Della Responsabilità Civile diretta verso i terzi dei Dirigenti Comunali
(Criteri di imputazione e giudice del giudizio risarcitorio)

di
Antonio Guantario


1) Criteri di imputazione della responsabilità
Il nuovo ordinamento delle autonomie locali assoggetta gli amministratori e il personale degli enti locali alle disposizioni in vigore in materia di responsabilità degli impiegati dello Stato.
L’innovazione contenuta nell’art 58, primo comma, della Legge n. 142/90 (oggi trasfuso nell’art. 93, comma1° del T.U.E.L. D.P.R. N. 267/2000) era stata particolarmente auspicata sia in ambito dottrinale che giurisprudenziale. Il precedente ordinamento, infatti, da un lato, ignorava la responsabilità verso i terzi degli amministratori e dipendenti degli enti locali — per cui per dare applicazione al principio costituzionale dell’art. 28 si riteneva occorresse aver riguardo alla disciplina comune dell’illecito aquiliano — dall’altro, conteneva una configurazione della responsabilità verso l’amministrazione, non solo diversa da quella vigente per gli impiegati statali, ma anche diversa a seconda che si trattasse degli uni o degli altri. Il privato – persona fisica o giuridica – danneggiato da un atto illecito, dall’inerzia o silenzio imputabili a dipendenti pubblici, può citare in giudizio direttamente questi ultimi per far valere le proprie pretese risarcitorie.
La possibilità del danneggiato di agire giudizialmente nei confronti dell’autore del provvedimento o del comportamento contra jus, non preclude (ed è indipendente dal) l’esperibilità dell’azione risarcitoria anche nei confronti della pubblica amministrazione alla quale gli amministratori ed i dipendenti pubblici fanno capo, in ragione di vincoli funzionali.
L’esperienza giuridica ha dimostrato che la concorrente azione contro l’Ente – certamente molto più solvibile – ha reso, l’azione diretta contro l’agente del tutto residuale, il più delle volta finalizzata a realizzare un “pressione psicologica” e, spesso tesa a soddisfare più che esigenze di tutela, un vero e proprio risentimento personale [1].
Il tema della responsabilità dei dirigenti ex art. 28 Cost. si connette al vasto tema della responsabilità civile della p.a., e impone un approfondimento sulle conseguenze prodotte dalla caduta del muro dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo, per chiedersi se sia necessaria una revisione in parte qua (cioè riguardo ai dirigenti) dei consueti criteri di imputazione della responsabilità civile.
La responsabilità civile dei dirigenti pubblici ha carattere essenzialmente extracontrattuale [2], anche se il comportamento del funzionario determina una responsabilità contrattuale dell’ente verso terzi, ad es. perché colposamente ritarda, in un lavoro pubblico, la consegna dell’area o fa eseguire lavori con modalità dispendiose non previste dal progetto, o li sospende senza giustificazione, la conseguente responsabilità del funzionario non trova titolo nell’inadempimento di un rapporto contrattuale, bensì nell’inosservanza del dovere del neminem laedere e/o del dovere di corretta esecuzione dei propri compiti di servizio o di ufficio [3].
Ciò in quanto la responsabilità contrattuale dell’amministrazione non può estendersi al funzionario, dato che quest’ultimo non è parte contrattuale. Può incorrere nella responsabilità contrattuale solo chi è parte del rapporto giuridico. Se lo stipendio non viene pagato, chi trasgredisce l’obbligo è giuridicamente l’ente, non il funzionario, che personalmente non è vincolato da alcun obbligo di pagare. L’inadempimento dell’obbligazione da parte dell’ente è senz’altro omissione dei doveri di ufficio da parte della persona fisica che non ha agito; ma il terzo non può rivolgersi, nel caso, contro di lui, perché l’obbligo di adempiere spetta alla persona giuridica e non ad altri. La violazione del dovere di ufficio ha, in altri termini, direzione diversa che non l’inadempimento dell’obbligo. La prima riguarda l’ente, la seconda il danneggiato. In questa seconda ipotesi, tuttavia, non è escluso che il funzionario possa essere ritenuto responsabile per lesione di diritti relativi. L’art. 28 Cost., così come è formulato, si riferisce indifferentemente alla responsabilità contrattuale e a quella extracontrattuale: se è stato leso un diritto che trae origine da un rapporto obbligatorio oppure un diritto assoluto, il funzionario autore del fatto dannoso ne è responsabile personalmente, quando sussistano le altre condizioni alle quali tale responsabilità è subordinata (dolo o colpa grave, nesso di causalità).
