Affidamento condiviso
Considerazioni generali alla luce della legge 8 febbraio 2006 n. 54
di
Antonella Prisciandaro

Nel corso degli ultimi decenni, l’istituzione familiare ha registrato importanti modificazioni, soprattutto in rapporto all’emergere di nuovi fenomeni sociali e di nuovi modelli comportamentali; per questa ragione può dirsi, forse, che in nessun campo del diritto civile, si avvertono così chiaramente, come in quello del diritto di famiglia, le dinamiche tipicamente conflittuali della realtà sociale sottostante. Ciò accade perché se la famiglia rappresenta la cellula germinale della società, è naturale che al suo interno si riproducano le tensioni sprigionate quotidianamente nel contesto civile; inoltre, la sua natura di gruppo tipicamente intermedio mette in evidenza la funzione di filtro da essa assolta, con tutte le conseguenze che ne derivano. Infine, il suo assetto naturalmente plurisoggettivo dà conto delle difficoltà organizzative che da sempre ha incontrato, nella perenne alternativa tra ispirazione gerarchica e conformazione egualitaria.
Si comprende, pertanto, il motivo per cui qualunque trattazione dell’evoluzione del diritto di famiglia non può essere soltanto una esposizione del succedersi di regimi normativi, ma è innanzitutto una storia del “fenomeno sociale famiglia”.
La separazione, inoltre, è quasi inevitabilmente una fonte di stress anche per i figli che vi sono coinvolti, anche perché va considerato che la qualità delle relazioni dei figli con i genitori risulta strettamente legata con la relazione esistente tra i genitori stessi: da una notevole quantità di ricerche emerge che l’esistenza di conflitti aspri tra i genitori è una delle variabili che consentono di prevedere con maggiore regolarità il manifestarsi di problemi di adattamento dei figli in seguito alla separazione.
Alla luce di queste considerazioni introduttive, emerge chiaramente che l’affidamento dei figli, tema oggetto del presente lavoro, rappresenta una problematica di grande interesse e di stretta attualità, non solo perché si preoccupa di disciplinare il delicato rapporto con la prole nei momenti di crisi del rapporto coniugale, ma anche perché la relativa disciplina è stata recentemente  riformulata, sia dal punto di vista sostanziale che processuale.
La legge 8 febbraio 2006 n. 54, infatti, come si vedrà nel dettaglio nel seguito della trattazione, ha introdotto nuove disposizioni in materia di affidamento dei figli in sede di separazione, annullamento e cessazione degli effetti civili del matrimonio, ridefinendo i criteri e le modalità operative dell’istituto, alla luce del superiore interesse del minore.
Tale riforma, in particolare, sancisce il principio della bigenitorialità nei confronti dei figli minori, ossia della corresponsabilità di entrambi per quanto concerne la cura, l’educazione e l’istruzione della prole, anche dopo la separazione.
Proprio in applicazione del principio della “bigenitorialità” viene previsto, per ogni ipotesi di rottura del rapporto coniugale, quale regime normalmente operante in luogo dell’affidamento esclusivo, il c.d. affidamento condiviso dei figli; i minori entrano direttamente nel procedimento di separazione e divorzio, essendo prevista la loro audizione da parte del giudice.
Va, tuttavia, anticipato, che il termine affidamento condiviso ha dato molto da pensare, dal momento che non sono mancate le difficoltà nel distinguere questo nuovo istituto dall’affidamento congiunto, già in vigore.
In effetti, il nuovo testo di legge conserva tale termine solo nel titolo della legge e nella possibilità di opporsi ad esso, ma non ne offre mai una definizione diretta, che si deve perciò evincere dal contesto normativo nel suo complesso.
Per “affidamento condiviso” si intende, la partecipazione di entrambi i genitori alla cura e all’educazione dei figli, a prescindere dai loro rapporti personali e alla sola condizione che nessuno dei due abbia carenze rilevanti per il figlio, tanto che affidargli i figli sarebbe contrario al loro interesse.
Il peso della eventuale conflittualità, in questo modo, viene filtrato attraverso la considerazione dell’idoneità individuale: se si accerta che di essa è fonte l’atteggiamento aggressivo di un genitore verso l’altro, allora questo può essere motivo per riconoscere l’inidoneità e procedere ad un affidamento esclusivo.
Resta, tuttavia, il problema del disaccordo, poiché la coppia non sarà in grado di presentare al giudice una domanda di separazione comune; la nuova legge prevede, quindi, che in questi casi le regole siano stabilite dal giudice, il quale assumerà le necessarie decisioni sia in merito al tempo che i figli trascorreranno con ciascun genitore, che alle modalità degli spostamenti, che ad ogni altra questione che i genitori gli prospettino come irrisolta.
Al di là di queste disquisizioni, senza dubbio la ratio legis della nuova disciplina è esplicitamente enunciata ed è in sé condivisibile: maggiore attenzione al diritto dei minore di mantenere nella separazione e nel divorzio dei genitori “un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi” e lo strumento per perseguire questo fine è considerato l’affidamento condiviso, nonché il comune esercizio della potestà.
