SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE


SEZIONE VI PENALE


Sentenza 4 luglio – 17 settembre 2008, n. 35528


(Presidente Lattanzi – Estensore Fidelbo)


Ritenuto in fatto e in diritto


1. – In seguito ad una complessa indagine veniva contestato a P. L. e a F. N. di avere sottoposto F. S. – marito della prima e padre del secondo – a continui maltrattamenti, con grave sofferenza fisica e psichica, minacciandolo, percuotendolo e costringendolo a vivere in condizioni di vita ed igienico sanitarie indecorose e malsane, impedendogli di avere rapporti con la sorella, con il cognato, con gli amici, di ricevere telefonate, inoltre facendolo ricoverare contro la sua volontà e cagionandogli in varie occasioni lesioni personali (capo a: artt. 61 n. 5, 81, 110, 582, 583 cpv. 585, 576 c.p.); inoltre, di averlo privato della libertà personale, facendolo ricoverare, contro la sua volontà, nella casa di cura omissis (capo b: artt. 81, 110, 605 n. 1 c.p.); infine, di avere abusato dello stato di infermità e di prostrazione del F., inducendolo a compiere atti patrimoniali a sé dannosi (capo c: art. 81, 110, 6-13 c.p.).


2. – Con la sentenza in epigrafe il G.u.p. del Tribunale di Roma ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti dei due imputati, ritenendo non sussistenti i reati di maltrattamenti e sequestro di persona a loro attribuiti e non punibili gli imputati in relazione al reato di circonvenzione di incapace, perché commesso ai danni di prossimo congiunto.


3. – Contro questa sentenza il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma ha presentato ricorso per cassazione.


Con un primo motivo deduce mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in ordine all’elemento materiale e psicologico dei reati contestati ai capi a) e b), anche con riferimento a specifici atti del procedimento.


In particolare, parte ricorrente censura la sentenza che ha ritenuto del tutto inattendibile la denuncia di S. F., evidenziando come le accuse mosse agli imputati trovino precisi riscontri soprattutto nelle dichiarazioni di B. F., C. P. e A. M. M., nonché in quelle rese da M. O., G. A. G. e D. Z. M., tutti concordi nel riferire del difficile rapporto con la moglie e delle condizioni di degrado in cui viveva S. F., circostanza verificata anche nel corso dell’ispezione dei Carabinieri avvenuta nel gennaio 2006.


Viene messo in risalto il comportamento degli imputati che, dopo il ritorno di F. da Napoli e il ricovero al omissis, gli impediscono ogni legame con l’esterno e lo fanno ricoverare presso la casa di cura omissis, in una sistemazione che i Carabinieri hanno definito poco dignitosa e in cui, in poco tempo, le sue condizioni di salute mentale peggiorano notevolmente. Si rileva, inoltre, come la denuncia del F. abbia trovato riscontro nell’ispezione effettuata dai Carabinieri il 29 gennaio 2006, nonché nelle deposizioni dei medici P. e D. G., circostanza che il giudice avrebbe omesso di prendere in esame.


In conclusione, il pubblico ministero ricorrente assume che con la sentenza impugnata il G.u.p. avrebbe recepito senza alcun vaglio critico tutte le dichiarazioni rese dalla P., omettendo di prendere in attenta considerazione i numerosi elementi acquisiti nel corso delle indagini a sostegno della tesi accusatoria, sottovalutando le condotte degli imputati che si sono affrettati a fare firmare al F. le procure per la riscossione del trattamento di fine rapporto e dei ratei di pensione.


Con un altro motivo il ricorrente deduce l’erronea applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 649 comma 1 c.p., nonché vizio di motivazione. Più precisamente lamenta che il giudice non abbia applicato l’ultimo comma dell’art. 649 c.p., che esclude la causa di non punibilità nell’ipotesi in cui i delitti contro il patrimonio contemplati nel titolo XIII del libro secondo del codice, tra cui il reato di circonvenzione di incapace, siano commessi con violenza alla persona, rientrando in questa nozione anche la violenza morale, come quella che sarebbe stata posta in essere dagli imputati nei confronti del loro congiunto.