Non può escludersi tout court la responsabilità extracontrattuale per lesione del credito ove si dimostri il nesso di causalità con la lesione del patrimonio del terzo: del resto la dottrina civilistica da tempo è giunta ad una lettura dell’art. 2043 c.c. che fa leva sulla ingiustizia del danno quale strumento che appresta al credito la c.d. tutela «esterna». È chiaro infatti che il titolo per cui il funzionario risponde è sempre extracontrattuale, con tutte le conseguenze (in punto di prescrizione, onere della prova del rapporto di causalità, onere della prova della colpa grave o del dolo ecc.).
Né contrasta con i principi che lo stesso fatto dannoso (es.: ritardata consegna dell’area) imputabile alla p.a. dia luogo a responsabilità contrattuale (e dunque vi sia coesistenza delle due forme di responsabilità).
Ciò chiarito, va innanzitutto escluso che la responsabilità solidale e diretta dei pubblici dipendenti sia limitata ai soli atti compiuti in violazione di diritti, e non anche in caso di lesione di posizioni di interesse legittimo (in favore di tale limitazione, Cons. Stato, VI, n. 4153/2005).
Infatti, il riferimento dell’art. 28 della Costituzione ai soli atti compiuti in violazione di diritti deve essere letto, da un lato, in relazione ad un periodo storico, in cui non era in alcun modo configurabile una responsabilità per danni causati per lesione di interessi legittimi e, dall’altro lato, unitamente al fatto che nella norma costituzionale è comunque contenuto un rinvio alle leggi penali, civili ed amministrative, che consente di adattare il principio alle evoluzioni dell’ordinamento.
L’art. 22 del T.U. n. 3/1957 si limita a far riferimento alla responsabilità verso terzi del dipendente per il danno ingiusto cagionato ed è noto come, a partire dalla sentenza n. 500/99 delle sezioni Unite, il concetto di danno ingiusto non sia più limitato ai danni causati alle posizioni di diritto soggettivo, ma includa anche quelli derivanti dalla lesione di interessi legittimi.
In tal senso deve oggi essere inteso anche il riferimento alla violazione di diritti, contenuto nell’art. 23 del citato T.U., riferito appunto al danno ingiusto e anche a situazioni di ritardo o omissione nel compimento di atti amministrativi (comma II), tipiche della lesione di interessi legittimi.
Ciò, premesso, è noto che la domanda di risarcimento proposta nei confronti dei funzionari deve essere sostenuta dal requisito del dolo o colpa grave [4].
Infatti, mentre per la responsabilità della pubblica amministrazione è sufficiente la colpa, anche lieve, dell’apparato, i pubblici dipendenti sono chiamati a rispondere, anche nell’azione diretta del terzo danneggiato, solo a titolo di dolo o colpa grave, come esplicitato dall’art. 23 del T.U. n. 3/1957, richiamato anche per gli altri settori del pubblico impiego, in cui la responsabilità verso i terzi dei dipendenti è limitata alle violazioni commesse con dolo o colpa grave. In particolare l’art. 93, comma 1° del T.U.E.L. D.P.R. N. 267/2000 espressamente dispone che “Per gli amministratori e per il personale degli enti locali si osservano le disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili dello Stato”.
Peraltro, tale limitazione, seppur con riferimento all’azione esperibile davanti alla Corte dei Conti, è stata ritenuta costituzionalmente legittima con argomentazione estensibili anche all’azione diretta del terzo (Corte Cost. n. 371/1998, in cui il giudice delle leggi ha ritenuto rispondente ai principi costituzionali l’intento del legislatore “di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore delle responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa”, riconoscendo che spetta al legislatore “determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo”).
Tali considerazioni inducono non solo a ritenere necessaria la sussistenza del requisito della colpa grave per riconoscere la responsabilità dei singoli dipendenti, ma anche a richiedere un maggiore onere probatorio al privato danneggiato, che intenda chiamare a rispondere, a titolo solidale, anche il funzionario.
A guardar bene la presenza di responsabilità diretta verso i terzi, che necessita di presupposti ben più impervi e difficili da dimostrare, non solo non è una garanzia per i cittadini, ma è una forma di interferenza nel potere in sé, pertanto è una non garanzia per tutti gli altri cittadini.