La consapevolezza dell’importanza di salvaguardare il rapporto dei figli con entrambi i genitori fornisce una giusta chiave di lettura della disciplina, non sempre chiarissima, sulla potestà dei genitori in generale, nonché di quella dei genitori separati, sul suo esercizio, sulla misura e il modo con cui i coniugi debbano contribuire all’adempimento degli obblighi e all’esercizio dei diritti nei rapporti con i figli.
Il tema della potestà dei genitori, come anche quello del rapporto tra genitori e figli, rappresenta una materia che difficilmente si presta a definizioni di carattere generale, tanto che non sembra possibile derivarne, basandosi esclusivamente sui dati dell’ordinamento positivo, l’esistenza di una figura universale, presente in ogni esperienza.
Si è consolidata la tesi che esclude l’esistenza di un tipo generale di potestà genitoriale, riconoscendosi l’esistenza di tipi storici specifici, strettamente legati a ben precise cause socio-economiche e alle idee prevalenti in un dato momento storico.
Ne è conferma l’analisi degli antecedenti dell’istituto: si pensi, ad esempio, all’auctoritas del pater familias del diritto romano, nozione che appare del tutto inutilizzabile oggi, in una ricostruzione dell’odierno modo di essere dei rapporti tra genitori e figli.
La concezione romana della famiglia, quindi, era chiaramente patriarcale e al pater familias erano sottoposti la moglie, verso la quale aveva la c.d. manus maritalis, i figli, attraverso appunto l’esercizio della patria potestas, e tutti i beni della comunità su cui esercitava la c.d. dominica potestas.
Le stesse osservazioni, relativamente all’impossibilità di creare un unico significato del termine potestà e alla necessità di considerare il momento storico in cui se ne parla, possono farsi in base ai dati ricavabili dalla codificazione napoleonica, riguardanti la c.d. puissance paternelle e le prerogative paterne che determinano il droit de correction sulla prole, tutti elementi estranei all’attuale nozione di potestà dei genitori.
Anche il codice civile del 1942 parlava, prima della riforma del 1975, di patria potestà, all’art. 316 c.c., il quale distingueva tra titolarità della potestà riconosciuta ad entrambi i genitori e esercizio attribuito solo al padre.
A risentire di questa visione piramidale della famiglia erano, soprattutto, i figli, i quali erano considerati dei veri e propri “oggetti” di un potere esercitato dal pater familias, il quale non considerava affatto le loro aspirazioni ed inclinazioni, preoccupandosi esclusivamente di educarli secondo i principi della morale.
Le profonde modificazioni dei rapporti intrafamiliari intervenute in particolare nell’ultimo mezzo secolo, con il passaggio dalla famiglia estesa a quella nucleare, incentrata esclusivamente sui coniugi e sulla loro prole, è fatto che appartiene alla comune conoscenza.
In questa prospettiva, la Novella del 1975 può considerarsi il momento finale di un adeguamento del diritto positivo alle novità intervenute nel tessuto sociale.
Il problema di una ricostruzione del vigente sistema della potestà sui figli si trova oggi di fronte alla necessità di dover anche verificare la presenza di un’unica categoria concettuale, alla quale riferirsi per una definizione univoca dell’istituto.
Ugualmente difficile è verificare come le novità riguardanti singoli momenti dei rapporti familiari abbiano tra loro interagito: dalla affermazione della assoluta eguaglianza dei coniugi è derivata l’eguaglianza tra i genitori e da una pari dignità dei membri della coppia è derivata, invece, una tendenziale parità dei membri del gruppo familiare.
L’aver accolto il principio dell’uguaglianza tra i coniugi ha, infatti, comportato effetti immediati, in termini di limitazione all’altrui potere: il diritto all’esercizio della potestà sulla prole, prima di esclusiva spettanza del marito, trova ora un limite nel corrispondente diritto della madre ed in questo bilanciamento di poteri tra i genitori è certo che la posizione del minore trova maggiore tutela e garanzia.
Accanto, quindi, all’esercizio congiunto della potestà, è stato costruito un sistema dove, da una parte, non si è esitato a prevedere un intervento all’interno della vita familiare, al fine di salvaguardare gli interessi della prole sopra ogni altro; dall’altra parte, si sono voluti creare singoli momenti dove il minore abbia spazi adeguati di partecipazione.
La potestà consegnata ai genitori rimane definita come complesso di poteri esercitato nell’esclusivo interesse della prole ed, in quanto tale, non con questo configgente.
Può dirsi, quindi, che il minore ha, in seguito alla riforma del diritto di famiglia, acquistato una maggiore autonomia rispetto al passato, poiché viene ritenuto capace di formare ed esprimere la sua opinione in alcune scelte di vita, egli è inoltre chiamato a partecipare alle decisioni familiari; ciononostante, l’autorità dei genitori sui figli trova giustificazione nella circostanza che è necessario sopperire alle carenze del minore e, soprattutto, è necessario che qualcuno si occupi della sua istruzione, della sua educazione e di sostenerlo nello sviluppo armonico della sua personalità fino alla completa autonomia.
La titolarità della potestà spetta quindi ad entrambi i genitori, legittimi o naturali (che abbiano effettuato il riconoscimento o per effetto della dichiarazione giudiziale), i quali possono esercitarla disgiuntamente per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione, mentre, per gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, è richiesto l’esercizio congiunto della potestà.
