre diversi profili:
a) successiva esternazione grafica di motivi già ricavabili dagli atti del procedimento [c.d. motivi dedotti, sia pure non espressamente (11)] ovvero di motivi non riscontrabili negli atti del procedimento [c.d. integrazione postuma dei motivi non dedotti neppure implicitamente (12)];
b) integrazione della motivazione mediante la produzione in giudizio di scritti difensivi (13);
c) produzione in giudizio di atti del procedimento da cui sia possibile ricavare in via logica la motivazione (14).
È importante, inoltre, tenere presente che queste ipotesi impongono un autonomo approfondimento delle obiezioni mosse genericamente alla figura della «motivazione successiva», con particolare riferimento alla specifica nozione volta a volta presupposta.
Non è condivisibile, infatti, come si verificherà in seguito, la tralaticia posizione giurisprudenziale che nega la possibilità di integrazione della motivazione in corso di giudizio mediante la produzione di scritti difensivi, documenti e/o atti procedimentali o atti successivi integrativi, avvalendosi dell’aprioristico principio del c.d. divieto di motivazione successiva. Poiché, in questo caso, gli scritti e/o gli atti non introducono motivi nuovi (quindi, successivi), ma si limitano a mettere in luce (secondo una logica di mera chiarificazione) quelli già evincibili (e quindi controllabili) da quegli atti procedimentali, già acquisiti al giudizio, che siano preordinati, presupposti e/o connessi al provvedimento impugnato (15).
Affatto diversa è poi l’ipotesi della rinnovazione del procedimento in corso di causa, sfociante in atti di riesercizio della funzione che, come sarà illustrato, postulano una rinnovata istruttoria e ponderazione dell’interesse pubblico.
Del pari necessario, ai fini di un più chiaro codice di linguaggio, è avere ben presente l’ambivalenza del significato che viene attribuito all’espressione «divieto di motivazione successiva». Giurisprudenza e dottrina, infatti, utilizzano il divieto di motivazione successiva sia come motivo di illegittimità che come causa di irrilevanza dell’atto integrativo. Ditalché l’atto integrativo nel primo caso è ritenuto processualmente e sostanzialmente produttivo di effetti giuridici, a prescindere da ogni considerazione sul suo contenuto di mera esternazione formale di motivi già ricavabili in via logica dagli atti del procedimento ovvero di esternazione di motivi nuovi e non tenuti presenti dall’Amministrazione. Nel secondo caso, l’atto integrativo, essendo irrilevante, comporta, per il giudice, il divieto ex officio di tenerne conto ai fini del sindacato di eccesso di potere, indipendentemente da una espressa impugnazione da parte del ricorrente.
La distinzione concettuale è utile al fine di una corretta interpretazione delle decisioni in subiecta materia, nonché al fine di isolare quelle che, in realtà, più che alla esternazione formale successiva in sé (intesa come mero atto), hanno riguardo al suo contenuto.
A questa stregua, tuttavia, ne esce svalutata la pretesa carica innovativa delle più importanti decisioni giurisprudenziali presentate come favorevoli alla ammissibilità della motivazione successiva (e perciò stesso in apparente controtendenza all’orientamento consolidato del «divieto»). Da tali decisioni, osservato il contesto del caso di specie preso in esame, emerge con evidenza trattarsi, in realtà, di ipotesi di successiva esternazione grafica di motivi già rilevabili (perché presenti) negli atti del procedimento.
In sostanza non essendovi enunciazione di motivi nuovi, ma mera descrizione di un fatto, queste ipotesi sono riconducibili alla nozione di giustificazione successiva (16).
L’ambivalente attribuzione di significati al cennato divieto di motivazione successiva, così come elaborato dalla giurisprudenza, porta con sé l’ambivalenza dei possibili riflessi processuali in caso di sua violazione.
A) Ritenere giuridicamente irrilevante (17) (tamquam non esset) la motivazione successiva – sia che il difetto di motivazione venga inteso come mera carenza grafica, sia che venga inteso come assenza di motivi e sintomo di sviamento) (18) – produce l’effetto di precludere al giudice di conoscere i motivi che hanno indotto l’Amministrazione ad emanare l’atto, poiché da questa dedotti soltanto nel corso del giudizio (19); sul piano processuale ciò postula l’assoluta irrilevanza del termine per impugnare l’atto integrativo.
B) Ritenere l’atto integrativo invalido produce l’effetto processuale dell’obbligo di impugnativa da parte dell’interessato. Ditalché, se non impugnato, detto atto si consolida, spiegando effetti diversi sul vizio di eccesso di potere a seconda che sia fatto valere come vizio formale (difetto di motivazione inteso come mera carenza grafica) ovvero come vizio sostanziale (difetto di motivi dedotti nel provvedimento e nel procedimento, da cui indurre lo sviamento e/o la manifesta illogicità-irragionevolezza), trattandosi di censure (formale e sostanziale) profondamente diverse tra loro (20).
In questa seconda ipotesi (efficacia invalidante della violazione del divieto) la motivazione successiva (atto integrativo), nei confronti del vizio formale di difetto di motivazione, assume i caratteri dell’atto amministrativo di sanatoria (21). Esso, al pari di ogni atto amministrativo, dispiega efficacia prescindendo dalla sua legittimità, così da profilarsi la necessità, per il ricorrente che denunci il difetto di motivazione, di impugnare con motivi aggiunti anche l’atto integrativo, sotto pena di rilevanza obbligatoria della motivazione successiva e conseguente sopravvenuta carenza di interesse a ricorrere anche per l’atto principale. Mentre, nel caso di vizio sostanziale (eccesso di potere per sviamento), l’atto integrativo fa sorgere l’obbligo, per il giudice amministrativo, di valutare se la motivazione successiva sia sostanzialmente irrilevante nei confronti della censura mossa dal ricorrente (che resta, pertanto, fondata) ovvero la smentisca (destituendola, così, di fondamento) (22). Sul piano processuale, l’efficacia invalidante comporta, in ogni caso, la stretta osservanza del termine decadenziale, a pena di sopravvenuta carenza di interesse ad ottenere la caducazione di un atto medio tempore integrato o modificato.
Da un attento esame della giurisprudenza sarà possibile enucleare, di volta in volta, la ricostruzione interpretativa seguita in sede decisionale.
Nella fattispecie concreta esaminata dalla, ormai famosa, decisione del T.A.R. Veneto, Sez. I, 10 giugno 1987, n. 648 (23), la ditta ricorrente aveva contestato il provvedimento di esclusione dalla gara di appalto deducendo unicamente il vizio di difetto di motivazione. Senonché l’Amministrazione, in corso di causa, adottava una delibera dichiarando espressamente di voler integrare il provvedimento impugnato esternandone le ragioni e indicandole nella mancanza di fiducia sulla capacità della ditta che, vincitrice di una precedente gara, aveva realizzato un progetto rivelatosi scarsamente funzionale.
La ditta ricorrente, anziché proporre motivi aggiunti o nuovo ricorso estendendo le proprie censure alla motivazione che l’Amministrazione aveva esternato a posteriori, si limitava ad eccepire l’irrilevanza dell’atto integrativo, invocando genericamente il noto principio dell’inammissibilità dell’integrazione ex post della motivazione.
Nell’analizzare il caso, il Collegio introduceva la distinzione tra integrazione della motivazione (nel senso di introduzione di motivi e/o ragioni sopravvenuti) e integrazione della «esternazione» della motivazione (nel senso di illustrazione-dimostrazione di «ragioni preesistenti e tenute in considerazione») per concludere che nel caso di specie non era vietato all’Amministrazione di provare l’inesistenza del vizio della funzione, indotto in via sintomatica e/o presuntiva dal sollevato difetto di motivazione formale, attraverso la produzione in giudizio di documenti, anteriori rispetto al provvedimento impugnato, comprovanti la effettività della preesistenza e legittimità di validi motivi di esclusione della ditta ricorrente dalla gara. Si desume, quindi, che nella prospettiva seguita dal T.A.R. Veneto, il difetto di motivazione sia stato ricostruito come sintomo di difetto di motivi (vizio della funzione) superabile mediante l’esibizione degli atti che hanno preceduto il provvedimento contestato, dai quali emergano i motivi non enunciati (c.d. principio della effettiva teleologia procedimentale) (24). Ne deriva che la successiva integrazione formale della esternazione della motivazione (rectius, dei motivi), più che produrre un effetto sanante sull’asserito vizio sostanziale della funzione (in realtà non necessario, attesa la provata sussistenza della preventiva ponderazione e legittimità dei motivi di esclusione), ha svolto un ruolo di mera chiarificazione delle autonome risultanze desumibili da un fatto probatorio autonomo ed autosufficiente (gli atti depositati in giudizio dall’Amministrazione).
Non è di poco momento considerare che, in realtà, il giudice ha ritenuto infondata l’implicita censura di eccesso di potere mercè l’esame diretto degli atti prodotti, in corso di causa, dalla P.A. a comprova della corretta valutazione preventiva delle ragioni idonee a fondare l’impugnato atto di esclusione dalla gara. Ciò vuol dire che la formale integrazione della esternazione della motivazione non ha svolto alcun ruolo giuridico autonomo nel giudizio sulla legittimità sostanziale dell’atto di esclusione.
Nell’economia della decisione il giudice, più che dare credito alla esternazione successiva della motivazione, ha escluso l’eccesso di potere mediante l’esame diretto degli atti del procedimento che, sebbene esibiti soltanto nel corso del giudizio, dimostravano la preesistenza della esplicitazione dei motivi che era, invece, mancata nel provvedimento successivamente adottato (25). La correttezza dell’impostazione seguita è corroborata, secondo il T.A.R. Veneto, dalla considerazione del venir meno, ad atto integrato, dell’interesse del ricorrente ad una decisione che non tenesse conto degli sviluppi processuali, dal momento che «all’Amministrazione dopo la sentenza non sarebbe precluso di riproporre l’atto con la motivazione che già allo stato la sorregge» (26). In altre parole, secondo tale giudice, un’ottica processuale statica, che guardi all’atto piuttosto che alla funzione, non produce un accrescimento delle garanzie e dei risultati perseguibili in sede processuale, ma una loro contrazione, posto che l’annullamento del provvedimento impugnato, visto come obiettivo, «lascia all’Amministrazione tanto più margine di movimento quanto minore è il sindacato della funzione che il provvedimento stesso consente e quanto minore è il contenuto in termini di accertamento costitutivo e di indirizzo vincolante che il giudice è in grado di esprimere in ordine alla pretesa sostanziale» (27).
Nell’ambito della dottrina (28) che si è occupata della sentenza testé analizzata manca, a nostro avviso, una confutazione plausibile dell’affermazione di principio resa dal T.A.R. Veneto, architrave della impostazione sostanzialistica dell’intera decisione, secondo cui non è «assiomatico il collegamento tra l’immutabilità dell’atto e la pienezza delle garanzie di difesa del cittadino», non essendovi, in realtà, «nessun principio che in qualche modo stabilisca che i poteri dell’Amministrazione debbano restare paralizzati in dipendenza dell’esercizio da parte dei cittadini dei rimedi di tutela amministrativa e giurisdizionali contro precedenti provvedimenti amministrativi».
La considerazione che non è precluso all’Amministrazione di riproporre l’atto con motivazione identica a quella risultante dall’integrazione successiva, svuota di fondamento la critica secondo cui il difetto di motivazione non possa leggersi, semplicemente, come sintomo di eccesso di potere, ma vada «? interpretato come violazione di quella norma implicita che impone all’Amministrazione di predisporre gli strumenti necessari all’attuazione del sindacato di legittimità» (29). Secondo la dottrina in commento «il concetto di motivazione, come tramite di rilevazione del vizio sostanziale, è infatti superato qualora si attribuisca all’esposizione dei motivi il valore di requisito formale condizionante la legittimità dell’atto in termini di violazione di legge».
Essa si basa sul non condivisibile assunto che la sanatoria in corso di processo del vizio formale di difetto di motivazione incida negativamente sulle potenzialità difensive del ricorrente. Non considera, tuttavia, la sostanziale inutilità di un processo che, pur vedendo il ricorrente vittorioso, non possa impedire alla P.A. di rieditare l’atto inserendovi quella motivazione ritenuta non sanante solo perché esternata in corso di giudizio. Non considera, altresì, la non trascurabile utilità (in termini di effettività della tutela) di un processo che, ammettendo l’immediata proponibilità di motivi aggiunti ovvero di autonomo ricorso avverso l’eventuale atto integrativo della motivazione (ovvero avverso l’eventuale atto di riesercizio del potere), consentirebbe di anticipare in un unico giudizio (estendendone l’oggetto) un più esteso sindacato della funzione. Ne risultano, così, ampliati i limiti oggettivi del giudicato e, di conseguenza, ridotti i margini di riadozione dell’atto, da parte dell’Amministrazione, dopo la sentenza.
La riflessione sviluppatasi sul tema della motivazione successiva sembra oscillare tra due poli: il primo, favorevole alla figura, nell’intento di evitare l’emanazione di sentenze inutili e la duplicazione dei ricorsi (fenomeni fisiologici in un sistema che conserva intatto il potere della P.A. di disporre sul merito del rapporto sostanziale che la contrappone al privato ricorrente, anche dopo la sentenza di annullamento per difetto di motivazione); il secondo, contrario, in forza dell’idea di fondo che una reale tutela sostanziale del ricorrente si accordi ad un’esigenza di accrescimento e non di contrazione delle garanzie e dei risultati perseguibili in sede processuale.
Occorre precisare, tuttavia, che il dibattito in materia, ancora una volta, non mette a fuoco la distinzione tra motivazione successiva intesa come esternazione grafica di motivi dedotti (già ricavabili dal procedimento) e motivazione successiva come esternazione di motivi non dedotti (nuovi).
Più in particolare, le principali ragioni a sostegno della inammissibilità della motivazione successiva sono le seguenti:
a) l’eliminazione della motivazione enunciativa, in quanto surrogata dalla intrinseca giustificabilità dell’atto, annienterebbe la caratteristica peculiare della polifunzionalità della motivazione (intesa come strumento di conoscenza per il ricorrente, per la comunità dei cittadini ai fini del sindacato di opinione pubblica, e al giudice che non sempre può avvalersi della cognizione diretta);
b) la necessità di assicurare il rispetto del principio costituzionalmente garantito di parità delle parti nel processo amministrativo, non può giustificare una posizione privilegiata all’Amministrazione tale da consentirle di «aggiustare il tiro» una volta che siano state proposte le varie censure. Il ricorrente avrebbe, in sostanza, impugnato un atto che potrebbe rivelarsi, poi, pienamente legittimo allorché l’Amministrazione adducesse i motivi posti a suo fondamento, in precedenza non dedotti;
c) l’esistenza, sul piano processuale, del principio della non sanabilità in corso di causa degli atti impugnati.
La principale critica cui si espongono i primi due argomenti è che il divieto di integrazione della motivazione e la conseguente pronuncia di natura meramente cassatoria, non precludono all’Amministrazione di reiterare lo stesso provvedimento con la medesima motivazione, questa volta contestuale.
Inoltre, è stato osservato che sono argomenti di per sé sufficienti per ritenere non violato il principio di parità delle parti nel processo amministrativo:
a) la possibilità di proporre ricorso per motivi aggiunti od autonomo ricorso (a seconda che si tratti di atto meramente integrativo o di atto formalmente autonomo) avverso il provvedimento con il quale viene integrata la motivazione;
b) ovvero (nell’ipotesi in cui il provvedimento sopravvenuto determini la cessazione della materia del contendere) la facoltà per il ricorrente di agire per il risarcimento dei danni nei confronti del funzionario responsabile.
In ordine al principio di insanabilità dell’atto in corso di causa si è obiettato, infine, che nell’ordinamento vigente non vi sono norme contrarie alla sanatoria; anzi, dall’art. 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249, che consente di sanare con efficacia retroattiva l’atto viziato di incompetenza relativa – ancorché quest’ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale o amministrativo pendente – utilizzando l’argomento a simili, si è desunta la vigenza dell’opposto principio della generale sanabilità.
Del resto, la stessa giurisprudenza amministrativa, sia pure non unanimemente, riconosce in generale il potere della P.A. di procedere alla convalida e/o rinnovazione dei propri atti nel corso del giudizio.
Ciò, peraltro, è coerente con il principio generale che l’autorità di amministrazione attiva (a differenza dell’autorità di controllo) non esaurisce il proprio potere con l’emissione dell’atto; né, comunque, la proposizione di un ricorso contro l’atto emesso può precludere all’autorità stessa di esercitare quel potere, specie allorché (come avviene nel caso di difetto di motivazione) sia stato esercitato in maniera incompleta.
Approfondendo quest’ultimo profilo, che si lega al tema dell’indefettibilità e continuità della funzione amministrativa, in stretta applicazione del principio di economia dei mezzi giuridici, va evidenziato che, secondo il filone giurisprudenziale sostanzialista, «Il principio del diritto all’annullamento dell’atto da parte del ricorrente che ha ragione deve essere armonizzato con quello di indefettibilità e continuità della funzione amministrativa, nonché con quello di economia dei mezzi giuridici, con riferimento diretto al divieto di integrazione motivazionale, attuato attraverso scritti difensivi provenienti dall’Amministrazione intimata, ma non al caso della motivazione integrativa derivante da successivi atti di riesercizio della funzione».
È stato chiarito che le fattispecie procedimentali di riesame, derivate da un provvedimento cautelare sollecitatorio del giudice, devono essere assimilate, sul piano ontologico, agli atti di rinnovazione del procedimento, che possono essere discrezionalmente posti in essere in sede di autotutela relativamente ad un atto impugnato.
In un caso di specie, deciso dal T.A.R. Campania, Sez. I, 9 novembre 1995, n. 402, era accaduto che il provvedimento di revoca impugnato in sede giurisdizionale, seguito da specifico ordine impartito dal giudice alla P.A. di riesame del «rapporto controverso tenendo conto anche delle censure di ricorso e compiendo tutti gli atti istruttori» ritenuti necessari, fosse stato successivamente confermato nel contenuto con rinnovata motivazione. Senonché il ricorrente impugnava il provvedimento di conferma sollevando la censura di inammissibile ampliamento della carente motivazione del provvedimento confermato e già impugnato.
Il T.A.R. Campania dichiarava infondata la censura fissando il principio che il giudice «? – non potendo sostituire le proprie valutazioni a quelle degli organi competenti – ben può imporre, nel rispetto dei principi che indirizzano lo svolgimento della funzione giurisdizionale, ulteriori adempimenti istruttori, ovvero ordinare il riesame della fattispecie alla luce delle censure dedotte in ricorso a seconda dei casi e delle necessità».
Nell’ipotesi della rinnovazione del procedimento, che porti al riesame degli atti alla luce dei rilievi introdotti dal ricorrente, con esito di conferma del precedente provvedimento, non si realizza un inammissibile ampliamento della motivazione del provvedimento impugnato, «in quanto in tale fase ciò che conta è la fondatezza sul piano sostanziale sia delle ragioni originarie addotte; e sia di quelle eventualmente emerse in seguito ad ulteriori accertamenti istruttori ? Il nuovo provvedimento non costituisce pertanto uno sviatorio tentativo dell’Amministrazione di correggere un precedente provvedimento, ma è una nuova manifestazione di volontà, emanata su ordine del giudice amministrativo in seguito ad un’istruttoria interamente rinnovata».
In altro caso deciso dal Consiglio di Stato, la rinnovazione in corso di giudizio dell’atto impugnato si è avuta su iniziativa dell’Amministrazione, la quale ha ritenuto opportuno esercitare i suoi poteri di autotutela, poiché in sede di rilascio di nulla osta regionale all’apertura di grande struttura commerciale, l’atto era affetto dal vizio di difetto di motivazione. Senonché la Regione, avvedutasi del vizio formale, decideva in corso di causa di annullare d’ufficio l’atto viziato e contestualmente di rinnovare l’esercizio del potere mediante emanazione di nuovo nulla osta debitamente motivato.
Alla censura specifica sollevata dal ricorrente-controinteressato, secondo cui l’intento perseguito dall’Amministrazione sarebbe stato di realizzare surrettiziamente i presupposti e gli effetti della convalida dell’atto viziato, al di fuori dei limiti consentiti dall’unica ipotesi normativamente prevista ex art. 6 della legge n. 249/68 – così alterando il rapporto di parità tra le parti del processo – il giudice di appello replicava che «l’Amministrazione può rinnovare l’atto in corso di giudizio quando è stato impugnato per mero vizio di forma», in quanto, se così non fosse, «sarebbe costretta ad attendere l’annullamento dell’atto per rinnovare solo a quella data il procedimento e per finalmente emanare un secondo atto emendato dal vizio formale, con intollerabile appesantimento della sua azione e frustrazione delle aspettative degli interessati». Detta possibilità di rinnovazione per vizi di forma si riteneva «coerente con il principio di efficienza ex art. 97 Cost. e con l’effettività della tutela della pretesa dedotta in giudizio».
Ulteriore espressione dell’orientamento favorevole all’integrazione della motivazione in corso di giudizio, in osservanza del principio di autotutela, è contenuta in una recente decisione del T.A.R. Lazio secondo cui sarebbe illogico non riconoscere alla P.A., quando abbia riscontrato l’illegittimità del proprio operato (e benché sia pendente al riguardo un giudizio), il potere-dovere di intervenire per porvi rimedio, allo scopo di circoscrivere, così, la propria eventuale responsabilità e limitare possibili danni per l’erario (30).
Dalla lettura della giurisprudenza citata si ricava il principio che, in realtà, la mera pendenza di un’impugnativa non possa arrestare l’esercizio del potere di Amministrazione attiva della P.A., che, per vero, e ciò non è mai stato considerato abbastanza, neppure il giudicato può arrestare.
In tal caso non di mera sanatoria di vizio formale si tratta, quanto di emanazione di nuovi provvedimenti sulla scorta di nuove valutazioni (ponderazioni) dell’interesse pubblico (motivi nuovi). Se così è non si vede perché si debba ridurre il tema della motivazione successiva (e/o integrativa) alla mera sanatoria processuale del difetto di motivazione formale, quando invece dalle risultanze giurisprudenziali emerge una dimensione sostanziale del fenomeno di portata più ampia e assolutamente autonoma, nel cui ambito ciò che viene in rilievo preminente è il riesercizio della funzione e non già una successiva enunciazione formale della motivazione.