Se l’interesse al buon andamento va in conflitto con l’interesse dei terzi non ad essere risarciti (perché saranno comunque ristorati dallo Stato o dall’ente pubblico), ma ad attribuire la responsabilità diretta, è il primo che prevale. In altre parole, il principio fondante, neppure sottoponibile a revisione, ricavabile dall’art. 28 Cost. è quello della responsabilità civile diretta dell’amministrazione (principio del resto confermato e rinforzato dagli artt. 2, 24, 113); mentre la responsabilità civile dell’amministratore o del dirigente entra in bilanciamento con altri valori costituzionali. Questo è il ragionamento che in fondo, senza dirlo expressis verbis, ha seguito la Corte.
D’altra parte a questo risultato, che può apparire in contrasto con la lettera dell’art. 28 Cost., contribuisce anche la logica sbagliata che sta dietro all’art. 28 stesso. Come è stato dimostrato da Merusi, tale disposizione poggia su di una recezione acritica e non meditata di modelli stranieri (Cost. spagnola del 1931 e Cost. di Weimar). Le disposizioni costituzionali evocate avevano come obiettivo quello di garantire al cittadino, ma soprattutto al funzionario, la presenza di una responsabilità dello Stato e dell’ente pubblico in un ordinamento che in precedenza aveva conosciuto soltanto la responsabilità dell’agente e comunque una limitata e discussa responsabilità della persona giuridica pubblica. Infatti il criterio di imputazione previgente in tali ordinamenti era quello della responsabilità diretta del funzionario e indiretta dello Stato, in virtù dal rapporto di mandato che legava il funzionario dell’ente, cioè il c.d. sistema della rappresentanza: nel senso che la persona giuridica in tanto era responsabile in quanto fosse responsabile il funzionario. Da noi invece si era da tempo affermata in dottrina la teoria della c.d. immedesimazione organica, per cui l’illecito commesso dal dipendente pubblico in qualità di organo dell’amministrazione è direttamente riferito a quest’ultima; teoria questa definitivamente accolta in giurisprudenza negli anni ‘30. Pertanto si riteneva già che la persona giuridica potesse essere responsabile direttamente, senza passare attraverso la responsabilità del funzionario.
A questo punto viene tuttavia da domandarsi se la recente normativa, sia sullo status e sulle funzioni dei dirigenti, sia sull’allargamento dell’area della risarcibilità delle posizioni soggettive investite dal potere amministrativo, induca ad una revisione, quantomeno per la categoria dei dirigenti, dei riferiti criteri di imputazione della responsabilità civile, con conseguente estensione dell’azione di responsabilità verso la p.a. e, di riflesso, verso amministratori e funzionari.
In realtà nella responsabilità civile la posizione del dirigente non pone particolarità atte a distinguerla dalla posizione propria di qualsiasi altro funzionario o dipendente pubblico, se non per una ragione di ordine meramente quantitativo, che non impinge sulla natura della responsabilità, sul suo titolo, sui criteri di imputazione. L’unica particolarità è data dal fatto che la più recente legislazione affida loro tutte le funzioni di gestione
(“1. Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
2. Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108.
3. Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente:
a) la presidenza delle commissioni di gara e di concorso;
b) la responsabilità delle procedure d’appalto e di concorso;
c) la stipulazione dei contratti;
d) gli atti di gestione finanziaria, ivi compresa l’assunzione di impegni di spesa;
e) gli atti di amministrazione e gestione del personale;
f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie;
g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell’abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale;
h) le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza;
i) gli atti ad essi attribuiti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal sindaco
” art. 107, commi 1-2-3 T.U.E.L. D.P.R. N. 267/2000).
Di contro è un dato di agevole constatazione che la responsabilità civile diretta dei funzionari è di rarissima applicazione: un istituto, cioè, che ha conosciuto tanto elevate e raffinate elaborazioni dottrinali, quanto sparute applicazioni pratiche. Oltre a ciò, si deve poi tener presente che, nella stragrande maggioranza dei casi, fino ad ora, all’esercizio della funzione amministrativa corrispondevano posizioni di interesse legittimo, ritenute non risarcibili.
Ora lo scenario sembrerebbe completamente mutato.
Una prima rilevante innovazione è data dalla introduzione, per effetto dell’art. 11, L. 7 agosto 1990, n. 241, degli accordi procedimentali e sostitutivi ai quali si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili; tra cui le norme sulla responsabilità contrattuale, tantoché — si è osservato — viene a configurarsi in termini di diritto soggettivo una situazione che altrimenti, a fronte dell’esercizio unilaterale del potere, dovrebbe ritenersi di interesse legittimo.