In caso di disaccordo su questioni rilevanti, ciascuno dei genitori può ricorrere al Tribunale per i minorenni affinché li concili e indichi la soluzione più idonea alla situazione di fatto prospettata; se, tuttavia, il contrasto rimane e i genitori si ostinano a non seguire le indicazioni del giudice minorile, quest’ultimo, con decreto reclamabile in Corte di Appello, nell’esclusivo interesse del minore, autorizza il genitore che ritiene più idoneo a decidere sulla questione (art. 316 c.c.).
Infine, il genitore può essere reintegrato nella potestà quando sia terminato il suo comportamento pregiudizievole (e in questo caso potrà personalmente proporre il relativo ricorso) e la stessa facoltà gli è offerta nel caso in cui sia scongiurata la possibilità di qualsiasi danno nei confronti del minore.
Se accade poi che entrambi i genitori sono morti o non possono esercitare la potestà a causa dell’emanazione di un provvedimento di decadenza o di limitazione della stessa (artt. 343 ss. c.c.), il giudice tutelare (tempestivamente avvisato dall’ufficiale di stato civile che riceve la dichiarazione di morte, dal notaio che procede alla pubblicazione del testamento con l’indicazione del tutore, dalla cancelleria del Tribunale per i minorenni in seguito al deposito di decisione che determini l’apertura della tutela, dai parenti entro il terzo grado del minore ovvero dal tutore designato) provvede alla nomina di un tutore, che ha la cura del minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni (art. 357 c.c.)
Al tutore spettano, insomma, gli stessi poteri e analoghe funzioni dei genitori.
Qualche ulteriore precisazione, in tema di potestà genitoriale va fatta con riferimento alle recenti disposizioni legislative, intervenute in materia di affidamento dei minori, a seguito di crisi familiare.
La modifica introdotta dalla legge 54 del 2006 riguarda l’esercizio e non la titolarità della potestà genitoriale, e riflette il cambiamento di prospettiva che si è inteso realizzare: la condivisione della responsabilità per entrambi i genitori e, di conseguenza, l’esercizio della potestà in relazione all’affidamento dei figli ad entrambi.
La previsione normativa continua a richiedere l’accordo dei genitori per le decisioni riguardanti l’istruzione, l’educazione, la salute dei figli e, qualora le parti non riuscissero a realizzarlo, dovranno rivolgersi al giudice.
Tutto è incentrato, quindi, sulla capacità di un’effettiva assunzione di responsabilità da parte dei genitori, nella consapevolezza di dover superare i contrasti per il bene dei figli; il legislatore ha, infatti, previsto che il giudice, qualora si renda conto che l’affidamento ad entrambi non realizza l’interesse del figlio, può disporlo nei confronti di uno solo.
Con la l. 8 febbraio 2006, n. 54, il legislatore, sulla scorta degli orientamenti emersi anche in sede internazionale, ha inteso voltare pagina ed attuare appieno il diritto del minore ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, prevedendo un meccanismo che consenta loro di partecipare attivamente alla vita del figlio anche dopo la disgregazione del nucleo familiare, così abbandonando la tradizionale distinzione di ruoli tra genitore  che si occupa del figlio e genitore del “tempo libero”.
In sostanza, questa legge prevede che, nel caso di separazione personale dei coniugi, di scioglimento, o di cessazione degli effetti civili, o di nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, i figli siano affidati come regola ad entrambi i genitori e soltanto in via eccezionale ad uno di essi quando in tal senso è l’interesse del minore oppure quando l’affidamento condiviso determini una situazione di pregiudizio per il minore stesso.
La riforma ribadisce e amplia il contenuto del diritto alla “bigenitorialità”, estendendolo alla conservazione da parte del minore di rapporti significativi anche con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
In questa prospettiva, la “bigenitorialità” non costituisce una legittima rivendicazione del genitore, bensì un diritto soggettivo del minore, da collocare nell’ambito dei diritti della personalità.
La vera novità di questa legge è rappresentata dal ribaltamento della prospettiva cui guardare il rapporto tra genitori e figli, visto nell’ottica dei doveri dei genitori nei confronti del minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori e di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi, anche nelle ipotesi di elevata conflittualità tra i genitori e anche dopo la disgregazione del nucleo familiare.
La Suprema Corte a tal riguardo ha di recente sostenuto che “due rappresentano i corollari strettamente connessi alla scelta normativa dell’affido condiviso: il primo è dato dal fatto che la potestà genitoriale debba essere in capo ad entrambi i genitori e il secondo dal diritto del minore di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti dei rispettivi genitori”.
Inoltre, pur riconoscendo che il principio cardine della legge in commento avrebbe potuto trovare una sua applicazione in forza della previgente normativa, la Cassazione rileva come di fatto, nella pratica dei Tribunali, sia stato prevalente il modello monogenitoriale, con una pressoché indiscussa posizione di privilegio della figura materna nell’ambito dell’affido: “da qui l’opportunità della novella legislativa al fine di tener conto della nuova struttura familiare e della modificata posizione del padre, che tende ad assumere una presenza più attiva e partecipe nei rapporti con i figli già dai primi anni di vita”.
Non vi è dubbio che l’aspetto più rivoluzionario di questa nuova legge è rappresentato dal fatto che l’intero impianto normativo è esplicitamente orientato a riconoscere e garantire al minore il diritto alla bigenitorialità nelle ipotesi di separazioni o di divorzio dei genitori.