Acclarato che la successiva formale esternazione di motivi già rilevabili dalle risultanze procedimentali rientra nel più semplice e ammissibile fenomeno della mera chiarificazione, ne rimane che la figura della motivazione successiva induce a focalizzare l’interesse dommatico sul suo rapporto con le fattispecie di riesercizio del potere di amministrazione attiva. Soltanto nella prospettiva di una rinnovata ponderazione dell’interesse pubblico sarà utile e necessario stabilire se l’amministrazione, con l’integrazione della motivazione, ponga in essere uno sviatorio tentativo di correggere un precedente provvedimento viziato per difetto di motivi o, invece, manifesti una nuova volontà in seguito ad una rinnovata istruttoria.
Volendo ora valutare il principio di cui al primo punto in esame (31) alla luce delle considerazioni svolte non può sottacersi che nella fattispecie reale esaminata dal TAR Puglia, più che di difetto di motivazione attinente all’esercizio di un potere discrezionale, si è trattato di una mancata esternazione di mere ragioni giuridiche in seguito alla mera interpretazione della legge e /o comunque della normativa edilizia comunale.


Il Comune nell’esercitare il suo potere di controllo sulla legittimità della dia, – alla stessa stregua del controllo di legittimità in passato esercitato dai comitati regionali di controllo – non esercita alcuna attività discrezionale che debba essere sorretta da ampia motivazione idonea a rendere conto delle ragioni delle scelte, ma svolge un’attività vincolata al riscontro della conformità dell’intervento costruttivo alla normativa che lo regola; ne consegue che, ai fini della sufficienza della motivazione, non è necessario che si esternino analiticamente le ragioni dell’eventuale inammissibilità della dia, essendo, invece, sufficiente che si possa oggettivamente evincere il contrasto tra l’attività controllata e il parametro normativo indicato dall’organo comunale. Invero, il provvedimento di diffida impugnato contestava genericamente all’interessato che “l’intervento edilizio non rientrava tra quelli previsti ai sensi della legge n. 662 del 23/12/1996, art. 2 comma 60”. Detta contestazione, a nostro avviso, si risolveva nell’implicita rilevazione, frutto di mera interpretazione, che le opere di cui alla d.i.a. non integrassero, rispetto alla concessione edilizia, neppure una delle previsioni normative ammesse al regime derogatorio della d.i.a. Si è parlato di difetto di motivazione, ma in realtà si è trattato di motivazione implicita desumibile dall’esternazione dei presupposti di fatto.


Stando così le cose, nella specie vale l’insegnamento della dottrina più antica (PRESUTTI) secondo cui la motivazione “non in altro è necessario consista che nella esposizione delle circostanze di fatto, in vista delle quali l’amministrazione emana l’atto. La dimostrazione del concatenamento logico fra questi fatti e l’oggetto del provvedimento in base alla norma giuridica, è perfettamente inutile. E’ cioè perfettamente inutile che nel provvedimento sia esposta l’argomentazione in base a cui si dimostri l’esattezza dell’accolta interpretazione della norma giuridica, e della fatta applicazione della norma alle circostanze di fatto. Ciò perché chi sindaca l’atto può, obbiettivamente considerando tali questioni e prescindendo onninamente dalla dimostrazione eventualmente contenuta nell’atto sottoposto al suo sindacato, vedere se effettivamente gli assunti presupposti di fatto giustificano la emanazione del provvedimento. Qualunque errore si contenga nella dimostrazione di questo nesso non potrà impedire di constatare che questo nesso vi è, se effettivamente sussiste (32).
Ed, in effetti, è proprio ciò che ha fatto il TAR Puglia, che, alla fine, si è spinto a valutare, del tutto autonomamente, se i presupposti di fatto emergenti dal progetto edilizio giustificassero o no il provvedimento di divieto alla luce delle chiare e vincolate fattispecie normative di cui all’art. 2, comma 60 della legge n. 662/96.


3.- L’inutilità dell’annullamento per vizio formale di difetto di motivazione
Gli approdi della dottrina e della giurisprudenza sulla natura del vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, in linea di massima, ormai consapevoli della inutilità sostanziale del vizio, finiscono per confermarne la natura formale e l’ammissibilità della rinnovazione dell’atto annullato, munito della enunciazione motiva (33). Ciò nell’unanime e condiviso convincimento che il vizio di difetto di motivazione, inteso come carenza grafica del documento, sia inidoneo ad offrire tutela effettiva nei casi di lesione di un interesse legittimo pretensivo, oltre che nei casi di ricorso proposto per la tutela di un interesse legittimo oppositivo, dove, è noto, l’eliminazione dell’atto, nella mera ottica processuale, pur sufficiente, in apparenza, a restituire al ricorrente il bene della vita sacrificato dalla P.A. con l’atto impugnato (34), sempre che l’esecuzione del provvedimento di poi annullato non abbia già prodotto sul piano fattuale modificazioni irreversibili (35), non sottrae l’interesse oppositivo alla sicura quanto necessaria prospettiva giuridica che, in osservanza del principio dell’irrinunciabilità del potere (36), la P.A. debba reiterare l’atto, munendolo di regolare motivazione, ovvero possa spontaneamente adoperarsi per l’eliminazione del vizio in sede di autotutela mediante sanatoria e/o riesercizio del potere in corso di causa (37). Nè vale opporre che per gli interessi oppositivi residui in ogni caso l’eventualità che la P.A. non riemani l’atto per sopravvenute valutazioni, ovvero che l’annullamento giurisdizionale per vizio della motivazione renda spesso concretamente non riadottabile il provvedimento caducato, specie allorquando il difetto o insufficienza dell’enunciato motivante “…ridondi in erroneità od inconferenza dei motivi indicati, e questi costituiscano le effettive ragioni del provvedere(38), in quanto ciò, non attenendo alla sfera dei risultati del processo, ma al campo del normale esercizio del potere amministrativo, sarebbe un mero effetto pratico dell’annullamento e non già giuridico. Anzi, l’unico effetto giuridico ipotizzabile ne rimarrebbe l’incontestabilità di eventuali vizi sostanziali non sollevati nei termini dal ricorrente e che, a situazione immutata, dovrebbero obbligare la P.A. a riadottare l’atto annullato con il medesimo contenuto, ferma restando la doverosità del riesercizio del potere in conseguenza dell’annullamento.


Proprio con riferimento al profilo ordinatorio della sentenza amministrativa di annullamento che tocchi un atto positivo sfavorevole (incidente su un c. d. interesse meramente oppositivo) è stato osservato che “annullato l’atto di espropriazione, il ricorrente può vedere forse in ciò la soddisfazione del suo interesse, ma , salvo il caso in cui sia stata travolta la stessa pubblica utilità, all’amministrazione spetterà comunque il compito di trovare una via per realizzare l’opera(39). In sintesi l’interesse materiale del privato non esce indenne dalla vicenda sopraesaminata, “giacchè esigenze di certezza giuridica dei rapporti renderebbero conveniente per il regolamento dei propri interessi la preventiva conoscenza della sussistenza o meno di ragioni sostanziali di legittimità o illegittimità in ordine al fissaggio degli interessi operato dalla P.A. con il provvedimento, al fine di impedire quella gravosa situazione di pendenza derivante dalla possibilità che il bene, che si reputava scampato, venga successivamente sottratto alla propria sfera giuridica(40). “Il proprietario espropriato, ad esempio, non è soddisfatto soltanto dal mero annullamento dell’atto di espropriazione, ma anche dalla garanzia che tale provvedimento non possa essere più reiterato in futuro” (41).


Non a caso la dottrina e la giurisprudenza più sensibili alla richiesta di giustizia sostanziale che proviene dal processo hanno efficacemente avvertito che “se il giudice si limita ad annullare l’atto, impugnato anche per motivi sostanziali, per i vizi meramente formali o per difetto di motivazione, senza penetrare in che senso questi vizi nascondano un’illegittimità sostanziale, compie un atto di denegata giustizia(42).


L’annullamento da parte del giudice amministrativo degli atti impugnati per difetto di motivazione è soluzione residuale alla quale il giudice adito è legittimato a ricorrere solo quando non ha la possibilità di definire il merito della controversia, giacché, recando implicita la clausola di salvezza degli ulteriori provvedimenti da parte dell’amministrazione con il solo limite del clare loqui, costringe quest’ultima a un defatigante rinnovo di attività procedimentale senza peraltro soddisfare compiutamente le ragioni di sostanza del privato ricorrente(43).


Se questa impostazione è valida, riteniamo che il problema affacciato da autorevole dottrina del valore formale o sostanziale della lacuna nella motivazione sia in fondo un falso problema, completamente superato dal carattere pregiudiziale della ben più pregnante questione dell’idoneità del giudizio amministrativo ad allargare i profili di accertamento del rapporto, che, a loro volta, sono diretta conseguenza della capacità delle figure dell’eccesso di potere e della violazione di legge (attraverso il sindacato diretto sui presupposti di fatto complessi) di orientare direttamente, indirettamente e strumentalmente la scelta discrezionale.


La dottrina in questione si è posta il problema di fondo che la p.a., una volta annullato l’atto per difetto di motivazione, in sede di esecuzione del giudicato, potesse riadottarlo con il medesimo dispositivo, munendolo di motivazione.


E’ stato prospettato, infatti, che i vizi attinenti alla motivazione possono sostanziarsi in un’incompletezza del documento o venire in evidenza come sintomi di un’imperfezione del processo di formazione della volontà: avendosi nel primo caso meri vizi formali, mentre nel secondo dovendosi intendere la lacuna formale come spia di un vizio sostanziale (44). Questa schematizzazione, pur autorevole, non offre però un efficace ausilio a chi in concreto debba fissare il “valore” (sostanziale o formale) attribuibile alla lacuna nella esternazione motiva (45); più in particolare ci sembra che nella definizione del NIGRO, della motivazione insufficiente come “mancata esternazione della ponderazione dell’interesse essenziale predeterminato dalla norma(46), sia stata considerata un’ipotesi (l’atto amministrativo che “valuta altri interessi, ma non quello essenziale, o non valuta nel modo o nel grado voluti dalla norma l’interesse essenziale“) (47) che, a nostro modo di vedere, più che una difettosa motivazione, integri gli estremi della motivazione corretta che riveli motivi insufficienti e/o difettosi (si confonde cioè il difetto dei motivi che appare nella motivazione con quello della motivazione) (48).


In sostanza il NIGRO scambia il difetto dei motivi con il difetto della motivazione, venendo così a costituire una sorta di nesso logico-giuridico secondo cui al difetto formale deve corrispondere un difetto sostanziale dell’atto. Esattamente l’opposto dell’insegnamento della dottrina più antica secondo cui se “c’è un vizio della motivazione esso attiene soltanto all’esposizione dei motivi, non intaccando questi ultimi, che sotto questo aspetto devono essere legittimi, altrimenti sarebbero viziati essi medesimi, non la motivazione(49). Orientamento, quest’ultimo, nella sostanza mantenuto fermo da quella dottrina che, riaffermando l’effetto necessario della motivazione di rendere sindacabili in sede di legittimità i motivi secondari addotti, ha evidenziato che “come regola generale, tuttavia, il controllo dell’atto per quanto attiene ai motivi è distinto, e anzi separato, da quello che attiene alla motivazione(50). Spesso si è confuso e si confonde tra obbligo del motivo specifico e obbligo di motivazione. Una corretta distinzione concettuale delle due figure consente di eliminare pericolose confusioni, che hanno dato origine a massime giurisprudenziali e ad opinioni dottrinali favorevoli a sindacare sotto il profilo del difetto di motivazione l’illegittimità dei motivi che risultano, invece, completamente indicati (51).