Da ultimo, e soprattutto, deve tenersi presente l’art. 35, D.Lgs. n. 80 che assegna al giudice amministrativo, in tutte le controversie sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli artt. 33 e 34, nonché in quelle comunque rientranti nella sua giurisdizione (id est quelle concernenti l’interesse legittimo), il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.
Il che, come ha osservato l’Adunanza generale del Consiglio di Stato, tende ad ottenere un cambiamento di rilievo storico nell’ordinamento. Infatti viene abbandonato il tradizionale criterio fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi. A tal fine è significativo il riferimento al danno ingiusto, che a sua volta va letto in combinato con l’art. 2043 c.c.: così si supera il criterio di distinzione che era stato alla base del consolidato indirizzo giurisprudenziale negativo verso la risarcibilità degli interessi legittimi e, di conseguenza, viene meno anche la non risarcibilità di tali posizioni (comunque le si vadano a qualificare). Detto diversamente, la legge estende la tutela aquiliana ad una vasta categoria di posizioni soggettive suscettibili di tutela innanzi al giudice amministrativo in primis, all’interesse legittimo.
In definitiva l’area della risarcibilità — nei limiti in cui si atteggia e nella ricostruzione dogmatica cui può essere ricondotta — delle posizioni soggettive investite dal potere amministrativo viene enormemente incrementata e, di conseguenza, si estende l’azione di responsabilità.
L’area dei comportamenti risarcibili si dilata sia qualitativamente che quantitativamente, nel senso che entra nel cuore delle funzioni amministrative, tra le più delicate (si pensi al credito, al mercato mobiliare, alle telecomunicazioni) o tra le più praticate (basti pensare alle controversie in punto di diniego di concessione edilizia); sicché, di riflesso, le ipotesi di responsabilità civile dei dirigenti lievitano nella stessa misura, pur rimanendo sempre salvaguardate dal ristretto criterio di imputazione a solo titolo di colpa grave o dolo.
Del pari la griglia del danno ingiusto costituisce, a sua volta, una rete di contenimento delle pretese risarcitorie, nel senso che non sarà sufficiente la sola violazione della posizione soggettiva, occorrendo che il giudice amministrativo accerti anche la dannosità del fatto lesivo, che ad es. non v’e se il ricorso è accolto per difetto di motivazione e poi I’amministrazione adotta un provvedimento con motivazione adeguata e corretta.


2) Il giudice della responsabilità civile dei dirigenti
Per l’azione risarcitoria diretta proposta nei confronti del funzionario pubblico non vi è una espressa indicazione del legislatore sulla giurisdizione, cui è affidata la cognizione di tale domanda.
Da un lato, vi è l’esigenza di consentire che una responsabilità solidale possa venire accertata nella stessa sede in cui è chiamata a rispondere l’amministrazione e, dall’altro lato, potrebbe assumere rilievo il fatto che si tratti di una domanda tra due soggetti privati, apparentemente estranea all’oggetto della giurisdizione del giudice amministrativo.
Sul punto non vi sono molti precedenti a causa dell’esiguità dei casi, in cui la domanda viene proposta nei confronti del dipendente.
Sul versante della giurisprudenza amministrativa, a fronte di isolate pronunce tendenti ad escludere la giurisdizione (Tar Friuli Venezia- Giulia, n. 903/199), nella maggior parte dei casi, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo (Cons. Stato, VI, 5 agosto 2005 n. 4153; Cons. Stato, VI, 23 giugno 2006, n. 3981).
Indicazioni univoche non provengono neanche dalla giurisprudenza ordinaria, ad eccezione della recente ordinanza della Cassazione a Sezioni unite n. 13659 del 2006 che commenteremo brevemente alla fine del paragrafo.
In alcune decisioni è stata affermata la giurisdizione del giudice ordinario, con riferimento però a controversie in materia di pubblico impiego, in cui si chiedeva ad alcuni funzionari il risarcimento dei danni, derivanti da loro comportamenti arbitrari o comunque illegittimi (Cass., sez. Unite, n. 4591/2006 e n. 113/99); in altri casi, è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione a controversie, in cui la domanda risarcitoria era stata proposta in solido nei confronti dell’amministrazione e di singoli dipendenti (Cass., sez. Unite, n. 10180/2004, in cui, la Suprema Corte, pur senza affrontare in modo diretto la questione, riconosce la giurisdizione del giudice amministrativo per l’intera domanda, proposta anche nei confronti dei dipendenti, evidenziando che la disposta concentrazione presso il giudice amministrativo – anche nell’ambito della sua giurisdizione di legittimità – del potere di procedere al risarcimento del danno consente di risolvere in un unico giudizio non solo le questioni relative all’annullamento degli atti illegittimi ma anche quelle attinenti al ristoro del pregiudizio da questi determinato, eliminando in tal modo il pericolo di contrasto fra giudicati).