Il diritto del minore alla bigenitorialità, adesso affermato esplicitamente dalla legge in esame, trova il suo fondamento nei principi di tutela dei minori espresso in campo internazionale e una sua esplicita previsione nella già citata Convenzione di New York del 1989.
Tali principi, alla base anche delle scelte riformatrici, non possono che essere approvati.
Il lungo travaglio che ha caratterizzato l’iter del disegno di legge e le critiche che ne hanno accompagnato l’approvazione risultano tuttavia emblematiche della difficoltà di legiferare in una materia così delicata, in cui ad essere messi in discussione sono modelli familiari consolidati e ruoli educativi tradizionali, spesso non più adeguati ai profondi mutamenti intervenuti nella realtà sociale, che, a fronte dell’accresciuta instabilità dei vincoli di coppia, richiedono di realizzare formule che, anche dopo la crisi, garantiscano la presenza di entrambe le figure genitoriali, tendenzialmente con pari intensità, nella vita del figlio.
A fronte, infatti, dell’ampliarsi dei modelli familiari ed in particolare dell’autonomia dei coniugi nel disporre del rapporto matrimoniale è maturata la consapevolezza della necessità di rafforzare gli strumenti di tutela dei figli, sia con riguardo ai comportamenti richiesti ai genitori, che all’intervento pubblico.
Il diritto dei genitori che comporta, dunque, instabilità della coppia e della famiglia non può compromettere quello dei figli a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi.
In sostanza, quello che si afferma, da un lato, è il principio della bigenitorialità, intesa quale diritto del figlio ad un rapporto completo e stabile non con uno ma con entrambi i genitori, e ciò anche laddove la famiglia attraversi una fase patologica, con conseguente disgregazione del legame sentimentale e talvolta anche giuridico tra i genitori conviventi; dall’altro, quello che la coppia coniugale non può separarsi come coppia genitoriale.
La riforma nasce, quindi, da un intento nobile, ovvero quello di rivalutare la presenza di entrambi i genitori, conferendo nuovo smalto anche alla figura paterna, finora relegata ai margini e alleggerendo gli oneri e le responsabilità troppo spesso incombenti solo sulle madri.
Il principio della bigenitorialità non nasce da sé, bensì trova fondamento e giustificazione nella nostra Costituzione agli articoli 2, 3 e 30, che garantiscono che il minore abbia sempre e comunque rapporti continui, regolari e costanti con entrambi i genitori.
Il diritto-dovere educativo dei genitori, da una parte, e il diritto del minore, dall’altra, a ricevere l’educazione da entrambi i genitori ha rilievo costituzionale, nel senso che sia il minore ha il diritto a ricevere l’educazione da entrambi i genitori e sia i genitori hanno non solo il dovere ma anche il diritto a non essere privati senza motivo dell’esercizio della funzione educativa, che permane integra anche dopo la separazione.
Per queste ragioni, l’affidamento condiviso appare la soluzione ottimale per l’espletamento della funzione educativa impartitagli dai genitori ed è anzi l’unica soluzione che sembra non in contrasto con gli artt. 2, 3 e 30 della nostra Costituzione.
Non a caso l’art. 30 Cost. usa il plurale, dicendo che “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”: tale dizione prefigura ed implica necessariamente una coppia educatrice, formata da una madre e da un padre, onde una famiglia monoparentale si pone contro la lettera e lo spirito degli articoli 29 e 30 Cost.
Ogni contraria opinione non solo non tiene conto del principio generale del preminente interesse del minore, ma si pone in contrasto con i precetti costituzionali sanciti negli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., che tutelano tale preminente interesse al pieno ed armonico sviluppo della personalità: l’art. 30 Cost. non ammette, infatti, deroghe o eccezioni per i genitori separati.
Di conseguenza, la soluzione monogenitoriale non appare in alcun modo soddisfacente, dal momento che priva il minore dell’apporto educativo di uno dei genitori, mentre il minore ha il diritto di avere relazioni stabili e significative con entrambi i genitori pur dopo la loro separazione.
Quanto alla bigenitorialità va precisato che essa non rappresenta semplicemente una rivendicazione legittima del genitore non affidatario, ma è anche e soprattutto un diritto soggettivo, assoluto ed inviolabile, del minore ad avere rapporti significativi, continui, regolari e costanti con entrambi i genitori.
La funzione educativa, infatti, è veramente tale solo quando sia completa e la fine del matrimonio o della convivenza non comporta anche la cessazione della corresponsabilità educativa dei genitori, che permane integra, ai sensi dell’art. 30 Cost., pur dopo la fine del matrimonio o della convivenza.
Una conseguenza del diritto del minore alla bigenitorialità è la previsione di sanzioni civili che il giudice potrà applicare nei confronti del genitore che abbia violato il diritto del minore alla bigenitorialità, in aggiunta alla configurabilità di una responsabilità per danni nei suoi confronti.
Nel sottolineare il contenuto rivoluzionario della legge n. 54/2006, qualcuno ha detto che la novella ha riconosciuto al minore un ruolo attivo o la qualità di parte e cioè il potere di intervenire nel giudizio di separazione o divorzio pendente tra i genitori per chiedere l’affidamento condiviso.