Il punto è dirimente: ravvisandosi nel difetto di motivazione enunciativa una causa autonoma di invalidità dell’atto, non le si potrà ricollegare l’inesistenza dei motivi non esternati nell’atto, trattandosi di causa di invalidità logicamente e giuridicamente ben distinta da quella concretantesi nel difetto dei motivi che si sarebbero dovuti esternare (52).


Sotto questo profilo viene in evidenza l’assoluta inutilità giuridica di muovere censura ad un atto per mero difetto di motivazione, che ove ritenuta fondata, si potrà senz’altro rinnovare col medesimo dispositivo, purchè munito di corredo motivo, senza rappresentarsi la necessità di anteporre una censura logicamente e sostanzialmente preliminare: l’eccesso di potere per sviamento, per difetto di motivi e per manifesta illogicità e/o irragionevolezza della scelta discrezionale. Ogni qual volta facesse valere una censura di carattere sostanziale, il ricorrente otterrebbe una sorta di inversione dell’onere della prova: la P.A. avrebbe l’onere di fornire gli elementi documentali della sussistenza dei motivi, del corretto perseguimento dell’interesse pubblico specifico, della non illogicità e/o irragionevolezza della scelta. In difetto, sarà il Giudice a cercarli ex actis per adempiere al suo dovere di giudicare sui motivi di ricorso proposti. E’ stato perspicuamente osservato come sembri difficile negare che “il Giudice finisce ancor oggi con il considerare non meritevole di annullamento per difetto di motivazione, il provvedimento, pur scarsamente motivato, che gli appaia nella specie sostanzialmente giustificato, mentre il Giudice stesso perviene invece ad una decisione di annullamento, quando lo fa, non per la riscontrata assenza di una formale manifestazione di motivi, ma perché nella specie non gli è comunque possibile convincersi della rispondenza del provvedimento agli scopi di legge e della ragionevolezza dell’iter seguito(53).


Secondo l’indirizzo dottrinale che tende al superamento del modello cassatorio del processo amministrativo per aprire la strada al giudizio sul rapporto, aspetto della più ampia tendenza a promuovere il c.d. “polo dell’effettività della giustizia amministrativa” (54), occorre porre l’accento sulla necessità che il sistema processuale risponda nei fatti all’esigenza di tutela delle ragioni del cittadino ricorrente. L’ambito sostanziale della tutela ottenibile dal giudice, può essere ampliato mercè una più larga conoscenza diretta del fatto (55) ed un conseguenziale più esteso accertamento, sia pure nei limiti strettamente necessari alla cognizione dei vizi sostanziali dedotti (56), da cui scaturiscano precisi vincoli conformativi in caso di ulteriore esercizio del potere dopo il passaggio in giudicato della sentenza (57). Non va trascurato, infatti, che uno dei problemi veramente centrali del sistema di giustizia amministrativa è proprio il coordinamento tra il giudizio di legittimità e quello di ottemperanza, soprattutto in un’ottica volta a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale secondo le previsioni dell’art. 24 Cost. (58).


La necessità di assicurare al cittadino una tutela effettiva, mediante l’elaborazione di soluzioni ricostruttive che, senza percorrere sentieri astratti dalla storia, pur innovando, rimangano però compatibili con i principi e la struttura del sistema vigente (59) induce ad estendere la portata dei vincoli posti in capo alla P.A. per effetto della sentenza di accoglimento del ricorso, sì da scongiurare il pericolo che il risultato favorevole ottenuto dal ricorrente possa essere pregiudicato attraverso l’emanazione di un nuovo atto amministrativo di identico contenuto, rispetto a quello annullato (60). E ciò, soprattutto, consentendo al cittadino di ottenere effettività di tutela allorchè si imbatta in un rifiuto di provvedimento ampliativi, posto che i c.d. interessi legittimi oppositivi, nell’ambito del processo di tipo cassatorio, è stato detto, sono “oltremodo protetti” (61).


Per corrispondere al fine, la dottrina è partita dal convincimento che l’effettività della tutela del cittadino dipenda, prima ancora che dai rimedi apprestati dall’ordinamento in caso di inottemperanza alla sentenza, dalla soluzione del problema del giudicato amministrativo, e che soltanto l’individuazione dei limiti oggettivi del giudicato amministrativo – cioè i limiti oggettivi di efficacia della sentenza- consenta di tracciare (62) in negativo i limiti che dovrà incontrare il potere amministrativo nel ridisciplinare la fattispecie concreta (63) che abbia dato origine alla pronuncia giurisdizionale (64), “il che è quanto dire che l’ambito di legittima rinnovazione dell’esercizio del potere è segnato inderogabilmente dalla portata della pronuncia(65).


Per aversi risultati puntuali e satisfattivi in sede di ottemperanza occorre la premessa di una cognizione completa, poichè la mancata o inesatta esecuzione della sentenza passata in giudicato, più che da atteggiamenti dell’amministrazione poco rispettosi dell’ideale della legalità, dipende “da incertezze obiettive in ordine al contenuto precettivo e agli effetti della sentenza pronunciata dal giudice amministrativo in sede di cognizione (66), non risolvibili, peraltro, attraverso ricostruzioni del giudizio di ottemperanza come <prosecuzione del giudizio amministrativo>, tese a recuperare nella fase esecutiva le deficienze e carenze della fase di cognizione (67). Di qui la realistica tendenza della riflessione teorica che, facendosi carico dell’insufficienza del modello processuale meramente cassatorio, indica, come rimedio praticabile per il potenziamento della tutela delle posizioni di interesse materiale del ricorrente l’ampliamento della portata cognitoria e decisoria del giudizio di legittimità (68). Nell’ambito di questa tendenza si collocano le varie teoriche che privilegiano gli aspetti accertativi del giudizio di annullamento, con conseguenziale capovolgimento logico giuridico dell’assetto tradizionale che ha ricostruito l’annullamento dell’atto come unico petitum naturale del ricorso.


Secondo la visione tradizionale il conseguimento del bene, la soddisfazione dell’interesse materiale finale, viene ricostruito come l’effetto indiretto dell’azione processuale. Viceversa, secondo l’ottica innovativa accennata, è necessario aprire ad “una nuova realistica visione che fa dell’attribuzione (conservazione e/o acquisizione) di un bene giuridico il normale e naturale petitum del ricorso rispetto al quale appaiono momenti successivi, conseguenziali e strumentali all’accoglimento, sia l’annullamento, sia – ancor prima – la stessa conoscenza del provvedimento(69). Questa linea di pensiero, muovendosi nel solco teorico tracciato da chi sostiene che “l’obiettivo ultimo non è l’annullamento dell’atto, ma il c.d. effetto conformativo che segue al formarsi del giudicato(70), postula il rovesciamento dell’ordine tradizionale tra effetti ripristinatori e conformativi, subordinati (logicamente e cronologicamente) a quelli eliminatori, per arrivare a forme di tutela della situazione materiale di interesse che prescindano dall’eliminazione dell’atto (71), atteso che, come è stato autorevolmente notato, “l’annullamento è misura giuridica che, considerata in sè stessa, è insuscettibile di esecuzione, perchè opera sul piano strettamente giuridico della validità degli atti (72).


Le tesi in discorso, però, per quanto interessanti, sembrano in qualche misura accomunate dal medesimo implicito presupposto: ritenere estranea alla sfera di accertamento nel giudizio ovvero al contenuto del c.d. risultato sostanziale conseguibile nel giudizio di legittimità, l’area della c.d. discrezionalità. A quest’ultima, invero, vengono dedicati fugaci spunti che non vanno oltre l’auspicio di un generico ampliamento del parametro della legittimità. E ciò attraverso l’individuazione di nuove figure di eccesso di potere tali da consentire al giudice amministrativo un sindacato più penetrante dell’attività amministrativa, che affranchi il giudizio di legittimità dall’essere povero di accertamenti vincolanti (73).


L’obiettivo di arricchire il processo di accertamenti vincolanti è stato perseguito mediante la formulazione di svariate proposte ricostruttive riconducibili essenzialmente alla tesi del potenziamento del potere giudiziale di penetrare il fatto. A ben guardare, però, la maggiore penetrazione del fatto, muovendosi nel solco operativo del mero sindacato per eccesso di potere di tipo c.d. indiretto è poca cosa rispetto alla più generale soluzione di affrancare i fatti proprio dal sindacato indiretto. I c.d. fatti complessi dovrebbero ricondursi sotto la nozione dei c.d. concetti giuridici indeterminati, che consentirebbero al giudice di trattare nella guisa di un “fatto”, aspetti che ad oggi sono considerati alla stessa stregua di valutazioni di merito. Ciò comporterebbe l’erosione dell’area della discrezionalità insindacabile.


Di conseguenza – posto che la forte influenza esercitata dalla “potestà” nel rapporto con l’interesse legittimo [nel senso illustrato da GIANNINI (74), ossia della mancanza nell’interesse legittimo del “potere decisionale di fondo circa l’interesse giuridicamente protetto, che spetta al titolare della potestà(75)] costituisce ostacolo, sul piano sostanziale, alla integrale “soggettivazione” dell’oggetto del processo amministrativo (76) – la prospettiva interpretativa più valida dovrebbe muoversi nella seguente direzione: a) allargare il sindacato diretto nel senso cennato; b) isolare gli aspetti di stretta valutazione di opportunità amministrativa, per sottoporli ad un sindacato sostanziale di eccesso di potere sotto forma di “ragionevolezza-contenuto”, vale a dire verificare che il principio di ragionevolezza dell’agire amministrativo sia stato sostanzialmente ed effettivamente applicato, diversamente dall’ipotesi della “ragionevolezza-enunciato”, descritta dalla dottrina come ragionevolezza meramente enunciata al fine di motivare l’atto (dare all’atto la parvenza della ragionevolezza, tramite un’adeguata e scaltra motivazione), sì da potersi avere il caso che alla ragionevolezza-enunciato non faccia riscontro la ragionevolezza-contenuto e viceversa (77).


Ancora, sulla scia delle decisioni che hanno stabilito che l’interesse giustificativo la proposizione del ricorso “..non si concentra unicamente sul risultato formale dell’annullamento dell’atto impugnato, ma include tra le sue componenti anche l’affidamento in ordine alle attività che, in esecuzione del giudicato, l’amministrazione è tenuta o è facultata a svolgere e dalle quali potrà derivare il soddisfacimento dell’interesse sostanziale(78), appare condivisibile la proposta di incidere sull’interesse a ricorrere per poter sottrarre gli atti agli annullamenti per vizi formali ogni qualvolta non si prospetti anche un vizio sostanziale in comune con la rappresentazione di idonee ipotesi alternative del provvedere, già introdotte nel procedimento, oppure non introdotte per mancata comunicazione di avvio o per libera scelta, e ciò al precipuo scopo di far emergere pienamente il ruolo del Giudice amministrativo come quello del Giudice del potere esercitato in vista del potere da esercitare (79).


La rappresentazione di idonee ipotesi alternative del provvedere da parte del ricorrente è, a nostro avviso, lo strumento processuale idoneo che può far superare il problema dell’incompletezza del vincolo che residua in capo alla P.A. dopo il passaggio in giudicato della sentenza (80), e che si spiega in base al motivo che il vincolo (e/o regola sulla futura azione amministrativa) “riguarda solo tratti di azione amministrativa sottoposti all’esame del Giudice e, quindi, vincola direttamente soltanto questi stessi tratti in quanto debbano o possano ripresentarsi nell’azione amministrativa successiva (81).


Dal punto di vista seguìto, la dottrina, nel porsi il problema dell’effettività della tutela giurisdizionale di fronte all’annullamento di un atto per un vizio formale, è pressoché unanime nel ritenere che la sentenza di annullamento non possa comportare alcuna disciplina diretta o indiretta del rapporto amministrativo, in guisa che la pubblica amministrazione sarà completamente libera da vincoli conformativi derivanti dal giudicato nell’ulteriore gestione del rapporto stesso (82). Ciò in quanto l’atto annullato per vizi di forma si può riprodurre con immutato contenuto (83).


Tale constatazione ha indotto la dottrina a formulare la tesi che, in difetto della possibilità oggettiva di aspirare ad un provvedimento con contenuto diverso da quello impugnato per vizio formale, potrebbe, addirittura, configurarsi un’ipotesi di difetto di interesse a ricorrere per carenza di pregiudizio e/o lesione di un interesse comunque protetto (84).


La Giurisprudenza, dal canto suo, ha avuto occasione di pronunciarsi in analogo senso.


Si è ritenuto che le violazioni delle norme procedimentali (che non siano, naturalmente, quelle relative alle competenze e agli interventi dei vari organi), “…intanto producono l’illegittimità del provvedimento finale in quanto producano lesione degli interessi sostanziali, alla cui tutela la disciplina del procedimento e del provvedimento è preordinata; e, correlativamente, non sono ammissibili motivi di censura del provvedimento, con i quali si alleghino mere irregolarità procedurali senza neppure adombrare che da esse sia derivata lesione della normativa sostanziale del settore(85).


Visto in positivo, l’interesse a ricorrere, e, quindi, l’interesse ad ottenere l’annullamento dell’atto, è stato riconosciuto “anche quando l’amministrazione abbia proceduto all’annullamento d’ufficio dell’atto impugnato, ove l’atto di autotutela si fondi su vizi di motivazione o di forma, restando inalterata la possibilità di emanare altro atto di medesimo contenuto di quello gravato depurato degli anzidetti vizi…” (86). E’ stato ritenuto procedibile il ricorso volto all’annullamento del diniego di autorizzazione al trasferimento di un distributore di carburante, pur se nelle more del giudizio l’amministrazione aveva revocato il provvedimento allo scopo di regolarizzare la carenza di motivazione e altri vizi di forme, con espressa riserva di adottare altro provvedimento di diniego, depurato da tali vizi, avuto riguardo alla natura non satisfattiva per il ricorrente dell’atto di autotutela emanato.


Su questa linea evolutiva sembra attestarsi anche la dottrina, contraria all’ammissibilità del ricorso che denunci soltanto vizi formali, senza, nel contempo, profilare, neanche potenzialmente, una diversa soluzione dell’affare. Si è sostenuto, infatti, che “un provvedimento amministrativo in qualche parte contrario alla norma, che sia tuttavia sostanzialmente ben fondato in legge e che quindi realizzi una situazione sicuramente conforme all’interesse pubblico, non possa essere annullato ed anzi neppure conosciuto dal giudice della legittimità, perchè di fronte ad esse non sono configurabili in alcun modo posizioni di interesse <legittimo>(87).


L’orientamento descritto non appare del tutto nuovo, e trova, a nostro avviso, un’autorevole conferma nell’opinione di chi, in precedenza, aveva evidenziato che le ipotesi di eccesso di potere, nelle figure sintomatiche di esso elaborate dalla dottrina, pur riconducibili, in linea generale, al novero dei motivi di annullamento che attengono al contenuto vero e proprio del provvedere, esigono che se ne valuti la variabile portata di ciascuna in ordine a quest’ultimo (88). La valutazione degli effetti della decisione sull’attività amministrativa anteriore al provvedimento, e, quindi, rilevante ai fini della sua rinnovazione, non può essere determinata in astratto, semplicemente fissando l’attenzione sull’espressione ‘eccesso di potere’. Occorre, invece, “… scendere all’interno della motivazione della sentenza e del procedimento e da essi, dal motivo o dai motivi per cui, in relazione a quel procedimento, si è annullato, fissare il punto da cui il vizio della funzione, il vizio dei motivi prende corpo, e da cui quindi tutta l’attività amministrativa deve considerarsi caduta(89). La stessa ricostruzione dommatica dell’eccesso di potere, è stato notato (90), sembra essersi troppo irrigidita sulla eccessiva teorizzazione delle c.d. fattispecie sintomatiche. Limitarsi, infatti, ad accertare la ricorrenza di un sintomo di eccesso di potere, “rappresenta un utile surrogato del necessario accertamento dei fatti(91). Di qui il forte rischio che l’eccesso di potere (e con esso la tutela giurisdizionale), per un verso, non si sottraggano ad una ineluttabile “deriva formalistica”, e, per altro ancora, scontino “..l’astuzia dell’Amministrazione, divenuta esperta nello schivare quei vizi sintomatici, mettendo così al riparo i suoi provvedimenti, anche se viziati nella sostanza(92).