Tali esigenze di concentrazione e di evitare contrasti fra giudicati sono presenti anche nell’ipotesi di domanda risarcitoria per i danni c.d. da provvedimento amministrativo illegittimo, proposta anche nei confronti dei funzionari dell’ente.
Una diversa soluzione determinerebbe l’effetto di impedire al privato di esercitare una unica azione per una responsabilità solidale e di avere due giudizi in cui in presenza del medesimo elemento oggettivo dell’illecito si potrebbero avere esiti contrastanti, anche in relazione a profili comuni non attinenti all’elemento soggettivo, che va invece valutato diversamente, come chiarito in seguito.
In favore della giurisdizione del giudice amministrativo non vi sono solo tali esigenze di coerenza complessiva del sistema di tutela, ma depongono anche specifiche previsioni legislative.
In particolare, l’art. 22 del T.U. n. 3/1957, attuando l’art. 28 della Costituzione, ha previsto che l’azione di risarcimento nei confronti dell’impiegato può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’Amministrazione qualora, in base alle norme ed ai principi vigenti dell’ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello Stato.
La norma, che non è relativa alla giurisdizione, presuppone però che vi sia un unico giudice avente la cognizione di una domanda risarcitoria, che può essere proposta in solido nei confronti di diversi soggetti (amministrazione e dipendenti).
Da ciò deriva che la giurisdizione delle domande proposte nei confronti dei dipendenti segue quella relativa alle domande proposte nei confronti dell’amministrazione.
Ed, in effetti, sia l’art. 35, comma 1, del D. Lgs. n. 80/1998, sia l’art. 7, comma 3 della legge n. 1034/1971 prevedono che il giudice amministrativo, nell’ambito della giurisdizione sia esclusiva che di legittimità, disponga il (o conosca delle controversie relative al) risarcimento del danno ingiusto, senza limitare tale giurisdizione alle domande proposte nei confronti della sola amministrazione.
Deve, quindi, ritenersi che quando il danno richiesto sia diretta conseguenza di una illegittimità provvedimentale, e non derivi da meri comportamenti dei pubblici dipendenti, la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alle domande risarcitorie proposte nei confronti dell’amministrazione, si estenda anche alle domande proposte nei confronti dei dipendenti.
Tale conclusione si fonda su ragioni sistematiche che impongono di individuare un unico giudice per fattispecie di responsabilità solidale, e non su esigenze sussistenti solo in caso di connessione tra le due domande, dovendosi aderire all’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui la giurisdizione non può essere condizionata da ragioni di connessione, “precludendo l’ordinamento che la scelta del giudice possa dipendere dalla strategia processuale della parte che agisce in giudizio; ancor più perché si rimetterebbe alla volontà delle parti il realizzare o meno quella concentrazione di tutela giudiziaria, la cui ratio è alla base della soluzione legislativa, avallata dal giudice delle leggi, che ha attribuito alla giurisdizione amministrativa anche le controversie risarcitorie”.(Cass., sez. Unite, n. 6745/2005).
Venendo ora all’ordinanza delle SS.UU. n. 13659 del 2006 può notarsi che la Cassazione è stata netta nell’affermare «la giurisdizione ordinaria sulla controversia promossa nei confronti del» dipendente pubblico sul rilievo che «l’azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio, e, quindi, nel confronti di un soggetto privato, distinto dall’amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato (art. 28 Cost)», «la questione di giurisdizione …va risolta esclusivamente sulla base dell’art. 103 Cost., che non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una pubblica amministrazione, o soggetti ad essa equiparati».
La soluzione desta qualche perplessità: è vero che l’art. 28 Cost. appresta uno strumento aggiuntivo di tutela a quanto già previsto dall’ordinamento, ma l’idea che ci si rivolga a giudici diversi per lo stesso fatto e che la solidarietà civilistica ivi disposta tra dipendente e p.a. non si traduca in obbligo di (connessione e di) riunione non pare soddisfare quell’esigenza di razionalizzazione che è condizione del buon andamento, che l’art. 97 Cost. prescrive per ogni organizzazione pubblica, ivi compresa l’amministrazione della giustizia.