In questo modo, i genitori sono posti sullo stesso piano di responsabilità, dal momento che essi sono messi in grado di gestire a pari titolo il rapporto di vita con i figli e di realizzare la finalità di garantire ai figli minori il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di loro, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi.
Non scompare l’affidamento del figlio ad un solo genitore, ma viene relegato all’ipotesi, residuale, in cui l’interesse del minore potrebbe risultare pregiudicato da un affidamento condiviso.
La norma in oggetto, nel prevedere una responsabilità congiunta dei genitori circa le questioni più delicate attinenti la cura della prole, delinea, in ambito di ordinaria amministrazione, una sorta di divisione dei compiti, di potestà indivisa, da gestire secondo le singole esigenze e disponibilità.
Oggi si giunge al provvedimento di affido per intervento giudiziale, solo in seconda battuta, fallito ogni tentativo di accordo tra i genitori.
Si tratta di un accordo che può essere stilato da essi soli o, in caso di conflitto, con l’ausilio di organi di mediazione familiare necessariamente accreditati, come sottolinea il nuovo 709-bis del codice procedura civile, che ora intervengono in via preventiva e non più in corso di causa.
Posto che il c.d. “progetto di affidamento condiviso” verrà sottoposto al vaglio del giudice già nella prima udienza presidenziale, giusto l’obbligo di allegazione dell’accordo in uno con il ricorso per separazione, si sottolinea come l’organo giudicante, nel limitarsi a prendere atto di detto accordo, lascia che in primis la scelta spetti ai genitori.
Sono trascorsi più di trent’anni dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 che, a compimento di un lungo iter legislativo, sostituì ad un assetto giusfamiliare pressoché identico a quello inauguratosi con la codificazione napoleonica, regole nuove e per molti aspetti in contrasto con le precedenti, in attuazione dei precetti costituzionali dell’eguaglianza tra i coniugi e della parità tra figli legittimi e naturali: segno che l’ordine sociale maturato nel secondo dopoguerra aveva vigorosamente intaccato il modello familiare tradizionale, consolidata espressione delle culture di matrice nazionalista, rurale e cattolica.
La vita familiare e il diritto di famiglia hanno conosciuto un cambiamento talmente significativo durante gli ultimi trent’anni, che il diritto di famiglia vigente nel suo complesso in Italia fino agli anni Settanta era più vicino a quello degli inizi del secolo diciannovesimo che all’odierno.
I motivi che hanno guidato i mutamenti attuati dalla riforma traggono fondamento dall’abbandono della visione istituzionale della famiglia e dal crescente riconoscimento dei diritti individuali, che ha comportato una protezione sempre più estesa del singolo familiare, a scapito delle ragioni della famiglia in sé considerata.
In tema di affidamento dei figli, mutuando dalla legge sul divorzio del 1970 il principio secondo cui “i provvedimenti relativi alla prole devono essere adottati con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”, la riforma del 1975, tra l’altro, affidò al giudice l’ampio potere di stabilire a quale dei coniugi dovessero essere affidati in via esclusiva i figli, ed in quale modo e misura l’altro coniuge avrebbe dovuto contribuire al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione dei medesimi.
Così, pure, era previsto che il coniuge affidatario fosse preferito nell’assegnazione della casa familiare, e che a lui fosse riconosciuto (salvo diversa disposizione del giudice) persino l’esercizio esclusivo della potestà sui figli.
Nel caso di contrasti insuperabili si prevedeva, altresì, la possibilità di intervento da parte del giudice, ma questo intervento restava in ogni caso rispettoso dell’autonomia familiare: il giudice doveva, infatti, cercare di raggiungere una soluzione concordata, potendo fissare la soluzione del caso concreto soltanto nelle limitate ipotesi di ulteriore disaccordo dei coniugi, purché si trattasse di affari essenziali, e sempre che essi ne facessero espressa e congiunta richiesta.
Questi primi cambiamenti nella considerazione dell’officium dei genitori non possono però essere compresi appieno se non si pone mente alla mutata dialettica genitore-figlio che vede, da parte dei figli, un dovere di contribuzione alla vita familiare ai sensi dell’articolo 315 c.c.
Nel sistema previgente, quindi, l’affidamento dei figli in occasione dei procedimenti di separazione e divorzio veniva di norma disposto dal giudice in favore dell’uno o dell’altro coniuge, anche se l’art. 155 c.c., nel prevedere comunque la possibilità di adottare ogni altro provvedimento e di disporre diversamente con riguardo all’esercizio esclusivo della potestà, consentiva forme di affidamento congiunto.
La giurisprudenza ha ripetutamente affermato, considerando la ratio del vecchio art. 155 c.c., che l’affidamento dei figli all’uno piuttosto che all’altro dei genitori trascende l’ambito strettamente privatistico ed investe precise esigenze pubblicistiche, in quanto collegato al superiore interesse dello Stato e della collettività ad un equilibrato sviluppo della prole e che tali ragioni hanno indotto il legislatore a stabilire nell’art. 155 che l’affidamento deve essere deciso “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole” e che, quindi, esso non costituisce un diritto dell’uno o dell’altro genitore, bensì un munus, la cui privazione non può essere disposta né può essere intesa come una misura sanzionatoria contro il genitore colpevole, ma deve essere giustificata esclusivamente dall’interesse dei figli, affinché questi ricevano il minor danno possibile dalla disgregazione familiare.