Le notazioni cennate rivestono, a nostro avviso, estremo interesse perchè sollevano il problema, forse sin troppo trascurato, di discernere nell’ambito del vizio di eccesso di potere, così come elaborato dalla giurisprudenza, gli aspetti eminentemente “sostanziali” da quelli che tali non sono (93), atteso che soltanto nell’ipotesi di vizio sostanziale (violazione di legge di tal genere e, nella più parte dei casi, anche eccesso di potere) “l’annullamento è pacificamente accompagnato da effetti ulteriori, variamente individuati nella disciplina del rapporto o nella preclusione di adottare altro provvedimento affetto da quel medesimo vizio(94). In tema di sindacato sui c.d. “vizi logici”, come la dottrina ha rilevato, un sindacato solo estrinseco, o comunque parziale, limitato cioè ad alcuni dei momenti del processo logico, non consente di escludere che ulteriori vizi d’altri momenti del medesimo processo valgano a compensarlo. Conseguentemente, dovrà compiersi l’accertamento della conformità o meno del suo risultato alla realtà (95). L’eventuale irregolarità del processo logico avrà rilevanza invalidante soltanto se conduce a una conclusione inesatta (96). “Come il rispetto della logica non garantisce la ragione stessa della scelta, non tutti i vizi logici valgono ad escluderla: essi potranno risultare privi di rilievo rispetto alla materia trattata, per la soverchiante importanza di elementi effettivamente utilizzati nel procedimento anche se non indicati nella motivazione; ed in questi casi l’annullamento dell’atto conclusivo sarebbe da considerare inutile e pregiudizievole per gli interessi sostanziali in gioco (97).
Rovesciando la prospettiva, la conclusione del procedimento conoscitivo può anche essere diversa dalla reale situazione esistente (o che deve essere realizzata) in fatto, pur essendo frutto di una deduzione esatta in quanto conforme al principio che ad essa presiede. Ciò in quanto l’esattezza della deduzione non costituisce in sé la garanzia della conformità della conclusione alla realtà, “potendo esplicare un’influenza negativa in proposito l’erroneità delle premesse(98).


Alla luce delle considerazioni svolte il principio affermato in sentenza che la censura di difetto di motivazione non sarebbe stata satisfattiva dell’interesse sostanziale del ricorrente di realizzare l’intervento costruttivo proposto con la d.i.a. è pienamente condivisibile, sia nella sua valenza dommatica, che nella applicazione concreta fattane.


Di qui un primo dubbio sull’effettiva pertinenza del richiamo operato in sentenza al vizio di difetto di motivazione, atteso che non di discrezionalità sembra possa parlarsi quanto di mera interpretazione.


Ed ecco affacciarsi un primo quesito: quale nozione di motivazione può desumersi dalla espressione letterale adoperata dal legislatore nell’art.3 L. n. 241/1990?


Traendo spunto da una decisione del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia (20-4-1993 n.149-Est. Giacchetti) (99) – che, sia pure entro certi limiti, ha ritenuto ammissibile in linea di principio la integrazione in corso di giudizio della motivazione del provvedimento impugnato – è stato acutamente evidenziato come, nel nostro sistema amministrativo, la sostanzializzazione del processo contrasti con la processualizzazione del procedimento di cui è espressione la L.n.241/90. Di guisa che la tesi sostanzialistica (favorevole alla motivazione successiva) diviene accettabile solo alla condizione (tutta da dimostrare) che i vizi formali dell’atto amministrativo, tra cui la mancanza o la insufficienza della motivazione, siano degradabili a mere cause di irregolarità (100).


Per contro, da altro angolo prospettico è stato obiettato che l’art.3 L.n.241/90 non esclude la “motivazione a formazione successiva” (101) e che, comunque, nell’ordinamento vigente “non sembra rinvenirsi alcuna norma che impedisca la sanatoria degli atti amministrativi nel corso del giudizio(102).


Parallelamente, è stato osservato che, al di là del nomen iuris adoperato, la norma, piuttosto che alla tradizionale nozione di motivazione, sembra far riferimento alla “giustificazione” del potere (103).


Si è anche rilevato che “..il contenuto prescrittivo del secondo alinea del primo comma dell’art.3 citato nulla innovi, o quasi, ai principi precisati in dottrina con riferimento alla giustificazione(104), mentre, dal riferimento “alle risultanze dell’istruttoria” se ne è dedotto che la giustificazione (= motivazione) “costituisce non un dato formale di carattere conoscitivo sovraimpresso sul provvedimento (..), bensì che essa esteriorizza il criterio della scelta -discrezionale o non discrezionale- ogni volta che l’istruttoria ponga in risalto interessi secondari diversi tra cui operare una scelta (105).


Altri hanno affermato, invece, che “si sia in presenza di un vero e proprio recupero di centralità della motivazione, intesa come discorso ragionato dell’autorità volto a giustificare l’esercizio del potere (106), ritenendo imposto all’amministrazione “un vero e proprio obbligo di esternazione dei motivi che sostengono il provvedimento con la conseguenza che tale esternazione, e dunque la motivazione nel suo significato formale, diventano elementi essenziali dell’atto(107).


Le segnalate divergenze, richiamate nei loro termini essenziali, sono l’indice di un più generale contrasto su opzioni sistematiche in apicibus, contrasto che conduce ad una inevitabile divaricazione delle conclusioni sui temi nodali che la problematica della motivazione involge.


Tale contrasto, peraltro, ha origini ben più remote rispetto alla introduzione del citato art. 3 dal momento che la dottrina, formatasi sul tema in epoca anteriore al 1990, già avvertiva come gli sforzi protesi ad esaltare il valore della legittimità sostanziale del provvedimento, pur formalmente sprovvisto di motivazione, non trovassero riscontro nella Giurisprudenza maggioritaria “condensata in massime consolidate di ardua scalfitura(108).


Con ciò evidenziando che, nonostante il citato art. 3, rimangono irrisolti i problemi classici (109) della motivazione quali l’estensione (individuazione degli atti assoggettati al relativo obbligo), il contenuto, la esternazione della stessa (con riguardo soprattutto alla c.d. motivazione per relationem) (110), la ammissibilità o meno della motivazione successiva e, infine, ma non ultimo per importanza, l’ambito di reiterabilità dei provvedimenti annullati per difetto di motivazione.


Tale ultimo aspetto, infatti, assume rilevanza primaria in relazione all’esigenza di tutela sostanziale del ricorrente che, nel tenore della novella del 1990, non sembra essere garantita dalla apparente (111) aumentata tutela processuale (112), derivante dalla, di certo più agevole, caducabilità del provvedimento sfornito di motivazione per violazione di legge.


E’ un dato, invero, che a fronte della puntuale e copiosa attenzione dedicata alla generalizzazione dell’obbligo di motivazione introdotta dall’art. 3 L. 241/90, non si è riservata una altrettanto estesa analisi alla nozione di motivazione proposta dalla medesima norma (113). Norma che, in verità, sembra delineare per la prima volta, in modo espresso, la fattispecie normativa della figura iuris, sino ad allora appannaggio esclusivo delle discordi ricostruzioni sistematiche dottrinarie nonché delle decisioni giurisprudenziali più tese ad individuare la disciplina del caso concreto che non a risolvere intricati problemi teorici.


Anche nella dottrina più recente si registra, in generale, la doglianza del mancato recepimento da parte della Giurisprudenza successiva all’anno 1990 del “passaggio culturale e, dunque, applicativo della nuova normativa(114), soprattutto nelle decisioni (115) concernenti la sufficienza della motivazione, nelle quali, è stato rilevato, “si afferma che l’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi si può ritenere sufficientemente assolto quando sia dato ricavare la ricostruzione dell’itinerario logico seguito dall’amministrazione in attuazione di un potere discrezionale(116).


Sta di fatto che la dottrina, nell’interpretare il citato art. 3, si è divisa in due orientamenti: a) da una parte l’opinione che ha ravvisato nell’art. 3 cit. la conferma (rectius codificazione formale) di un principio sostanzialmente già vigente, in quanto progressivamente affermatosi in giurisprudenza; b) dall’altra, la posizione interpretativa che, accanto al carattere prevalentemente confermativo del principio esistente, ha ravvisato soprattutto un’innovazione del medesimo (117), interpretato in collegamento organico con le diverse prospettive della nuova legge, il cui punto focale è individuato nel rapporto tra la nozione di “motivazione necessaria” e il concetto di organizzazione procedimentale della amministrazione (118).


In forza di questo secondo orientamento, la generica affermazione dell’innovatività del precetto in tema di motivazione postula, in via programmatica, la necessità di depurare il concetto dal suo bagaglio storico – così come progressivamente elaborato in dottrina e giurisprudenza – per concludere che, in sede dommatica, la innovazione normativa “è idonea ad invertire la direzione della interpretazione” ed escludere il fondamento (se non nei limiti di un mero rilievo, anche in termini di evoluzione storica, nella applicazione giurisprudenziale) della prospettiva ermeneutica delineata dal GIANNINI sulla progressiva dequotazione della motivazione (119).


Ciò in quanto, si è osservato, “recepire la innovazione precettiva dell’art. 3 della L. n. 241 come una semplice conferma dei principi previgenti, contrasterebbe, in termini costruttivamente positivi, con la rilevante novità fondata sulla disciplina positiva del procedimento amministrativo(120).


L’approccio metodologico sotteso alla riferita opinione rivela, con tutta evidenza, una obiettiva carica svalutativa delle origini e della evoluzione storica della nozione di motivazione, in relazione al concreto atteggiarsi del sindacato di legittimità sotto forma di eccesso di potere. Tale carica svalutativa trova il suo culmine nel convincimento che, in realtà, l’orientamento giurisprudenziale consolidato contrasti con la diversa nozione di motivazione, postulata in sede di interpretazione dell’art. 3 cit. ed elaborata nella dichiarata “prospettiva di collegamento dell’obbligo di motivazione con il sindacato diffuso sull’azione amministrativa(121).


Senonché, la stessa dottrina, a nostro avviso contraddicendosi (122), al fine di salvaguardare il principio di efficienza dell’azione amministrativa – per il quale si ritiene inammissibile che l’Amministrazione, cui sia preclusa l’integrazione successiva della motivazione, debba sopportare l’effetto paralizzante del ricorso giurisdizionale – considera, “maggiormente coerente con il dettato della legge, ammettere l’integrazione postuma della motivazione con la conseguente cessazione della materia del contendere (123).


Preme sottolineare come la riferita opinione segnali al suo interno un notevole contrasto tra la affermazione della rilevanza invalidante immediata del difetto di motivazione – ricostruito come non completa e/o coerente esposizione di tutti i fatti e ragioni giuridiche (motivazione in senso ampio) – e la affermazione della sanabilità successiva del vizio mediante la motivazione successiva, che, a rigore, come è stato da altri evidenziato, si tradurrebbe nel “consentire che il provvedimento amministrativo possa nascere ab origine non motivato o insufficientemente motivato, circostanza questa che potrebbe offrire la strada ad una prassi dell’amministrazione elusiva (parzialmente o totalmente) dell’obbligo di cui sopra(124); operazione, questa, incompatibile con la generalizzata formalizzazione normativa del predetto obbligo.


Alla luce di questa ultima considerazione la riflessione dommatica, mostra un’involuzione che, a nostro avviso, trova riscontro emblematico nella osservazione che l’enunciato testuale dell’art. 3 cit., prescrivendo che la motivazione debba contenere “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione (…), in relazione alle risultanze dell’istruttoria”, fornirebbe “..un argomento contrario alla distinzione tradizionale tra motivazione e giustificazione: ’i presupposti di fatto’ –com’è noto- costituirebbero infatti materia della seconda, e non, come invece afferma la norma in esame, della prima(125).


L’approccio interpretativo possibile nei confronti del dato testuale dell’art. 3 cit. è, pertanto, quanto meno bivalente: accanto alla prospettiva di chi ritiene superata la distinzione tradizionale tra motivazione e giustificazione – in quanto la norma riferisce al contenuto della motivazione i presupposti di fatto – va considerata la possibilità alternativa di ritenere che la norma abbia codificato, al contrario, proprio l’obbligo di giustificazione (126).


Se la seconda prospettiva fosse, almeno in ipotesi, attendibile, la quaestio della motivazione successiva, ripetutamente sollevata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, si convertirebbe in quella della “giustificazione” successiva così recando in sé, de plano, la soluzione dal momento che la dottrina ha da tempo chiarito che “la giustificazione successiva non può affatto dar luogo a quelle obiezioni cui dà luogo la motivazione successiva, dato che è molto più facile indagare l’esistenza di fatti preordinati ad un atto, e controllare la esattezza della loro esposizione, anziché l’esistenza dei motivi stessi (127).


La prospettiva ermeneutica che precede, ha, tuttavia, a nostro avviso, una portata ben più ampia. Ad un’analisi attenta, infatti, non può sfuggire che, stando al dato testuale della norma in esame, si può dire che non esista la previsione dell’obbligo di esternare (formalmente) i motivi della decisione amministrativa.


La motivazione, troverebbe così la sua collocazione oggettiva – del tutto indipendentemente dalla sua esternazione “formale”- nel rapporto, che sia possibile istituire, fra i presupposti di fatto (fatto storico) (128) e la decisione amministrativa.


A sua volta questo rapporto, che è oggettivo perché intercorre fra due termini oggettivi (presupposti di fatto e decisione), non può non rivelare, in modo del pari oggettivo, la intrinseca congruità e/o adeguatezza (o no) che spiega (o no) ciascun termine del rapporto in funzione dell’altro (129).


Le considerazioni che precedono si troverebbero, peraltro, in linea, con quella perspicua giurisprudenza incline a “svalutare”, per così dire, il ruolo della motivazione formale pur in vigenza, si noti, dell’art. 3 L. n. 241/90. Appare, quindi, di dubbio fondamento la censura di quella parte della dottrina che ascrive alla giurisprudenza una sorta di disattenzione al “passaggio culturale e dunque applicativo della nuova normativa(130).


Questa ricostruzione, pur asseritamente orientata a destoricizzare la pregnanza dell’obbligo di motivazione, per renderlo coerente con il sistema di principi della legge n. 241/90, non ci sembra apporti elementi di novità all’evoluzione del dibattito, ove si consideri che rimane del tutto inesplorata la questione fondamentale della esigenza di effettività della tutela giurisdizionale a fronte del potenziamento di un vizio (difetto di motivazione) nella sua prospettiva formalistica (violazione di legge).


Se, come sostiene l’Autore, l’obbligo di motivazione ex art. 3 cit. inverte “la direzione della interpretazione” ed esclude il fondamento della teorica della dequotazione (131), si dovrebbe ritenere affetto da violazione di legge il provvedimento carente di motivazione formale, ma ben sostenuto da motivi ricavabili dagli atti procedimentali.


Una soluzione di questo tipo si innesta nel solco di una visione formalistica della tutela giurisdizionale, in palese controtendenza rispetto all’evoluzione del nostro sistema di giustizia amministrativa, proteso a trasformarsi da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto.


Destoricizzare l’obbligo di motivazione, infatti, significherebbe recidere il cordone giuridico sostanziale che lega i motivi del provvedere al vizio di eccesso di potere; in altri termini renderebbe autoreferenziale l’obbligo di motivazione formale, scollegandolo, dunque, dall’obbligo sostanziale di fornire adeguati motivi del provvedere: motivi che si pongono come unico indice rivelatore di un corretto esercizio del potere discrezionale della p.a. Privilegiare il “fatto manifestante” (132) (motivazione formale) rispetto al “fatto manifestato” (133) (motivo) non offrirebbe alcun nuovo apporto al difficile cammino che la trasformazione del processo amministrativo sta compiendo per rendere più effettiva la tutela giurisdizionale.


La Giurisprudenza dal canto suo, stante la connaturale esigenza pratica di risolvere casi concreti, in un quadro di principi coerenti con le direttive di sistema, in controtendenza rispetto alla tesi della formalizzazione dell’obbligo di motivazione e della riconduzione alla categoria della violazione di legge di ogni ipotesi di sua inosservanza, ha inaugurato una stagione di decisioni classificabili, a nostro avviso, come “sostanzialistiche”. Tali decisioni, in altri termini, hanno di mira la sostanza del conflitto tra ricorrente e P.A., preoccupandosi di verificare che i motivi di ricorso (a prescindere dalla censura di difetto di motivazione) consentano di pervenire ad una decisione che tenga pienamente conto del merito della vicenda (134) in vista di un risultato “certamente più vantaggioso di quello che il singolo interessato potrebbe conseguire da un mero annullamento formale per violazione da parte dell’Amministrazione dell’obbligo del clare loqui(135).


Abbiamo accennato in precedenza che questa Giurisprudenza è stata duramente criticata da quella dottrina che riconnette alla violazione dell’obbligo della motivazione ex art. 3 cit. una automatica violazione di legge.


A nostro avviso, al contrario, la cennata impostazione metodologica giurisprudenziale appare quantomai lungimirante, poiché all’eccepito vizio di difetto di motivazione dell’atto non attribuisce rilevanza, laddove le ragioni del provvedere possano comunque cogliersi dalla lettura degli atti del procedimento.