Per opinare diversamente, dovremmo ritenere che la responsabilità dei funzionari possa funzionare come una sorta di cavallo di Troia per sottrarre spazi di giurisdizione al Giudice amministrativo, giacché al giudizio (ordinario) si fa conoscere quel medesimo fatto della vita che è oggetto in astratto della giurisdizione amministrativa.
In altri termini, sottoporre il giudizio di responsabilità civile diretta dei funzionari amministrativi alla cognizione giurisdizionale dell’AGO si risolverebbe, di fatto, nell’attribuirgli la compiuta cognizione sulla responsabilità civile della p.a.. In tal guisa si perverrebbe alla creazione di uno strumento surrogatorio dell’impugnazione e manipolativo negli esiti che consentirebbe al privato di scegliersi di volta in volta la giurisdizione.
In realtà, la conseguenza della decisione adottata dalle Sezioni Unite è quella di sdoppiare la giurisdizione su un fatto di vita – fonte di responsabilità civile a carico dei dipendenti e della p.a. – in dipendenza dei soggetti coinvolti: ma ciò significa puramente e semplicemente reintrodurre dommaticamente la figura di un giudice amministrativo speciale ratione subiecti: non più un giudice della funzione pubblica, ma un giudice della p.a. intesa, per l’appunto, come soggetto e come apparato.
Sotto altro aspetto, va rimarcato che con la sentenza n. 191/2004, per certi versi interpretativa della 204/2004, la Corte Costituzionale ha chiarito che, quanto meno con riferimento al disposto dell’art. 35, comma 1, la tutela risarcitoria non è configurabile come una “materia” devoluta in blocco alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia” attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
Secondo la Corte la legge –art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 – costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela dell’interesse legittimo (art. 103, comma 1° Cost.), affermandone il carattere “rimediale”, in attuazione del precetto dell’art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli.
In definitiva, secondo la Corte, al vecchio sistema di riparto il legislatore ha sostituito (appunto con l’art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l’illegittimo esercizio della funzione.
Da ciò consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che la pretesa risarcitoria abbia o non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo: avendo la legge, a questi fini, inequivocabilmente privilegiato la considerazione della situazione soggettiva incisa dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa. In tal caso la cognizione giurisdizionale mantiene l’interesse legittimo come oggetto principale e, dall’altro, può evolversi, nel rispetto dell’art. 103,comma 1° Cost., in una pronuncia al risarcimento del danno.
Se allora, come spiega la Corte costituzionale, giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica è il giudice amministrativo, non potrà che omologarsi a detto principio anche il giudizio risarcitorio promosso contro il funzionario, quanto meno in tutti i casi in cui costui è chiamato a rispondere per fatti connessi all’illegittimo esercizio della pubblica funzione amministrativa.


Avv. Antonio Guantario


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Note




  1. Che la responsabilità civile verso i terzi dei funzionari in pratica non sia coltivata è affermazione comune: v. ad es. M.S. GIANNINI, Le obbligazioni pubbliche, Roma, 1964, 34; F. MERUSI-M. CLARICH, Commento all’art. 28, in Commentario della Costituzione (a cura di G. BRANCA), Bologna-Roma, 1991, 373.


  2. E. MELE, La responsabilità dei dipendenti e degli amministratori e pubblici, 4^ ed., Milano, 1994, p. 63.


  3. II principio della compatibilità tra responsabilità contrattuale c.d. extracontrattuale è infatti pacifico: per tutte cfr. Cass. civ., Sez. lav., 23 giugno 1994, n. 6061, in Nuova giur. lav., 1994, 619; Cass. civ., Sez. un., 14 maggio 1987, n. 4441, in Giust. Civ., 1987, I, 1686. In dottrina, tra gli altri, v. C. ROSSIELLO, Intorno ai rapporti tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, in Giur. it., 1985, IV, 201; A. GAMBARO, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale davanti alla Suprema Corte, in Resp. Civ. prev., 1977, 809; F. GRANDE STEVENS, Lesione di diritti di credito e responsabilità aquiliana, in Arch. Resp. civ., 1972, 518.


  4. Cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 18 febbraio 2000, n. 1890, in Foro it., 2001, I, col 3291 e ss. Trib. S. Maria Capua Vetere, 6 febbraio 1989, in Foro it., 1990, I, col. 3315 e ss..