Sempre a proposito del vecchio testo dell’articolo 155 c.c., va precisato che nessun sistema di preferenza era indicato dal legislatore in ordine all’emanazione del provvedimento di affidamento e, inoltre, pur non essendo previsto alcun criterio di priorità circa l’affidamento, l’ipotesi più diffusa era quella dell’affidamento esclusivo alla madre; ciò non escludeva che in linea di principio il giudice potesse far ricorso all’istituto dell’affido condiviso anche se nella prassi l’affidamento esclusivo era la soluzione maggiormente adottata.
Tuttavia, mentre sull’affidamento alternato si sono appuntate fin da subito critiche e riserve, in quanto ritenuto fonte di una instabilità di vita tale da compromettere l’equilibrio del minore, maggiore interesse ha invece riscosso la figura dell’affidamento congiunto che, in assenza di una definizione normativa, si sostanzia nella situazione in cui entrambi i genitori esercitano in comune la potestà sui figli, i quali vengono quindi mantenuti, istruiti ed educati sulla base di un unico e concorde progetto.
Per attuarlo, la giurisprudenza ha però ritenuto necessarie alcune condizioni, quali l’accordo dei genitori nel richiederlo, l’assenza di conflittualità fra loro, la sussistenza di stili di vita omogenei, la vicinanza delle rispettive abitazioni. Sono stati proprio questi rigorosi presupposti, non sempre rinvenibili in una realtà che vuole sovente aspro il conflitto tra i coniugi, che hanno determinato un uso limitato di questa tipologia di affidamento, di fatto adottata in una minoranza delle sole separazioni consensuali.
La consapevolezza dell’importanza di conservare al figlio rapporti significativi con entrambe le figure genitoriali anche dopo la disgregazione del nucleo, aveva poi indotto il legislatore ad esplicitare modalità differenti rispetto a quella tradizionale dell’affidamento esclusivo ad un solo genitore: in particolare, l’art. 6 della legge sul divorzio, dopo la riforma del 1987, contemplava la possibilità di disporre l’affidamento congiunto e quello alternato, quali possibili variazioni rispetto all’affidamento monogenitoriale, in un quadro di condivisione delle comuni responsabilità educative riguardo ai figli per i coniugi divorziati e separati.
Ad oltre un trentennio dall’entrata in vigore della citata riforma, la pratica giudiziaria ha evidenziato tuttavia come, a seguito di separazione o divorzio dei coniugi, i figli minori siano stati affidati in linea di massima alla madre, sia per il retaggio di tradizioni storiche, sia per la ritenuta maggiore idoneità della stessa alle mansioni di allevamento della prole; d’altro canto, i provvedimenti dei giudici in ordine ai rapporti tra padri e figli sono venuti a tradursi, nella quasi totalità dei casi, nella fissazione dei giorni di visita e nella determinazione dei periodi di vacanza che i minori dovevano trascorrere con il coniuge non affidatario, di fatto progressivamente emarginato nei rapporti affettivi.
Quest’ultimo, peraltro, non di rado è stato gravato anche dell’onere di corrispondere ai figli un assegno periodico che, troppo spesso, veniva però in gran parte utilizzato per le necessità del genitore affidatario, beneficiante così di una vera e propria rendita di posizione.
Nel vecchio testo dell’articolo 155 c.c., quindi, nessun sistema di preferenza era indicato dal legislatore in ordine all’emanazione del provvedimento di affidamento; tuttavia, pur non essendo previsto alcun criterio di priorità circa l’affidamento, l’ipotesi più diffusa era quella dell’affidamento esclusivo alla madre.
L’affidamento veniva disposto dal Tribunale nell’esclusivo interesse morale e materiale dei minori; in considerazione dell’interesse dei minori, il giudice doveva tener conto della loro aspirazione.
A seguito di un eventuale fallimento del tentativo di conciliazione, il presidente del tribunale, adottava i provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole, “sentiti, qualora lo ritenga strettamente necessario anche in considerazione della loro età, i figli minori”.
Qualunque fosse stato il provvedimento adottato circa l’affidamento del minore, entrambi i genitori continuavano ad essere obbligati al suo mantenimento e il tribunale che pronunciava la separazione era tenuto a stabilire la misura e le modalità della prestazione pecuniaria a carico del genitore non affidatario.
Anche se disposto nell’interesse del figlio, l’assegno doveva essere corrisposto al coniuge affidatario, il quale era quindi contitolare in nome proprio del diritto; il diritto dell’assegno non si estingueva col raggiungimento della maggiore età del figlio ma permaneva fino a quando questi non conseguiva l’autosufficienza economica.
Deve ritenersi che, relativamente al diritto all’assegno in questione, sussista un rapporto di solidarietà attiva tra il genitore affidatario e il figlio: in contrario non vale addurre la diversità delle cause e degli interessi in quanto la diversità delle cause non esclude la solidarietà mentre l’interesse che il diritto all’assegno è diretto a soddisfare è unicamente l’interesse del figlio.
Nella disciplina ante riforma, quindi, il genitore affidatario aveva l’esclusivo esercizio della potestà, ma doveva attenersi alle condizioni stabilite dal giudice: queste condizioni riguardavano principalmente la salvaguardia del rapporto affettivo con l’altro genitore e la possibilità di quest’ultimo di tenere presso di sé periodicamente il figlio o, se ciò non fosse stato possibile, di visitarlo.