Infatti, se dalla lettura degli atti del procedimento non si dovessero cogliere le ragioni del provvedere, ne sarebbe provato il difetto, che impingerebbe nell’eccesso di potere per mancato perseguimento dell’interesse pubblico; mentre, se si dovessero cogliere ragioni non conformi agli scopi di legge, sarebbe provato lo sviamento di potere. In ambedue i casi il difetto di motivazione formale verrebbe inevitabilmente assorbito e superato da vizi sostanziali di ben più pregnante portata.


Quanto precede se vale in generale per le ipotesi in cui l’obbligo di motivazione è connesso all’esercizio di un potere discrezionale, vale a fortiori ogni qual volta lo stesso obbligo di motivazione sia valutato in connessione all’esercizio di un potere vincolato, così come è accaduto, del resto, nella fattispecie reale esaminata dal Tar Puglia.


* * *


Si è visto che la dottrina più antica svalutava il difetto di motivazione in sè, riconducendolo a vizio formale (136), mentre l’eccesso di potere, oltre che desumerlo dalla motivazione (usandola come fatto rappresentativo-probatorio dei fatti affermati dal ricorrente) (137), lo ricercava aliunde per mezzo dei fatti desumibili da altri atti del procedimento (138).


La dottrina moderna e la giurisprudenza, invece, con l’idea che l’obbligo di motivazione enunciativa rispondesse ad esigenze garantistiche, in realtà, hanno ampliato le figure sintomatiche dell’eccesso di potere che, da un lato, mostrano un apparente vantaggio garantistico per le finalità caducatorie, ma, ai fini del contenuto del giudicato, sono poco incisive.


Infatti, una parte della dottrina (139), che ha intuito ciò, in particolare per i provvedimenti negativi, sia pure contro corrente, ha ritenuto ammissibile la motivazione successiva, pur di poter ampliare il contenuto degli accertamenti giudiziali da valere quali vincoli conformativi della azione amministrativa successiva al formarsi del giudicato, cogliendo, peraltro, l’essenza del problema allorquando ha sottolineato che la dequotazione giuridica della motivazione attenuava le finalità garantistiche, ma ampliava l’ambito sostanziale della tutela (140). In realtà, una volta fissato il principio per cui il ricorrente non è vincolato dai fatti allegati dalla P.A. e/o comunque disposti dalla P.A., in quanto egli può addurre fatti secondari diversi, nel senso che può muovere anche contro la motivazione (i fatti affermati in motivazione) (141) per dimostrare il fondamento delle sue censure di illegittimità ed in particolare quelle di eccesso di potere, si incrina la costruzione interpretativa che ravvisa nell’obbligo di motivazione uno scopo di rafforzamento del sindacato giurisdizionale, ovvero di tutela garantistica del cittadino.


Chi si duole che il vizio di difetto di motivazione, avendo natura formale, sia inidoneo a offrire tutela sostanziale, e, pertanto, si dichiara favorevole all’ammissibilità della motivazione successiva, che consentirebbe un ampliamento del segmento di rapporto sottoposto alla cognizione del giudice, comunque, non si sottrae all’obiezione che, in ipotesi, sarebbe sempre possibile una seconda, terza, e così via, motivazione successiva, e pretermette un aspetto fondamentale: il ricorrente, nel ricorso, deve (rectius: ha l’onere di) stendere sul tappeto processuale tutte le sue possibili censure, ma deve anche –secondo la sua coscienza di un diverso modo di provvedere- rappresentare in guisa completa la pretesa sostanziale da cui la sua azione muove e le ipotesi alternative di provvedere, a sé favorevoli, che la corretta osservanza delle norme violate consente ragionevolmente, a suo avviso, di prospettare. Ovviamente, se il ricorrente si limitasse a censurare il difetto di motivazione, inteso come carenza della mera enunciazione formale e non sollevasse apposite censure rispetto ai profili sostanziali della fattispecie del potere esercitato da cui l’atto impugnato trae origine, non potrebbe legittimamente dolersi della insufficienza delle figure sintomatiche di eccesso di potere ad offrire tutela effettiva in sede di ottemperanza ovvero degli effetti negativi della reiterabilità dell’atto annullato con l’adozione del medesimo dispositivo.Mutuando le parole di CLARICH “il ricorrente, in definitiva, ha l’onere di dedurre fin dalla proposizione del primo ricorso i vizi sostanziali attinenti ai fatti costitutivi del potere. Se non ottempera all’onere, deducendo vizi soltanto formali, per un verso, la pubblica amministrazione può legittimamente reiterare l’atto annullato in base agli stessi o ad altri fatti costitutivi; per altro verso, il ricorrente non può impugnare il nuovo provvedimento per vizi attinenti ai fatti costitutivi sui quali si fondava già il primo atto(142).


Se noi accettassimo l’idea (143) che quando la P.A omette di enunciare i motivi (assoluta mancanza di motivazione), pur rischiando l’annullamento dell’atto, sottrae in realtà il potere discrezionale esercitato al sindacato sostanziale di legittimità, potendo rinnovare l’atto col medesimo dispositivo e senza che dalla sentenza possa derivarne un qualche vincolo conformativo, dovremmo postulare l’impossibilità per il ricorrente di muovere censure sostanziali al concreto esercizio del potere discrezionale tradottosi nell’atto impugnato, se non in presenza e nei limiti di una formale enunciazione dei motivi. I motivi enunciati, dunque, verrebbero a costituire per il ricorrente l’oggetto di possibile censura, per così dire, obbligato, che, a sua volta, definirebbe il segmento di potere controllabile in via giudiziaria, sostanziandosi in limite e misura della tutela ottenibile. Sì da aversi, come ha rilevato il LEDDA, che l’Amministrazione potrebbe predeterminare arbitrariamente i limiti del sindacato giudiziario cui è soggetta, “..limitandolo al controllo sull’esistenza e sufficienza delle ragioni indicate con l’atto..” (144).


Tale ricostruzione, però, non corrisponde al reale assetto del sindacato di legittimità che, per il vero, può verificare il corretto esercizio del potere al di là dei (e a prescindere dai) motivi formalmente enunciati. Infatti, la stessa giurisprudenza spesso si spinge oltre i c.d. motivi enunciati per cogliere la intrinseca ragionevolezza dei motivi effettivamente emergenti dall’atto e/o dal procedimento (per respingere la censura del ricorrente) (145) oppure per cogliere la manifesta illogicità dei reali motivi emergenti dagli atti (per accogliere la censura del ricorrente). Nel caso in cui l’amministrazione non abbia esternato la logica del provvedere, non ci si può fermare a tale dato estrinseco, “ma deve indagarsi se da altri atti del procedimento ovvero dallo stesso contenuto del provvedimento considerato, inteso secondo buon senso, possano comunque ricavarsi con assoluta certezza le ragioni poste a base della scelta compiuta e solo ove la detta ricerca risulti infruttuosa ovvero dimostri l’irrazionalità della scelta compiuta può concludersi per l’illegittimità della determinazione adottata(146).


La motivazione c.d. enunciativa ostende formalmente i c.d. “motivi” che, commisurati ai presupposti di fatto, denunciano lo sviamento ovvero lo fanno escludere. La comparazione si effettua tra motivo enunciato (artificialità) e situazione reale (o presupposto di fatto) interiorizzata dal procedimento. Donde, in caso di incongruità, si parla di eccesso di potere.


Superando i motivi enunciati nel provvedimento (artificiali), la giurisprudenza, in realtà, esaminava ed esamina anche quelli ricavabili da altri atti, ma pur esternati in atti (147), e ciò serviva e serve sia a favore della P.A. che contro la P.A., in quanto, poi, la comparazione con i presupposti può convincere della legittimità o meno dell’atto impugnato in relazione alla motivazione provvedimentale o viceversa in relazione a quella desumibile da altri atti del procedimento.
In questa diversa prospettiva, stante la vigenza del principio dispositivo, il reale dominus del carattere sostanziale ovvero garantistico-formale della tutela processuale è il ricorrente che, allegando vizi formali, in sostanza, non censura l’assetto conferito agli interessi dalla p.a., rappresentandone uno alternativo che in qualche modo il Giudice possa fare proprio ed imporlo all’amministrazione (148).


In conclusione, raccogliendo le fila del discorso sin qui sviluppato, non si può non condividere il ragionamento seguito dal TAR PUGLIA che nella sentenza esaminata ha ritenuto inutile per il ricorrente il dedotto vizio di difetto di motivazione, inidoneo a condizionare l’esercizio in concreto del potere, entrando nel merito della riconducibilità dell’intervento edilizio al regime della d.i.a. anzich&eella concessione edilizia.


Avv. Antonio Guantario

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Note



  1. Si confronti F. LEDDA, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Giappichelli, Torino, 1964, pagg. 219-220.


  2. Cfr. A. ZITO, L’integrazione in giudizio ….., cit., pag. 591, che si rifà alla nota tesi di F. LEDDA, Il rifiuto …, cit., pagg. 219-220.


  3. A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti …, cit., pag. 402.


  4. M.S. GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo…, cit., p. 259 e nota 2.


  5. La problematica è stata oggetto di vari scritti soprattutto in passato: cfr. P. GASPARRI, Sulla riemanazione di provvedimenti annullati in sede giurisdizionale, in Foro amm., 1952, I, p. 190 e ss.; M. NIGRO, Sulla riproduzione dell’atto amministrativo annullato in sede giurisdizionale, in Foro it., 1958, III, col. 37 e ss.


  6. Ved. M. NIGRO, Sulla riproduzione …, cit., col. 42.


  7. M. NIGRO, Processo amministrativo e motivi di ricorso, in Foro it., 1975, V, col. 22.


  8. M. NIGRO, Processo amministrativo e motivi di ricorso, cit., col. 22.


  9. Si segue la ricostruzione dommatica unitaria dell’eccesso di potere proposta da E. CASETTA, Attività e atto amministrativo, in «Riv. trim. dir. pubbl.», 1957, pagg. 313-314, che risolve la figura interamente nello sviamento, qualificando i sintomi come mezzi necessari per dimostrarne l’esistenza, che comprovano il vizio nell’atto soltanto quando permettano di dissipare ogni dubbio circa la mancata corrispondenza degli interessi propri dell’atto con quelli che la fattispecie normativa concreta involge. L’elaborazione giurisprudenziale e la letteratura sull’eccesso di potere sviluppatesi dopo il lavoro di A. CODACCI PISANELLI, L’eccesso di potere nel contenzioso amministrativo, in «Giust. amm.», 1892, IV, pagg. 1 e ss.) sono, si può dire, sconfinate. L’elaborazione giurisprudenziale (per un’utile rassegna sulla giurisprudenza dei primi decenni, N.PAPPALARDO, L’eccesso di potere …., pagg. 429 e ss.) accanto al fenomeno dello sviamento è venuta introducendo e sviluppando altre figure come ad esempio quelle di «travisamento dei fatti», di «illogicità manifesta», di «manifesta ingiustizia», di «contraddittorietà immotivata fra più atti», di «difetto di motivazione» ecc. (per una classificazione completa, GASPARRI, Eccesso di potere (dir. amm.), in «Enc. Dir.», vol. XIV, pagg. 128 e ss.). In generale hanno qualificato l’eccesso di potere come vizio della causa dell’atto amministrativo: CAMMEO, La violazione delle circolari come vizio di eccesso di potere, in «Giur. It.», 1912, III, col. 107; PAPPALARDO, op. ult. cit., pagg. 542 e ss.; RESTA, La natura giuridica dell’eccesso di potere come vizio degli atti amministrativi, in «Ann. Univ. Macerata», 1932, pag. 176 (dello stesso autore, La legittimità degli atti giuridici, in «Riv. trim. dir. pubbl.», 1955, pagg. 35 e ss.); BORSI, La giustizia amministrativa, Padova, 1941, pag. 52.
    Hanno ravvisato, invece, nell’eccesso di potere un vizio dei motivi dell’atto: FORTI, I «motivi» e la «causa» negli atti amministrativi, ne «Il Foro It.», 1932, III, col. 297; GIANNINI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, pag. 391. Concorde ALESSI, Intorno ai concetti di causa giuridica, illegittimità, eccesso di potere, Giuffrè, Milano, 1934, pagg. 110 e 71 e ss., secondo cui l’eccesso sarebbe essenzialmente caratterizzato da un «vizio di potestà» dell’atto in relazione allo stato viziato dei motivi.
    Una terza posizione ritiene che l’eccesso di potere consista in realtà nel vizio del giudizio di apprezzamento messo a base dell’atto discrezionale: così ROVELLI, Lo sviamento di potere, in Raccolta di scritti di dir. pubbl., in onore di Giovanni Vacchelli, 1935, pag. 462; A.M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1959, pagg. 323 e ss.
    Una originale ricostruzione dell’eccesso di potere si deve a F. BENVENUTI, Eccesso di potere amministrativo …, pagg. 3 e ss., il quale ha creduto di risolvere il problema costruendo i «sintomi» come violazioni di norme generali sulla funzione amministrativa (principio di giustizia sostanziale, principio di ragionevolezza dell’agire amministrativo e principi della stessa organizzazione), svincolandoli dall’essere funzionali allo sviamento. Contra, però, E. CASETTA, Attività …, cit., pagg. 313-314, per il quale l’eccesso di potere va ricondotto ad unità concettuale sub specie di sviamento, essendo i sintomi mezzi di rilevazione dello stesso e non cause autonome di annullamento. Si veda anche A. AZZENA, Natura e limiti dell’eccesso di potere …, cit., pagg. 331-332, che, diversamente dal Benvenuti, attribuisce alle figure sintomatiche il valore di vere e proprie prove presuntive del vizio di merito da cui l’illegittimità deriva (sul punto C. CAMILLI, Considerazioni sui «sintomi» dell’eccesso di potere, in «Rass. dir. pubbl.», 1965, n. 4, pagg. 1038 e ss.).


  10. Sul punto appare interessante la decisione del T.A.R. MARCHE, 2 febbraio 1995, n. 53, in «Rass. T.A.R.», 1995, I, pagg. 1775 e ss., che è in perfetta sintonia con quanto da noi sostenuto: «? Il Collegio considera che, secondo un recente indirizzo giurisprudenziale (CONS. STATO, SEZ. VI, 9 marzo 1992, n. 174) è ammessa, in corso di giudizio, la giustificazione del potere esercitato, potendosi ritenere che, fermo il principio per cui il provvedimento non può ricevere integrazione di motivazione attraverso gli scritti difensivi dell’Amministrazione il comportamento della stessa potrebbe contribuire, se non ad integrare, a chiarire la motivazione dello stesso provvedimento, dovendosi a tal fine distinguere tra motivazione vera e propria e giustificazione del potere. La giustificazione del potere consiste non solo nella indicazione delle norme che sovraintendono ad esso, quanto nella indicazione del tipo di potere esercitato e dei presupposti di esso. Nel caso in esame, il provvedimento impugnato ha indicato il potere esercitato, cioè quello di valutare, con riferimento alle proprie esigenze organizzative e funzionali, se concedere o no la predetta aspettativa, ed ha pure indicato, genericamente, i presupposti di diritto e di fatto di tale potere. Dunque, ad avviso del Collegio ed in adesione all’indirizzo giurisprudenziale testè ricordato, la relazione acquisita può essere considerata quale atto inteso non ad integrare, ma a chiarire la già esistente motivazione dell’impugnato provvedimento, cioè diretto a giustificare uno dei presupposti del potere esercitato».


  11. È questa, a nostro avviso, la fattispecie concreta esaminata nella sentenza del T.A.R. VENETO, SEZ. I, 20 giugno 1987 (pres. Rosini), n. 648, ne «Il Foro amm.», 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss., in particolare pag. 1442 dove si precisa che «nella specie non trattasi di integrazione della motivazione ma della sua “esternazione” poiché l’atto non fa riferimento ad elementi motivatori additivi sopravvenuti quanto a ragioni presenti e tenute in considerazione, ancorchè non esplicitate …».


  12. È questa l’ipotesi di motivazione successiva ritenuta inammissibile da A. AZZENA, Natura e limiti …, cit., pagg. 311 e ss.


  13. Questa ipotesi in sé è generica in quanto dovrebbe essere precisata ulteriormente suddividendosi in due specie: scritti difensivi meramente descrittivi e/o chiarificatori delle risultanze dell’istruttoria; scritti difensivi introduttivi di argomenti e/o fatti nuovi non ricavabili dall’istruttoria procedimentale.


  14. Ved. A. AZZENA, Natura e limiti ..., cit., pagg. 312-313.


  15. Si vedano, infatti, le importanti osservazioni di M.S. GIANNINI, Motivazione …, cit., pag. 267, ed in particolare in nota 24, lì dove spiega che il divieto di integrazione della motivazione da parte del difensore in giudizio non necessariamente comporti sostituzione di questi all’Amministrazione, «in quanto il provvedimento può essere collegato ad altri provvedimenti, a comportamenti, a prassi, che non sono enunciati in alcun atto del procedimento di formazione, ma che, se tuttavia esistono, e se ne dimostra il collegamento, non danno luogo ad alcuna sostituzione del difensore all’autorità».