Il difensore della parte civile ha presentato una memoria sostanzialmente adesiva al ricorso del pubblico ministero.


4. – Il ricorso deve essere accolto limitatamente ai motivi proposti in relazione al capo c) dell’imputazione.


Il G.u.p. ha ritenuto non punibili gli imputati in ordine al reato di circonvenzione di incapaci, facendo applicazione dell’art. 649 comma 1 c.p., che contiene una ipotesi di non punibilità qualora il reato sia commesso in danno di congiunti (nella specie il reato sarebbe stato commesso nei confronti, rispettivamente, del coniuge e dell’ascendente). Il fondamento di tale disposizione codicistica è costituito dalle ragioni di carattere morale e sociale che connotano i rapporti fra certe categorie di familiari riguardo ai beni materiali ed in vista dei quali si esclude la punibilità di alcuni reati. Tuttavia, come ha correttamente rilevato parte ricorrente, la sentenza impugnata non ha preso in considerazione l’ultimo comma dell’art. 649 c.p., che esclude l’applicazione di tale causa di non punibilità quando il delitto contro il patrimonio sia commesso con violenza alle persone, disposizione di chiusura che vuole evitare l’operatività dei primi due commi in presenza di condotte violente, rispetto alle quali l’ordinamento non rinuncia alla punizione del soggetto agente.


Deve precisarsi che la condotta tipica del reato di cui all’art. 643 c.p. consiste nell’abusare dello stato di minorazione del soggetto passivo e nell’indurre quest’ultimo a compiere un atto che comporti un effetto dannoso, per lui o per altri. La giurisprudenza ha precisato che con il termine “abuso” si intende una condotta di approfittamento ovvero di strumentalizzazione dello stato di debolezza della vittima. Tuttavia, la norma non specifica le modalità di una tale condotta, per cui si ritiene che qualsiasi pressione morale – anche se blanda – possa essere sufficiente ad integrare l’abuso, qualora si riveli idonea allo scopo perseguito, tenuto conto delle condizioni della vittima. D’altra parte, la condotta di induzione deve concretarsi in un’apprezzabile attività di suggestione ovvero, ancora, di pressione morale, finalizzata a determinare la volontà minorata del soggetto passivo e la stessa giurisprudenza precisa che l’induzione può consistere nell’uso di qualsiasi mezzo idoneo a determinare o a rafforzare nel soggetto passivo il consenso al compimento dell’atto dannoso (Sez. II, 23 novembre 1987, Rossi; Sez. II, 7 ottobre 1999, Noventa). Pertanto, non può escludersi che la circonvenzione possa realizzarsi anche attraverso condotte che implichino l’uso di una violenza morale, cioè di una condotta che si estrinsechi in un atteggiamento di intimidazione del soggetto passivo, in grado di eliminare o ridurre la sua capacità di determinarsi, condizionando la sua già ridotta capacità di agire secondo la propria volontà indipendente.


Resta ferma la distinzione tra i delitti di cui all’art. 643 e 629 c.p. – tra i quali si esclude ogni ipotesi di concorso – che si differenziano per il mezzo adoperato dall’agente, che nella circonvenzione di incapaci è costituito dall’opera di suggestione o di induzione e nell’estorsione, invece, dall’uso della violenza o minaccia. Tuttavia, come si è visto, non può escludersi che l’attività di induzione possa essere realizzata anche attraverso condotte che implicano il ricorso a forme di violenza morale (Sez. II, 16 marzo 2005, n. 13488, De Vito).