Tuttavia, le decisioni di maggiore importanza per il figlio dovevano essere prese da entrambi i coniugi e, in caso di disaccordo, trovava applicazione la disciplina dettata in generale per l’esercizio congiunto dei poteri sui figli, con l’unica differenza che la decisione giudiziale non poteva più tenere presente l’interesse dell’unità della famiglia.
Il genitore non affidatario aveva, inoltre, il diritto-dovere di vigilare sull’educazione e l’istruzione del figlio e di opporsi alle decisioni che reputasse pregiudizievoli per il minore; tale opposizione si esercitava mediante ricorso al giudice che avrebbe deciso direttamente adottando la soluzione più conveniente per il minore.
Il nuovo impianto normativo identifica, quindi, due tipi di affidamento: l’uno condiviso, l’altro esclusivo: il primo è divenuto la regola, l’altro l’eccezione: la dottrina ha al riguardo sottolineato come la novella 54/2006 abbia mostrato chiaramente un favor legis per l’affidamento condiviso e, correlativamente, un indubbio disfavore per l’affidamento esclusivo ridotto ad ipotesi marginale e residuale.
La nuova normativa non specifica, però, le caratteristiche dell’uno e dell’altro tipo di affidamento, né i rispettivi confini.
Secondo l’opinione prevalente prima della novella, presupposti necessari dell’affidamento congiunto erano l’accordo o richiesta di entrambi i genitori, l’assenza di conflittualità o una bassa conflittualità, la mancanza di opposizione dei figli, specialmente se adolescenti, stili di vita omogenei, abitazioni nella stessa città o comunque non lontane e, infine, buone capacità genitoriali di entrambi i genitori.
Ma tali criteri, che erano già fortemente controversi anche nella previgente disciplina, devono essere riconsiderati alla luce della novella 54/2006, che ha mostrato un chiaro favore per l’affidamento condiviso.
Contro l’assunto che una forte conflittualità escluderebbe l’applicabilità dell’affido condiviso o congiunto è stato rilevato che “appare limitato e limitante prevedere l’applicabilità dell’affidamento congiunto solo in casi di genitori accondiscendenti” e che se l’affidamento congiunto fosse disposto solo nei confronti di coppie solidali e collaborative, rischierebbero di esserne esclusi proprio quei genitori che ne hanno maggiormente bisogno.
Anche la giurisprudenza ha affermato che “l’affidamento condiviso non può peraltro ritenersi precluso di per sé dalla mera conflittualità esistente tra i coniugi, poiché altrimenti avrebbe solo un’applicazione residuale, coincidente con il vecchio affidamento congiunto; e ciò anche considerato il fatto che l’uno dei coniugi potrebbe strumentalmente innescare in via unilaterale i conflitti al fine magari di orientare il decidente verso un affidamento esclusivo”.
Si può dire, quindi, che il provvedimento di affidamento dei figli ha il compito residuale di stabilire la collocazione prevalente del minore presso uno dei genitori, di determinare i tempi e le modalità di permanenza del minore presso ciascun genitore, nonché di fissare, eventualmente, ove fosse necessario, i compiti di ciascun genitore in ordine alla cura della prole.
Tuttavia, non sembra ragionevole pensare che la differenza tra i due tipi di affidamento possa ridursi ad una diversità meramente quantitativa, in termini di collocazione del minore, residenza e misura del mantenimento, dal momento che le stesse condizioni e le stesse prestazioni sono compatibili con l’una e l’altra modalità di affidamento e possono essere indicate dal giudice indifferentemente nell’una e nell’altra ipotesi di affidamento, tanto più che, anche nel caso di affidamento ad un solo genitore, il giudice deve “far salvi, per quanto possibile, i diritti del minore previsti dal comma 1 dell’art. 155 c.c.”.
La distinzione va, piuttosto, ricercata nel modo di essere dell’affidamento e, soprattutto, avuto riguardo al significato formale del termine; non vi è dubbio che l’espressione affidamento rinvii all’idea della responsabilità connessa al compito genitoriale di crescere il minore e di curarne la formazione della personalità.
In questo senso, l’affidamento condiviso rinvia all’idea di compartecipazione dei genitori nella cura e nella crescita dei figli, ovvero l’idea della compartecipazione dei genitori ai compiti educativi dei figli.
Sulla necessità di non trascurare il ruolo di sicura importanza del genitore non affidatario, si era infatti già espressa la Cassazione, affermando che: “dal momento che la realizzazione dell’aspirazione e dell’interesse primario del genitore a prendersi cura dell’educazione e dell’istruzione del figlio è finalizzata e dunque subordinata al perseguimento dell’interesse del minore, preminente rispetto a quello del genitore ad impartirgli la propria istruzione ed educazione, il giudice può legittimamente disciplinare il diritto del coniuge non affidatario a mantenere vivo il rapporto affettivo con il figlio, in modo da non arrecare pregiudizio alla sua salute psicofisica, anche prevedendo particolari cautele e restrizioni agli incontri ed arrivando perfino a sospenderli del tutto”.