  16. C.M. IACCARINO, Studi …, cit., pag. 90.


  17. Parla di esclusione di rilevanza della eventuale motivazione successiva dell’atto F. LEDDA, Il rifiuto …, cit., pag. 215.


  18. In questo senso, a nostro avviso, deve leggersi l’interessante ordinanza del T.A.R. SICILIA, SEZ. CATANIA, 20 settembre 1997, n. 2408, in «Guida al diritto-Il Sole-24 Ore», 1997, n. 48, pagg. 89 e ss., che occupandosi di un ricorso fondato sulla censura di difetto di motivazione dell’impugnato annullamento di ufficio di una delibera di approvazione della graduatoria di un concorso, ha ritenuto inidonea nella fase cautelare (e dunque tamquam non esset) la delibera di Giunta municipale di autorizzazione a resistere in giudizio che contestualmente confermava ed integrava in ogni sua parte l’atto impugnato con rinnovato supporto motivazionale, ad integrare l’ipotesi di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse processuale.
    Per l’orientamento opposto, invece, si confronti T.A.R. VENETO, SEZ. I, 10 giugno 1987, n. 648, ne «Il Foro amm.», 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss., secondo cui il ricorrente che abbia impugnato l’atto deducendo unicamente il vizio di difetto di motivazione, a fronte di un’integrazione della motivazione mediante emanazione di atto ad hoc in corso di giudizio, ha l’onere di impugnazione, sotto pena della cessazione della materia del contendere, anche quest’ultimo con nuovo ricorso ovvero con motivi aggiunti «in quanto non è ravvisabile … alcun tipo di interesse, né sostanziale né processuale ad ottenere la caducazione di atti già modificati ovvero a conseguirla sotto profili che sono stati medio tempore rimossi, ancorché senza mutare il tenore della statuizione lesiva».


  19. È questa la tesi di A. AZZENA, Natura e limiti ..., cit., pag. 312.


  20. Sul punto il Consiglio di Stato ha espresso una chiara posizione statuendo che «deve considerarsi censura nuova, inammissibile in appello, l’allegazione di eccesso di potere per difetto di motivazione (di carattere prevalentemente formale) rispetto a quella (di natura essenzialmente sostanziale) dell’eccesso di potere per sviamento, formulata in primo grado» (CONS. STATO, SEZ. V, 5 marzo 1982, n. 184, ne «Il Foro amm.», 1982, I, pag. 392 con nota di R. IANNOTTA).


  21. Questa è la tesi seguita dal T.A.R. VENETO, SEZ. I, dec. 20 giugno 1987, n. 648, ne «Il Foro amm.», 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss. Per la dottrina in tal senso ved. G. VIRGA, Integrazione …, cit., pag. 527.


  22. Per questo orientamento ved. T.A.R. VENETO, SEZ. I, 20 giugno 1987, n. 648 (Pres.: Rosini), cit..


  23. Ne «Il Foro amm.», 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss.


  24. Si adotta la terminologia di G. DE FINA, La teleologia degli atti nel rapporto autorità-libertà, Cedam, Padova, 1974, pag. 195, che distingue «tra l’effettiva teleologia procedimentale espressiva dell’avvenuto esercizio della funzione, e la sua ricognibilità attraverso ogni strumento o mezzo giuridico utilizzabile: tra cui anche, ma non indispensabilmente, l’impiego della motivazione nel contesto formale dell’atto». Si veda CONS. STATO, SEZ. IV, 27 ottobre 1981, n. 787, ne «Il Foro amm.», 1981, I, pagg. 1915-1916, per un precedente che espressamente ha riconosciuto che le delibere della Giunta regionale del Piemonte con cui veniva stabilita la durata della sanzione amministrativa di chiusura di un pubblico esercizio non potevano essere viziate da eccesso di potere per difetto di motivazione in ordine alla determinazione del quantum temporale della sanzione stessa: le delibere in questione infatti dimostravano che la Giunta regionale era pervenuta ai provvedimenti sanzionatori sulla base di un’adeguata conoscenza della situazione di fatto risultante da un ampio, preciso e motivato rapporto del veterinario provinciale dal quale emergeva tutta la consistenza del pericolo alla salute pubblica che la recidiva condotta dei due commercianti aveva cagionato. Ha ritenuto pertanto il Consiglio di Stato che proprio in considerazione della gravità di tali fatti l’entità della sanzione irrogata risultava giustificata e motivata da una precisa conoscenza e da una corretta valutazione dei fatti. Da un esame diretto degli atti del procedimento il giudice amministrativo ha potuto escludere il sintomo di difetto dei motivi (vizio della funzione) a cui aveva dato causa il difetto di motivazione.


  25. Già in altra sentenza il T.A.R. Veneto (SEZ. I, 16 febbraio 1987, n. 161, ne «Il Foro amm.», 1988, n. 1-2, pag. 189) aveva chiarito che il vizio di mancanza o insufficienza della motivazione sia ascrivibile alla figura dell’eccesso di potere «solo in quanto sintomatizzi un difetto o di valutazione delle circostanze di fatto o di ponderazione degli interessi coinvolti» e che «il vizio non sta nella mancanza della motivazione intesa come esternazione dei motivi dell’atto, questa mancanza essendo soltanto un sintomo che lascia presumere il suaccennato vizio della funzione, e che l’Amministrazione può provare il contrario esibendo gli atti che hanno preceduto il provvedimento contestato, dai quali emergano motivi non enunciati».


  26. In questo passaggio il T.A.R. Veneto usa il termine «motivazione» impropriamente, volendo significare, invece, «motivo»; infatti, se il presupposto causale della rinnovazione dell’atto annullato è il difetto di motivazione, non avrebbe senso il riferimento alla motivazione che già sorregge l’atto, se non avendo di mira l’oggetto della motivazione, vale a dire il motivo.


  27. T.A.R. VENETO, SEZ. I, 20 giugno 1987, n. 648, cit..


  28. Si tratta di due note a sentenza rispettivamente di S. D’ALESSANDRO, Obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo e interesse sostanziale del ricorrente, ne «Il Foro amm.», 1988, n. 12, pagg. 3722 e ss., e di P. BARTOT, La motivazione tra vizio formale e tutela sostanziale, in «Riv. trim. proc. amm.», 1989, pagg. 470 e ss.


  29. P. BARTOT, La motivazione tra vizio formale …, cit., pag. 479.


  30. Ciò soprattutto dopo che, la recente caduta della preclusione di principio alla risarcibilità dell’interesse legittimo, ha esposto la pubblica Amministrazione alla potenziale responsabilità civile per l’illegittimità dei suoi atti (ove, beninteso, sussista il concorso degli ulteriori elementi, oggettivi e soggettivi, idonei a convertirle in veri e propri «fatti illeciti»). Non è sembrato dubbio, invero, che il principio del neminem laedere implichi, per tutti i soggetti di diritto, privati e pubblici, un onere di attivarsi per far cessare la situazione di illiceità originata e suscettibile di produrre ulteriori conseguenze pregiudizievoli. Diversamente, verrebbe violato il principio (un tempo invocato, sotto ben diverso profilo) della parità tra le parti del processo, posto che la pendenza del ricorso impedirebbe all’Amministrazione, pur assoggettata al paritario principio del neminem laedere, di assumere iniziative di diligenza a difesa dei propri interessi anche patrimoniali (oltre che della legalità). Ulteriore argomento a favore si è tratto dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, che, modificando l’art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ha previsto in termini generali che «Tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti». Si è sostenuto, da parte del medesimo giudice, che una siffatta innovazione, tendente a far confluire all’interno del giudizio tutti gli atti connessi al suo «oggetto», non andrebbe vista soltanto come uno strumento di economia processuale. La sua portata impone innanzi tutto di rivedere la tradizionale identificazione dell’oggetto del giudizio amministrativo con il singolo provvedimento impugnato. Difatti, il presupposto logico che ha reso possibile l’estensione, all’interno del giudizio pendente, dell’impugnativa ai provvedimenti sopravvenuti, mediante semplici motivi aggiunti, risiede nell’aver, il legislatore del 2000, rimodellato l’oggetto del processo amministrativo intorno alla pretesa sostanziale fatta valere dal ricorrente. Ebbene, questa nuova norma comporta che l’adozione di un ulteriore provvedimento, inteso ad emendare un vizio dell’atto oggetto di gravame, non pone più, automaticamente, fine al relativo giudizio (strutturato, innovativamente, come giudizio sul rapporto), ma ne estende l’oggetto abilitando l’interessato ad integrare la sua originaria impugnativa mediante motivi aggiunti. Viene meno, pertanto, il pericolo che il provvedimento di autotutela con funzioni di sanatoria vanifichi il diritto costituzionale di azione e di difesa in giudizio. D’altra parte, ove l’Amministrazione incorsa in un vizio di legittimità suscettibile di sanatoria intenda avvalersi di tale facoltà, non sembra possa esserle opposto un «diritto» dell’interessato ad ottenere, ad ogni costo, l’annullamento giurisdizionale del provvedimento viziato. E questo tanto più in un processo amministrativo incentrato, ormai, sulla pretesa sostanziale del ricorrente, in cui, quindi, l’accertamento, istituzionalmente devoluto al giudice, deve investire, più che l’isolato aspetto della legittimità formale di un singolo provvedimento, il grado di fondatezza delle aspettative e delle correlative pretese che costituiscono la materia del singolo rapporto di diritto amministrativo. Nella vigenza della legge attuale, pertanto, il ricorrente, in pendenza del giudizio, così come ben può continuare a beneficiare di un rinnovato esercizio del potere amministrativo in una direzione a lui favorevole – con l’esito della cessazione della materia del contendere – simmetricamente, dovrà accettare gli effetti di un nuovo provvedimento, diretto semplicemente ad emendare un vizio del precedente atto. Del resto, se si ammette la possibilità per l’Amministrazione di un riesame della legittimità del proprio atto in pendenza del giudizio, appare problematico limitare le conseguenze di tale riesame secundum eventum: accordare, cioè, alla P.A. la possibilità di intervenire a difesa della legittimità e degli interessi pubblici quando ciò richieda un atto di ritiro, e disconoscerle la stessa possibilità, in presenza di vizi sanabili, quando il riesame potrebbe essere concluso con una semplice riforma della precedente determinazione. A quanto detto si aggiunga che la stessa sanatoria e/o rinnovazione del procedimento, in presenza di un vizio conclamato e difficilmente superabile in sede giudiziaria, sarebbe imposta a fortiori dalla necessità di evitare una probabile condanna risarcitoria che faccia proprio leva sul comportamento omissivo, negligente, colposo e/o doloso.


  31. a) il riconoscimento di atto a natura non provvedimentale della comunicazione dirigenziale che ha integrato la motivazione del provvedimento amministrativo in corso di giudizio, a causa della sua affermata irrilevanza, dovuta al principio giurisprudenziale secondo cui la insufficiente motivazione non può essere sanata mediante argomentazioni svolte nel corso del processo.


  32. E. PRESUTTI, Il sindacato…, cit., p. 124.


  33. Cfr. A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti…, cit., p. 399 e ss., in particolare p. 405.


  34. In tal senso si confronti F. LEDDA, Il rifiuto…, cit., pagg. 219-220. Si vedano, però, le precisazioni di G. SORRENTINO, Vizio di incompetenza e processo amministrativo di risultato, in Dir. proc. amm., 2002, fasc. 1, pag. 194, secondo il quale se, in relazione agli interessi oppositivi, “il mero annullamento sembra essere di per sè satisfattivo; tuttavia non sfugge che la sentenza che accoglie sic et simpliciter il vizio di incompetenza, nulla dicendo sul contenuto dell’atto, solo apparentemente e provvisoriamente tutela il ricorrente”.


  35. Emblematica al riguardo la fattispecie di creazione giurisprudenziale della occupazione c.d. acquisitiva che si è formata proprio sul duplice presupposto strutturale dell’atto di esproprio annullato dal giudice amministrativo e della intervenuta irreversibile trasformazione del bene adibito dalla p.a. ad utilizzazione pubblica.


  36. Sull’irrinunciabilità del potere cfr. M. CLARICH, Giudicato…, cit., p. 233. Si vedano anche E. CANNADA BARTOLI, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, p. 94 e F. BASSI, Contributo allo studio delle funzioni dello Stato, Milano, 1969, p. 105.


  37. Per un esempio recente di rinnovazione in corso di causa del provvedimento amministrativo viziato dal difetto di motivazione, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo-20 luglio 1999 n. 847, in Guida al Diritto-Il Sole 24 Ore, 1999, fasc. n. 36, p. 111, secondo cui “l’Amministrazione può rinnovare l’atto in corso di giudizio quando è stato impugnato per mero vizio di forma. Se così non fosse, l’Amministrazione sarebbe costretta ad attendere l’annullamento dell’atto per rinnovare solo a quella data il procedimento e per finalmente emanare un secondo atto emendato dal vizio formale, con intollerabile appesantimento della sua azione e frustrazione delle aspettative degli interessati”.


  38. A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti .., cit., p. 402.


  39. E. FERRARI, La decisione giurisdizionale…, cit., p. 605.


  40. G. DE FINA, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, in Riv. It. Sc. Giurid., 1971, p. 108.


  41. G. GRECO, L’accertamento autonomo…, cit., pag. 177.


  42. V. CAIANIELLO, Diritto processuale amministrativo, Utet, 1988, p. 763; ma vedi già dello stesso Autore, Lineamenti del processo amministrativo, Utet, 1979, 2^ ed., p. 321.


  43. Cons. Stato, Sez. IV, 28/05/1993, n.569, in Rass. Cons. Stato, 1993, I, p. 630.


  44. M. NIGRO, Sulla riproduzione dell’atto amministrativo annullato in sede giurisdizionale per difetto di motivazione, in Foro it., 1958, III, col. 42 e segg. Una variazione della posizione assunta da NIGRO è quella di M. CLARICH il quale (Giudicato…, cit., p. 234) espressamente afferma che il punto cruciale del problema della motivazione “non è se il vizio… vada qualificato come un vizio formale o sostanziale, quanto se e in che modo dal vizio della motivazione si possa risalire all’esistenza (o l’inesistenza) dei fatti costitutivi del potere”, potendosi dare due casi: “o i fatti costitutivi del potere esistono effettivamente, ma la motivazione ne dà conto in modo insufficiente, scorretto o contraddittorio, oppure il vizio della motivazione nasconde l’inesistenza dei fatti costitutivi del potere”. L’A. tuttavia non indica in che modo si debba risalire all’esistenza o meno dei presupposti costitutivi del potere.


  45. La distinzione è inutile alla luce della concezione sostanziale.


  46. M. NIGRO, Sulla riproduzione.., cit., col 43.


  47. Ibidem.


  48. Per l’importante distinzione logica cfr. G. TREVES, Vizio della motivazione .., cit., col. 12.


  49. G. TREVES, Vizio della motivazione …, cit., col. 9.


  50. M.S. GIANNINI, Atto amministrativo (voce), in Enc. Dir., Vol. IV, col 177 dex.


  51. Cfr. le annotazioni critiche di A. AZZENA, op. cit., p. 321.


  52. Cfr. in tal senso F. LEDDA, Il Rifiuto…, cit., p. 214 e 219.


  53. G. BERGONZINI, Difetto di motivazione…, cit., p. 199.


  54. M.S. GIANNINI, Problemi attuali della giurisprudenza amministrativa, in Dir. proc. amm., 1984, p. 167 citato in M. CLARICH, Giudicato e potere amministrativo, Padova, Cedam, 1989, p. 19.


  55. Sulla connessione della maggiore conoscenza del fatto con una più piena tutela giurisdizionale si veda la limpida ricostruzione di U. POTOTSCHNIG, Origini e prospettive del sindacato di merito nella giurisdizione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1969, p. 499 e ss., e in particolare ved. p. 521, che individua l’essenza storica della giurisdizione di merito nell’esigenza di consentire una piena conoscenza dei fatti da parte dell’organo giurisdizionale. Cfr. anche G. VACIRCA, Riflessioni sui concetti di legittimità e di merito nel processo amministrativo, in Studi per il Centocinquantenario del Consiglio di Stato, parte III, 1981, Roma, p. 1588 che acutamente focalizza l’analisi sul punto che il sindacato sul fatto è stato accomunato a quello sulla valutazione discrezionale in quanto ”la giurisprudenza italiana ha seguito l’orientamento secondo cui le categorie indeterminate non indicano un tipo di fatti, presupposti del provvedimento, ma concorrono alla descrizione dell’interesse pubblico”; per la medesima riflessione cfr. anche F. LEDDA, Potere, tecnica…, cit., p. 424.