Quanto precede consente di ritenere non del tutto corretta l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, che ha, seppure implicitamente, escluso la configurabilità della fattispecie di cui all’art. 649 ult. comma c.p. sostenendo che il reato di circonvenzione di incapaci non implica l’uso della violenza alla persona. Invero, nel reato in questione è estraneo il requisito della violenza fisica, ma non quello della violenza morale.
D’altra parte, ritiene il Collegio, aderendo ad una nota opinione dottrinale, che il richiamo alla “violenza” contenuto nell’art. 649 ult. comma c.p. debba intendersi riferito non solo alla violenza fisica, ma anche a quella morale, in quanto costituisce pur sempre una forma di coazione psichica, che può essere parificata alla violenza.


Ne consegue che, sulla base di quanto precede, la sentenza deve essere annullata, limitatamente al capo c), e rinviata al Tribunale di Roma che dovrà verificare l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 649 ult. comma c.p., uniformandosi ai principi sopra indicati.


5. – Per il resto il ricorso deve essere rigettato.


Il pubblico ministero, con i motivi residui, ha dedotto, sotto diversi profili, il vizio di motivazione della sentenza, senza considerare che il sindacato di legittimità si limita al riscontro dell’esistenza di una motivazione che rispetti i canoni logici, verificando cioè che sussista una coordinazione logica tra le varie proposizioni della motivazione, senza alcuna possibilità di effettuare una diversa valutazione delle emergenze procedimentali, essendo limitati i vizi denunciabili, quanto alla motivazione, alla mancanza, alla contraddittorietà ovvero alla manifesta illogicità risultante dal testo o da altri atti del processo. Ne consegue che le censure che vengono mosse nel ricorso, nei confronti di non condivise ricostruzioni dei fatti operate dal G.u.p., non possono trovare spazio in questa sede, trattandosi di valutazioni di merito, fondate sull’apprezzamento di circostanze di fatto, peraltro alternative rispetto a quelle contenute nella gravata sentenza che non appaiono affette da alcuna illogicità.


Il G.u.p. ha ritenuto che gli elementi raccolti non fossero muniti della necessaria consistenza che potesse giustificare il rinvio a giudizio, in considerazione del fatto che a carico degli imputati vi erano le accuse di S. F., che però al momento della denuncia si trovava in condizioni mentali tali da escludere la sua capacità di intendere e di volere, a causa di una infermità di mente consistente in “delirio paranoideo in fase acuta in soggetto affetto da demenza multinfartuale”, come è stato accertato dalla consulenza tecnica neuropsichiatrica disposta dallo stesso pubblico ministero e confermato da altri medici e conoscenti della persona offesa, tanto che su istanza della Procura, successivamente ai fatti, gli è stato designato un amministratore di sostegno.


Per quanto concerne l’accusa di sequestro di persona, la sentenza del G.u.p. ha escluso la sussistenza del reato, in quanto il ricovero presso l’Ospedale omissis è avvenuto a seguito della richiesta di un trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.) determinato dalla grave situazione che si era creata in famiglia a causa della ingestibilità di S. F.. Lo stesso vale per il ricovero presso la casa di cura omissis, determinato dalle condizioni patologiche in cui si trovava la persona offesa.


Il giudice ha anche escluso la ipotizzabilità in concreto dei reati di maltrattamenti e di lesione personali, in quanto le stesse dichiarazioni rese da E. L., cioè dalla collaboratrice del F., riferiscono circostanze apprese da quest’ultimo, fonte ritenuta inattendibile. Inoltre, ha affermato che le condizioni di precarietà igienica in cui viveva il F. non fossero attribuibili a vessazioni o a incuria della moglie, L. P., ma ad una libera scelta determinata dallo stato di confusione mentale in cui si trovava lo stesso F..


L’esclusione della sussistenza dei reati di lesioni personali, relativi ai due episodi contestati, è stata giustificata in base ad una incertezza probatoria che non avrebbe consentito il rinvio a giudizio.



P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata relativamente al capo c) (art. 643 c.p.) e rinvia per nuova deliberazione al Tribunale di Roma.


Rigetta nel resto il ricorso.