L’affidamento condiviso risulta caratterizzato dalla compartecipazione dei genitori nella cura e nella crescita dei figli e operativamente da una tendenziale ripartizione, tra i coniugi, di compiti e di responsabilità.
L’affidamento condiviso comporta che ciascun genitore possa operare direttamente per la cura del figlio, condividendo con l’altro genitore ogni responsabilità necessaria per l’attuazione di un progetto educativo concordato.
La legge, tuttavia, affida al giudice il compito di: a) determinare i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore e di indicare le responsabilità assunte dai genitori in relazione ai compiti di cura; b) valutare eventuali accordi intervenuti tra i genitori.
Anche nelle ipotesi di affidamento condiviso, sarà necessario individuare il genitore presso il quale il minore abbia la collocazione prevalente della sua vita e dove verrà individuata la sua residenza anagrafica.
Conseguentemente, sarà necessario fissare i tempi e le modalità attraverso cui garantire la frequentazione del genitore non locatario; lo specifico contenuto del provvedimento di affidamento sarà condizionato e dovrà essere posto in relazione alle singole ipotesi concrete che il giudice si troverà ad esaminare.
Il giudice, nel modulare il programma dell’affidamento, dovrà considerare che ciò che è importante non è una ripartizione analitica della presenza fisica del figlio presso ciascuno dei genitori, quanto piuttosto determinare un insieme di indicazioni che siano idonee ad assicurare una adeguata relazione fisica ed affettiva tra entrambi i genitori e i figli.
Il giudice potrà elaborare uno schema dei tempi di permanenza dei figli presso l’abitazione del genitore non convivente, correlandolo ad un programma di ripartizione dei compiti di cura del minore e di responsabilità assunte da ciascun genitore.
L’art. 155 c.c. dispone che il giudice prende atto, se non contrari agli interessi dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori; questo principio non è nuovo ma era presente, prima della l. n. 54 del 2006, sia nell’ambito della separazione giudiziale, sia in quello della separazione consensuale.
Ne consegue che, nonostante l’attuale art. 155 c.c. disponga che il giudice “prende atto” degli accordi dei genitori, tuttavia, al giudice va riconosciuta la possibilità di verificare che gli accordi siano stati assunti in piena libertà e che gli stessi rispondono agli interessi del minore.
Il giudice non dovrà, quindi, limitarsi a prendere atto degli accordi dei coniugi, ma dovrà valutarli e prospettare soluzioni diverse da quelle indicate.
Di maggiore portata, con riferimento all’interesse del minore, punto focale della normativa esaminanda, appare essere il disposto di cui al comma sexies, in tema di audizione del minore.
Le ripercussioni che tale innovazione andrà a portare sul piano concreto, sulla prassi giudiziaria, si evidenziano subito agli occhi degli operatori del diritto, che dovranno quotidianamente confrontarsi con le novità introdotte, portarle in aula e conciliarle con gli interessi e i voleri degli assistiti.
La novità principale della riforma è costituita dal passaggio dal sistema di mantenimento indiretto per il genitore non affidatario, al mantenimento diretto della prole, da parte di entrambi: mentre, quindi, in passato esistevano due regimi, l’uno per l’affidatario (di mantenimento diretto) e l’altro per il genitore non affidatario (indiretto), ora la disciplina è unica ed il mantenimento è diretto per entrambi i genitori.
La riforma, infatti, facendo applicazione dei principi in materia di condivisione delle responsabilità educative ha previsto – all’art. 155 c.c. – che, salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti, “ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico (…)”
Più ricco di spunti e di ripercussioni pratiche, è quanto disposto dal comma quater dell’art. 155 c.c., in tema di assegnazione della casa familiare.
Si tratta di un intervento di grande rilievo, anche perché in forza di quanto previsto dall’art. 4 della stessa legge, la nuova disciplina si deve ritenere applicabile non solo nei casi di separazione, ma anche nelle ipotesi di divorzio, nonché lì dove venga sciolta una c.d. famiglia di fatto e cioè in quei casi in cui vi sia stata un’unione di fatto, dalla quale siano nati figli, conviventi con i genitori in una casa, per ciò estensivamente definibile come familiare.
Si è, in questo modo, introdotta nel nostro ordinamento una disciplina uniforme dell’assegnazione della casa familiare, con la conseguenza che – da un lato – l’art. 6, comma 4, l. div. si deve ritenere tacitamente abrogato, per incompatibilità della vecchia disciplina con la nuova e – dall’altro – si è finalmente risolto il problema dell’assegnazione della casa nell’ipotesi di famiglia di fatto, che sino ad ora aveva trovato qualche risposta solo da parte della giurisprudenza.
La nuova disposizione prevede che l’assegnazione avvenga tenendo conto prioritariamente dell’interesse dei figli, lasciando intendere che – ai fini dell’assegnazione – tale criterio si trovi a competere con altri criteri, come ad esempio la proprietà dell’abitazione, sui quali è destinato comunque a prevalere.
Sotto tale profilo, quindi, non cambia il criterio per l’assegnazione della casa, che resta l’interesse dei figli, sebbene – ad un primo approccio – non sembra che la formula consenta che l’assegnazione della casa familiare possa essere disposta in favore di un coniuge indipendentemente dalla sua convivenza con il figlio.


Dott.ssa Antonella Prisciandaro