  56. G. GRECO, L’accertamento cit., p. 193 e pag. 209. Si veda anche G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1992, fasc. 3, pag. 492 per la, forse, non sempre, adeguatamente, considerata constatazione che l’esigenza di concentrazione in un unico giudizio dell’intero conflitto sostanziale tra ricorrente e P.A. non è una componente necessaria ed obbligatoria del processo, perché non è da escludere (valendo il principio dispositivo) “che le parti si accontentino di un mero giudizio impugnatorio sull’atto che colga solo taluni aspetti del rapporto amministrativo (il ricorrente ad esempio, perché confida nell’effetto traumatico e dirompente dell’annullamento, l’Amministrazione, perché si riserva di far valere in un secondo tempo preclusioni sostanziali, ecc.)”. Per la tesi che i due problemi, quello dell’accesso al fatto e quello dell’oggetto del giudizio, siano tra loro distinti ”nel senso che l’adesione alla tesi sostanzialistica (giudizio sul rapporto) non debba necessariamente comportare come conseguenza l’adesione alla tesi della cognizione piena del fatto da parte del giudice, senza condizionamento alcuno e, quindi, ove appaia necessario, anche attraverso la prova testimoniale“, ved. V. CAIANELLO, Rapporti tra procedimento amministrativo e processo, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1993, fasc. n. 2, p. 255.


  57. Si veda l’art. 10, comma 1° L. n. 205/2000 che anticipa alla sentenza di primo grado non sospesa la possibilità di esigere l’ottemperanza da parte della p.a.


  58. Ved. G. GRECO, op. cit., p. 204.


  59. Ved. M. CLARICH, Giudicato.., cit., p. 18 e ss.; M. S. GIANNINI, Problemi .., cit., p. 16.


  60. M. CLARICH, Giudicato.., cit., p. 19.


  61. E. FOLLIERI, Risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, Chieti, 1984, p. 78 ss.


  62. Ved. E. FERRARI, La decisione giurisdizionale amministrativa: sentenza di accertamento o sentenza costitutiva?, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1988, fasc. n. 4, p. 592 la cui proposta si sostanzia nel rilevare che “…nell’attuale situazione il problema centrale della decisione giurisdizionale amministrativa risulta allora essere non tanto quello di riconoscerle natura di sentenza di accertamento per via interpretativo-ricostruttiva o tramite la previsione di un’apposita azione, quanto di ricavare dal contenuto di accertamento che tale sentenza ha in quanto sentenza tutti gli effetti costitutivi che appunto da tale accertamento derivano”.


  63. D. RUBINO, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939, p. 3 dove la fattispecie concreta è descritta come “una fattispecie corrispondente a quella astratta, ma pensata nel suo storico divenire”.


  64. M. CLARICH, Giudicato …, cit., p. 2 e ss.; per la prospettiva metodologica che riconosce un ruolo primario ai limiti oggettivi del giudicato rispetto all’ampiezza ed alla portata del giudizio di ottemperanza cfr. R. VILLATA, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1989, fasc. 3, pag. 376-378 e in particolare pag. 380 lì dove si dice che “tra la decisione giudiziale e la successiva azione amministrativa intercorre non un generico rapporto di coerenza, sibbene un vincolo di ampiezza variabile sì, ma per il problemi inerenti ai limiti oggettivi del giudicato cui dà contenuto e sostanza all’obbligo di adempimento”. Sulla stessa linea ricostruttiva è la decisione del Cons. Stato, Sez. V, 15/10/1989 n. 556, in Cons. Stato 1989, I, 1542 e ss.


  65. Così B. SASSANI, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto (ottemperanza amministrativa e tutela civile esecutiva), Milano, 1997, p. 116.


  66. M. CLARICH, L’effettività della tutela…, cit., p. 549.


  67. M. CLARICH, op. ult. cit., p. 549. Per le obiezioni alla tesi del giudizio di ottemperanza come <prosecuzione del giudizio amministrativo> v. G. GRECO, L’accertamento autonomo …, cit., p. 208, secondo cui “siffatta applicazione giurisprudenziale non può essere condivisa, anche se scaturisce da ovvie esigenze equitative. Le ridotte garanzie del contraddittorio e la mancanza del doppio grado di giudizio sono, a parer mio, argomenti decisivi per escludere che il giudice dell’ottemperanza possa esercitare così ampi poteri cognitori e decisori”.


  68. In tal senso G. GRECO, L’accertamento autonomo…, cit., p. 209.


  69. L. IANNOTTA, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1998, fasc. n. 2, p. 340.


  70. Così G. VERDE, Ma che cos’è questa giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1993, fasc. n. 4, p. 613.


  71. Per la tesi che l’effetto eliminatorio non precede necessariamente dal punto di vista logico e cronologico gli altri effetti e per l’inutilità dell’annullamento in ipotesi in cui si possa perseguire l’effetto ripristinatorio o quello conformativo, prescindendo da quello eliminatorio cfr. F. PUGLIESE, Note minime in tema di <accertamento> e di effetti della decisione amministrativa di accoglimento del ricorso, in Riv. dir. proc. amm., 1993, fasc. n. 4 rispettivamente, pag. 652 e segg., pag. 654 e segg. Lo stesso autore ritiene applicabile la sua impostazione anche nel caso di annullamento per vizi formali, nel senso che si potrebbe subordinare l’annullamento alla verifica di accoglibilità della sua pretesa sostanziale (op. cit., p. 655).


  72. G. ABBAMONTE, Sentenza di accertamento ed oggetto del giudizio amministrativo di legittimità e di ottemperanza, in Scritti giuridici in onore di M.S. GIANNINI, Milano, 1988, Vol. I, p. 27.


  73. Per questo spunto di riflessione cfr. M. CLARICH, L’effettività della tutela…, cit., p. 548.


  74. Cfr. M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, cit., p. 518; ved. anche M. NIGRO, Problemi …, cit., p.1843.


  75. M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, cit., p. 518.


  76. M. NIGRO, Problemi …, cit., p.1843-1844.


  77. Si adotta la terminologia di P. M. VIPIANA, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Padova, 1993, Cedam, p. 95-96.


  78. Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 27-10-1970 n. 4, in Foro Amm., 1970, I, 2, p. 935; Cons. Stato, Ad. Plen., 1-07-1975 n. 7, in Rass. Cons. Stato, 1975, I, p. 693.


  79. Cfr. G. GRECO, Per un giudizio di accertamento…., cit., p. 488 che evidenzia come in Italia il ruolo del Giudice amministrativo appaia quello del “Giudice del potere esercitato e non del Giudice del potere da esercitare; appare quello del Giudice del rescindente (rispetto all’atto amministrativo), più che del rescissorio (ricostruzione dell’esatto modo di esercizio del potere)”. E’ importante in proposito ricordare che il NIGRO, riprendendo il tema degli effetti della sentenza di accoglimento, e ponendo la distinzione tra effetto di ripristinazione ed effetto conformativo, ha chiarito come l’accertamento dell’illegittimità dell’atto, visto al rovescio, non rappresenti altro che la determinazione del “modo come, con riferimento ai profili emersi nel giudizio per richiesta del ricorrente, il potere avrebbe dovuto essere esercitato e non è stato” (così in Giustizia Amministrativa, III, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 387).


  80. Si vedano le notazioni sollevate da M. NIGRO nell’opera Giustizia …, cit., p. 393.


  81. M. NIGRO, Giustizia….., cit., p. 395. Un tentativo originale di superamento della tesi del NIGRO, per la quale non v’è spazio per altro tipo di vincoli a carico della p.a. che travalichino ciò che è stato dedotto in giudizio, è stato proposto da M. CLARICH nella sua opera intitolata “Giudicato e potere…”, cit.


  82. G. GRECO, L’accertamento…, cit., 189 e 193. Cfr. B. SASSANI, op. cit., p. 116 dove esclude che gli annullamenti per i motivi squisitamente formali riguardino il potere amministrativo, derivandone una sentenza carente della fissazione della reciproca posizione delle parti. Per una massima di estrema chiarezza cfr. T.A.R. Lazio, Sez. I, 20/5/1987 n. 1090 in Foro Amm., 1987, p. 2725, secondo cui “l’annullamento della previsione del vincolo urbanistico, allorché causato per il vizio formale di difetto di motivazione (e, quindi, non per un vizio sostanziale capace di garantire di per se stesso ed in modo diretto, la voluta utilità, incanalando vincolatamente il potere della p.a), è insuscettibile di condurre autonomamente la soddisfazione dell’interesse concreto del ricorrente dato che rimane impregiudicata la potestà dell’ente locale di scegliere anche la conferma del vincolo già imposto corredandola con una congrua motivazione”.


  83. Cfr. E. CASETTA, Diritto soggettivo…, cit., p. 621. Vedi anche P. STELLA RICHTER, L’aspettativa di provvedimento, in Riv. trim. dir. pubbl., 1981, p. 19 secondo cui “è chiaro infatti che l’annullamento pronunciato per vizio meramente procedimentale non ha né può avere alcun riflesso sostanziale sull’ulteriore svolgimento dell’attività amministrativa”. Secondo M. CLARICH, Giudicato e potere…, cit., p. 232 “Nell’ipotesi in cui il ricorrente deduca soltanto vizi formali dell’atto di esercizio del potere (…) l’eventuale pronuncia di accoglimento non preclude alla pubblica amministrazione di emanare un nuovo atto, avente lo stesso contenuto di quello annullato, depurato dai vizi rilevati, sempre che sussistano ancora i presupposti sostanziali che legittimano l’esercizio del potere”.


  84. Per questa tesi v. già BODDA, Giustizia amministrativa, 5^ ed. 1950, p. 19, dove evidenziava che l’ipotesi in cui il vizio formale sia dedotto come unico motivo di ricorso è ammissibile solo se la pronuncia di accoglimento del ricorso sia idonea a soddisfare la pretesa del ricorrente ”a che l’atto sia in effetti predisposto in modo da avere, anche solo eventualmente, un diverso contenuto”. Quest’ultimo Autore veniva citato da A. PIRAS (Interesse legittimo…, cit., p. 451 nota 103 – p. 453 nota 107 – p. 457 nota 112) per dimostrare che l’ipotesi dell’annullamento dell’atto in conseguenza di vizi meramente formali non costituisse ostacolo alcuno a riconoscere il carattere finale della tutela giurisdizionale amministrativa. Si veda, però, E. CASETTA, Diritto soggettivo e interesse legittimo: problemi della loro tutela giurisdizionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, p. 62 nota 25, che criticava la tesi di Bodda con il rilievo che la soddisfazione della pretesa del singolo al diverso contenuto di un atto, altro non è se non la soddisfazione del suo interesse materiale che da tale diverso atto verrebbe realizzato. Ora, ammettere che tale soddisfazione sia soltanto potenziale, vuol dire ammettere che possa non essere ottenuta (corsivo nostro)…, onde il termine pretesa non pare appropriato”. Allo stato è in corso di esame in parlamento un disegno di legge che introduce una norma (art. )…


  85. Espressamente in tal senso cfr. Cons. Stato, V Sez., 5 luglio 1991, n. 999, in Giur. It., 1992, II, col. 124.


  86. Cons. Stato, Sez.V, 15/03/1990, n.287, in Foro Amm., 1990, p. 652.


  87. A. ROMANO TASSONE, I problemi di un problema. Spunti in tema di risarcibilità degli interessi legittimi, in Riv. trim. dir. amm., 1997, fasc. 1, p. 73. Per la tesi che la violazione di regole formali da parte della P.A. non conduca all’annullamento ogni qualvolta sia applicabile il principio del raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c) cfr. E. FOLLIERI, Lo stato dell’arte della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Possibili profili ricostruttivi, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1998, fasc. 2, p. 274. Sul versante della tutela nei confronti del silenzio della P.A. la Giurisprudenza ribadisce che l’oggetto del processo è anche l’esame della fondatezza della pretesa sostanziale prospettata dall’interessato (cfr. Cons. Stato, V Sez., 12 marzo 1996 n. 251 in Giorn. dir. amm., 1997, p. 327 e ss, con nota di COLUCCI, cit. da M. CLARICH, L’effettività della tutela…, cit., p. 549).


  88. F. SATTA, L’esecuzione del giudicato amministrativo di annullamento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, p. 992.


  89. F. SATTA, L’esecuzione.., cit., p. 996.


  90. F. LEDDA. Potere, tecnica…, cit., p. 438.


  91. F. LEDDA, op. ult. cit., p. 438 nota 161.


  92. Così M. E. SCHINAIA, Il controllo del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità della pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1999, fasc. n. 4, p. 1108,


  93. Per la tesi dell’insufficienza del controllo esterno ancorato a criteri di mera logica formale v. F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1983, fasc. n. 4, p. 422-423. Di particolare intesse è l’opinione di G. BERTI, Momenti della trasformazione della giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, fasc. n. 4, p. 1886 secondo cui tutto il dibattito sull’oggetto del giudizio amministrativo non ha colto l’aspetto più significativo dei limiti del giudizio riconnessi alla questione di legittimità che, invece, si traduce in concreto nel problema dei limiti della conoscenza del fatto da parte del giudice e conseguentemente dell’efficacia della sua sentenza. Ved. Anche F. BASSI, L’eccesso di potere per difetto di motivazione, in Scritti per M. NIGRO, vol. III, 1991, Milano, p. 73-74, dove osserva che l’intera problematica della motivazione del provvedimento amministrativo risulta essere strettamente correlata all’ampiezza dei poteri di cognizione che si vogliono riconoscere al giudice amministrativo di legittimità.


  94. P. STELLA RICHTER, L’aspettativa…, cit., p. 19. Per un analogo ordine di idee cfr. M. CLARICH, L’effettività della tutela dell’esecuzione delle sentenze del Giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1998, fasc. n. 3, p. 547-548 secondo cui “l’effettività della tutela del cittadino postula peraltro che la fase dell’esecuzione della sentenza segua a una fase di cognizione nella quale gli accertamenti compiuti dal giudice della legittimità, pur nel rispetto del principio della domanda, siano estesi a tutti i profili rilevanti per stabilire se il <bene della vita> che il cittadino vuol conseguire o difendere gli spetti o meno. (…) In molti casi ciò non avviene in quanto il giudizio di legittimità risulta povero di accertamenti vincolanti così che, alla fin fine, di attribuzione di un <bene della vita> può parlarsi soltanto in senso per così dire metaforico e non in un’accezione propriamente tecnico-giuridica”.


  95. A. AZZENA op. cit., p. 261.


  96. A. AZZENA op. cit., p. 179 e ss.


  97. F. LEDDA, Problema amministrativo e partecipazione al procedimento, in Riv. trim. dir. amm., 1993, fasc. 3, p. 161. In uno scritto precedente lo stesso Autore aveva già avvertito che “il solo fatto che enunciati ed asserzioni siano coerenti sotto il profilo di logica formale non vale certo a garantire l’accettabilità della soluzione accolta” (F. LEDDA, L’attività amministrativa, in Il diritto amministrativo degli anni ’80, Milano, 1987, p. 91).


  98. A. AZZENA, op. cit., p. 163 il quale riprende la nota tesi del CALOGERO, La logica del Giudice…, cit., p. 48 e 293. Si veda anche F. LEDDA, Potere, tecnica…, cit., p. 422-423 che sottolinea come il “sindacato esterno ancorato a criteri di logica formale non può di per sé stesso considerarsi sufficiente: neanche il più attento vaglio critico del ragionamento svolto dall’amministrazione può equivalere a una verifica diretta dell’apprezzamento tecnico, e consentire un appagante risposta in ordine alla questione concernente l’adeguatezza del criterio assunto a base del medesimo, nonché la correttezza delle operazioni condotte in sede amministrativa. Talvolta sotto il manto di un’argomentazione ineccepibile nel suo aspetto logico – formale possono celarsi errori di valutazione tecnica talmente gravi, da inficiare radicalmente la soluzione del problema”. Ved. anche P. M. VIPIANA, Introduzione al principio di ragionevolezza.., cit., p. 72 e ss. che, sul piano logico, distingue tra ragionevolezza in senso oggettivo (attinente al conseguimento delle corrette conclusioni da certe premesse) e ragionevolezza in senso soggettivo (attinente alla predisposizione delle premesse).


  99. C. d. G. A., 20-04-1993 n. 149, in Foro it., 1993, III, col. 616 ss., con nota redazionale. Questa decisione ha dato spunto ad un dibattito dottrinale specifico in tema di motivazione successiva: G. VIRGA, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell’interesse alla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato, in Dir. proc. amm., 1993, fasc. 3, p. 507 ss.; A. ZITO, L’integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento: una questione ancora aperta, in Dir. proc. amm., 1994, fasc. 3, p. 577 e ss.; S. GIACCHETTI, Fontanazzi giuridici: l’integrazione in corso di giudizio del provvedimento impugnato, in Dir. proc. amm., 1995, fasc. 1, p. 19 e ss.


  100. A. ZITO, L’integrazione in giudizio della motivazione…, cit., p. 584. Per la tesi dell’irregolarità cfr. A. ROMANO TASSONE, Contributo sul tema dell’irregolarità degli atti amministrativi, Giappichelli, Torino, 1993, p. 102, secondo cui “…nell’immediato futuro è facile prevedere che quelle formalità, richieste proprio e soltanto in funzione della legittimazione del provvedimento nei confronti dell’opinione pubblica, vengan in gran parte ritenute mere condizioni di regolarità dell’atto amministrativo, e che la loro violazione non conduca quindi all’invalidità dell’atto stesso. E’ questo il caso, ad esempio, della prescrizione dell’art. 3 della L. n. 241/1990, che impone la motivazione di tutti i provvedimenti amministrativi, anche di quelli vincolati o di particolare semplicità. Tale disposizione, fortemente contestata come causa di inutile intralcio all’attività amministrativa, sembra particolarmente prestarsi ad una sorta di ‘derubricazione’, almeno per le ipotesi i cui il dovere di motivazione non era prima normalmente riconosciuto dalla giurisprudenza”.


  101. S. GIACCHETTI, Fontanazzi giuridici…, cit., p. 22.


  102. G. VIRGA, Integrazione della motivazione …, cit., p. 526-527.


  103. Così G. VIRGA, op. cit., p. 533 che evidentemente si richiama alla ben nota definizione di giustificazione introdotta da C.M. IACCARINO (Studi sulla motivazione, con speciale riguardo agli atti amministrativi, Soc. editrice del “Foro italiano”, Roma, 1933, , p. 43).


  104. A. ANDREANI, op. cit., p.17.


  105. op. loc. ult. cit., p. 18; sostanzialmente conforme G. MEZZAPESA, Il divieto di integrazione in corso di giudizio della motivazione: un principio ancora saldo nel nostro ordinamento giuridico, Dir. proc. amm., 1996, fasc. 2, p. 382 e ss.


  106. A. ZITO, op. cit., p. 585.


  107. A. ZITO, op. cit., p.585.


  108. A. ROMANO TASSONE, op. cit., p. 2.


  109. La dottrina, in prosecuzione logica con le risultanze conseguite prima dell’entrata in vigore della L. n. 241/90, ha richiamato l’attenzione sul mutamento dei termini del dibattito in tema di motivazione imposto dalla novella del 1990, ponendo al centro dell’analisi il problema dei requisiti della motivazione (estensione e profondità che il discorso motivante deve possedere), dovendosi ritenere ormai superati e risolti dal legislatore sia l’aspetto dell’obbligo di motivazione che quello sul concetto di motivazione (A. ROMANO TASSONE, Legge sul procedimento e motivazione del provvedimento amministrativo. Prime osservazioni, in Scritti in onore di P. VIRGA, II, 1994, p. 1589-1590).


  110. Cfr. in tal senso G. CORSO – F. TERESI, op. cit., p. 58.


  111. Usiamo intenzionalmente il termine “apparente” in quanto, come si vedrà più avanti, gli sviluppi della nostra ipotesi ricostruttiva vanno in senso opposto.


  112. Cfr. M.S. GIANNINI, Motivazione…, cit., p. 268.


  113. La dottrina più recente ha senza mezzi termini osservato che il concetto di motivazione “se pur cristallizzato dal legislatore nell’art. 3, L. 241/90, resta a tutt’oggi uno degli oggetti misteriosi della riforma del 1990” (così L. TARANTINO, Wittgenstain, Mortati, e l’integrazione della motivazione in giudizio, in Urbanistica e appalti, 2002, fasc. 8, p. 942 col. dex).


  114. Così M. DI GIORGIO, Innovazioni in tema di motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato giurisdizionale, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1998, fasc. 3, p. 609.



  115. Per il Consiglio di Stato “..la garanzia di adeguata tutela delle proprie ragioni non viene meno per il fatto che nel provvedimento finale non risultino chiaramente e compiutamente esplicitate le ragioni sottese alle scelte, allorché le stesse possano essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento” (così Cons. Stato, Sez. IV, 29-04-2002 n. 2281; Cons. Stato, Sez. IV, 09 ottobre 2000 n. 5346, in www.giustizia-amministrativa.it); nello stesso senso Cons. Stato, Sez. V, 26 gennaio 1998 n. Cons. Stato, IV, 26 gennaio 1998 n. 66, posto che la funzione propria della motivazione può ritenersi assicurata allorquando è idonea, al di là della sinteticità, a consentire all’interessato di ricostruire l’iter logico seguito dall’amministrazione e quindi a valutare ed eventualmente contestare la ragionevolezza delle scelte (Cons. Stato, IV, 18 gennaio 1996 n. 56; 6 maggio 1996 n. 569). Tuttavia l’orientamento in parola non impedisce al Supremo Consesso di accogliere la censura di difetto di motivazione allorquando “non v’è alcun elemento che leghi logicamente, ancor prima che giuridicamente, le generali considerazioni svolte nella parte motiva con quella dispositiva oggetto di contestazione” e nessuno dei richiami operati nel provvedimento impugnato “dà conto di come essi abbiano concretamente ed effettivamente, secondo un necessario rapporto logico-giuridico di causa/effetto, influito sulla decisione oggetto di impugnativa” (così Cons. Stato, Sez. IV, 29-04-2002 n. 2281).



  116. M. DI GIORGIO, Innovazioni .., cit., p. 611.



  117. A. ANDREANI, Idee per un saggio.., cit., p. 4-5.



  118. A. ANDREANI, Idee per un saggio.., cit., p. 10-11. Sembra aderire a questa impostazione R. SCARCIGLIA, La motivazione …, cit., p. 304-305.



  119. Così A. ANDREANI, Idee per un saggio.., cit., p. 9. Secondo G. MEZZAPESA (Il divieto di integrazione…, cit., p.388) l’art. 3 L.n. 241/90 introduce una disciplina “rigidamente formalistica sulla necessità e sufficienza della motivazione che determina una chiara involuzione rispetto all’orientamento sostanzialista verso cui invece sembra orientarsi la dottrina più recente e da cui il principio di una impossibilità di una integrazione successiva della motivazione sembra discendere come logico corollario”. Nel medesimo senso dei due Autori citati cfr. anche L. TARANTINO, Wittgenstain, Mortati, e l’integrazione della motivazione in giudizio, cit., pag. 946 col. sin. Contra ved. A. ROMANO TASSONE (Legge sul procedimento e motivazione.., cit., passim, in particolare p. 1606) che espressamente afferma che “la legge sul procedimento amministrativo nel suo complesso (…) tende a ridurre nettamente la rilevanza della motivazione del provvedimento ai fini di tale sindacato”. Secondo G. CORSO (Motivazione dell’atto amministrativo (voce), in Enc. dir., IV aggiornamento, 2001, p. 775, col. sin.) “La prospettiva di una ‘dequotazione’ della motivazione, ossia di una perdita di rilevanza dell’esternazione in dipendenza di una crescente attenzione della giurisprudenza alle ragioni sostanziali quali risultano anche dagli atti preparatori, è stata smentita”.



  120. A. ANDREANI, Idee per un saggio.., cit., p. 10.



  121. M. DI GIORGIO, op. cit., p. 613. Nel medesimo senso cfr. anche L. TARANTINO, Wittgenstain, Mortati, e l’integrazione della motivazione in giudizio, cit., pag. 946 col. sin.



  122. Infatti, lo stesso A. ROMANO TASSONE, pur essendo il maggiore teorico della motivazione in funzione del sindacato di opinione pubblica, è contrario all’ammissibilità della motivazione successiva (Motivazione dei provvedimenti…., cit., p. 397).



  123. M. DI GIORGIO, op. cit., p. 618.



  124. A. ZITO, Impugnazione.., cit., p. 579.



  125. Così A. ROMANO TASSONE, Legge sul procedimento e motivazione…, cit., p.1597.



  126. In tal senso sembra Cons. Stato, Sez. IV, 30-03-1998 n. 504 (in Rass. Cons. Stato, 1998, fasc. 3, p. 377 e ss.) secondo cui “deve infatti ritenersi necessaria e sufficiente alla luce dei parametri ispiratori della legge n. 241/90, la indicazione, nel provvedimento di controllo, della c.d. giustificazione, ovvero della esternazione dei presupposti di fatto e la individuazione delle norme giuridiche”.



  127. C.M. IACCARINO, Studi sulla motivazione.., cit., p. 9°.



  128. Cfr. F. PAPARELLA, Studi sulla presupposizione nel diritto pubblico, Bari, 1974, p. 140 e ss. secondo cui “il condizionamento dell’ordinamento positivo alla produzione di un effetto giuridico è posto tuttavia in essere, quando si verifica, da un fatto della vita reale, che prospetta la propria tipica struttura in forme esterne peculiari ed imprevedibili”, il cui trapasso dalla astratta tipicità alla originale e vivente concretezza “richiede per ciò l’esternazione, in una dichiarazione del soggetto, della rappresentazione del modo di essere storico del fatto”; “il fatto storico rappresentato è l’oggetto del negozio ed entra a sua volta a far parte della fattispecie negoziale“.



  129. Sostanzialmente in questo senso E. PRESUTTI, I limiti del sindacato di legittimità, Società editrice libraria, Milano, 1911, p. 124 secondo cui la motivazione “non in altro è necessario consista che nella esposizione delle circostanze di fatto, in vista delle quali l’amministrazione emana l’atto. La dimostrazione del concatenamento logico fra questi fatti e l’oggetto del provvedimento in base alla norma giuridica, è perfettamente inutile. E’ cioè perfettamente inutile che nel provvedimento sia esposta l’argomentazione in base a cui si dimostri l’esattezza dell’accolta interpretazione della norma giuridica, e della fatta applicazione della norma alle circostanze di fatto. Ciò perché chi sindaca l’atto può, obbiettivamente considerando tali questioni e prescindendo onninamente dalla dimostrazione eventualmente contenuta nell’atto sottoposto al suo sindacato, vedere se effettivamente gli assunti presupposti di fatto giustificano la emanazione del provvedimento. Qualunque errore si contenga nella dimostrazione di questo nesso non potrà impedire di constatare che questo nesso vi è, se effettivamente sussiste“.
    Per un’ipotesi di motivazione, invece, intesa come dimostrazione di concatenamento logico tra decisione assunta e atti e fatti emergenti dal procedimento cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 1999, n. 287, in Rass. Cons. Stato, 1999, I, p. 370 secondo cui “La verifica della logicità “estrinseca” dell’esercizio del potere amministrativo si incentra sulla motivazione del provvedimento, per cui ai fini della sua sufficienza non basta la mera verosimiglianza del ragionamento espresso, ma occorre che sia evidenziato un nesso di conseguenzialità e proporzione delle varie conclusioni con gli atti effettivamente acquisiti al procedimento e con le premesse fattuali emergenti da ciascuno di essi”.



  130. In questo senso M. DI GIORGIO, Innovazioni…, cit., p. 609.



  131. A. ANDREANI, Idee per un saggio…, cit. p. 4. Per la rielaborazione generale del tema della motivazione sia consentito rinviare a A. GUANTARIO, Dequotazione della motivazione e provvedimento amministrativo, in Nuova Rass., 2002, fasc. 21, pagg. 2229 e ss.



  132. Si accoglie la definizione di A. FALZEA, Manifestazione -teoria generale- (voce), in Enc. Dir., vol. XXV, Varese, 1975, pag. 442, secondo cui “il fatto manifestante è tale perché contiene in sé il riferimento ad un fatto diverso” e si offre nella sua materiale presenza alla osservazione sensibile.



  133. Cfr. A. FALZEA, Manifestazione…, cit., p. 442, per il quale “il fatto manifestato entra in gioco esclusivamente in virtù del riferimento contenuto nel fatto manifestante”. Il primo “è indicato per allusione o richiamo mentre non è materialmente presente e non è osservabile coi sensi”. La sua dimensione “è quella della immaterialità” (Manifestazione…, cit., p. 442.



  134. Così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 20-12-1997 n. 2298, in Foro Amm., 1998, fasc. 1, p. 117.



  135. Cons. Stato, Sez. IV, 22-12-1998 n. 1866, in Rass. Cons. Stato, 1998, fasc. 12, I, p. 1925; idem Cons. Stato, Sez. IV, 26-01-1998 n. 66, in Foro Amm., 1998, p. 32.



  136. G. TREVES, Vizio della motivazione…, cit., p. 8 e ss.



  137. Illustra con efficacia la distinzione tra difetto della motivazione e difetto dei motivi che appare nella motivazione (visto come vizio della funzione) G. BERGONZINI, Difetto di motivazione del provvedimento amministrativo ed eccesso di potere <a dieci anni dalla legge 241 del 1990>, in Dir. amm., fasc. 2, 2000, p. 208.



  138. Ved. la tesi di E. PRESUTTI, I limiti …, cit., p. 124.



  139. F. LEDDA, Il rifiuto …, cit., p. 268 col sin.



  140. Così M. S. GIANNINI, Motivazione …, cit., p. 268 col. sin.



  141. M. S. GIANNINI, Motivazione …, cit., p. 267. Contra A. ROMANO TASSONE secondo il quale “affermare la possibilità di muovere contro la motivazione non significa ancora dimostrare la possibilità di fare a meno di essa” (Motivazione dei provvedimenti…, cit., p. 202. A sostegno della sua tesi l’Autore adduce che “chi debba dimostrare illegittima una decisione priva di corredo motivo è costretto, a rigore, a provare la insussistenza di tutte senza eccezione le condizioni, positive e negative, che potrebbero giustificare la decisione stessa” (Motivazione dei provvedimenti.., cit., p. 202). A nostro avviso, questa opinione appare legata a schemi derivati da un sindacato di legittimità di natura formale, posto che non prende in considerazione la ricca casistica giurisprudenziale formatasi sull’ipotesi dell’eccesso di potere per manifesta illogicità e/o irragionevolezza desumibile dall’esame della “situazione reale”, che, come è stato osservato, non ha di mira la categoria di ciò che è ragionevole, ma si limita ad individuare ciò che non lo è (sul punto cfr. P.M. VIPIANA, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza.., cit., p. 32, secondo cui “la ragione d’essere dello studio in negativo della ragionevolezza va probabilmente ravvisata nel modo cui quest’ultima è stata intesa dalla giurisprudenza dei giudici amministrativi, sulla disamina della quale si è palesemente formata la dottrina in questione: il rilievo giurisprudenziale della ragionevolezza emerge proprio quando essa difetti, o comunque allorchè si assuma la sua mancanza“). In definitiva l’esame della situazione reale da parte del Giudice consente senz’altro di formulare un giudizio di (in) fondatezza delle censure di manifesta illogicità e/o irragionevolezza mosse dal ricorrente avverso la decisione impugnata.



  142. M. CLARICH, Giudicato…, cit., p. 234.



  143. Per questa prospettazione cfr. V. MAZZARELLI, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. Giurid. TRECCANI (Voce), p. 6 col. sin. Analogamente cfr. P. BARTOT, La motivazione tra vizio formale…, cit., p. 473-474 secondo cui “la sicurezza che in un eventuale giudizio la legittimità dell’atto possa essere riscontrata anche con mezzi diversi dalla motivazione induce, infatti, l’autorità agente ad attenuarne l’importanza, sottraendo così a chi si ritenga leso dal provvedimento l’unico strumento per valutare le ragioni che lo sostengono”.



  144. F. LEDDA, Il rifiuto…, cit., p. 222.



  145. Si veda T.A.R. Veneto, Sez. I, 16 febbraio 1987, n. 161, (in Foro Amm., 1988, fasc. 1-2, p. 188 e ss.) per un’ipotesi di accoglimento della censura di eccesso di potere conseguente all’esame degli atti del procedimento prodotti dall’Amministrazione nel corso del processo al dichiarato scopo di superare la censura di difetto di motivazione intesa come mancata esternazione dei motivi dell’atto.



  146. T.A.R. Sardegna, 14 maggio 1996, n. 683, in Rass. Trib. Amm. Reg., 1996, I, p. 2904.



  147. A. DE VALLES, op. cit., p. 142-143. Per un esempio giurisprudenziale emblematico v. T.A.R. Valle d’Aosta, 26-10-1988 n. 74, in Rass. T. A.R., 1988, fasc. n. 12, I, p. 3705, che, ritenuta obbligatoria la motivazione del provvedimento di esclusione da una gara, peraltro non comunicata alla ditta esclusa, ha finito, in realtà, per censurare sostanzialmente il fatto che ‘‘….non emerge da alcun atto della documentazione (per la verità assai scarsa) depositata in giudizio dall’amministrazione resistente, l’eventuale individuazione di criteri in base ai quali essa ha proceduto alla selezione delle imprese che hanno richiesto di partecipare alla gara, né, tantomeno , l’indicazione dei motivi in base ai quali talune imprese sono state escluse da detta partecipazione’’.



  148. M. NIGRO, Processo amministrativo…, cit., p. 6.