La natura sostanziale della prescrizione ed il regime successorio.
L’inattitudine interruttiva della prescrizione dell’avviso di conclusione delle indagini di cui all’art. 415 bis c.p.p..

di Stefania Petruzzelli

Disquisire sulla natura sostanziale o processuale dell’istituto della prescrizione si rende imperativo al fine di individuare il regime successorio e la sua applicazione a detta causa estintiva del reato.
E’ necessario ricordare, come è stato efficacemente rilevato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, che l’istituto della prescrizione trova il suo fondamento razionale nell’interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno o notevolmente attenuare l’allarme della coscienza comune e con esso ogni istanza di prevenzione generale e speciale.
In questa ottica, la prolungata inerzia dei pubblici poteri rende manifesta la volontà dello Stato di non avere più interesse a perseguire penalmente un determinato fatto – reato, con la inevitabile conseguenza della estinzione del reato sancita dall’art. 157 c.p..
Per altro verso, le norme sulla prescrizione dei reati costituiscono l’espediente di carattere formale escogitato dal nostro legislatore per realizzare quella finalità di carattere sostanziale, costituita dalla durata ragionevole del processo penale, che è tutelata dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché, oggi – a seguito delle modifiche introdotte dalla Legge Costituzionale 14 marzo 2001, n. 89 – anche dall’art. 111 Cost. e che è da tali norme riconosciuta all’imputato, quale suo diritto soggettivo perfetto.
Il legislatore ha ritenuto, però, che fosse opportuno interrompere il corso della prescrizione, con un sostanziale aumento dei termini prescrizionali secondo lo schema previsto dall’art. 157 c.p., u.c., quando fossero stati posti in essere atti fondamentali del procedimento penale che rendessero manifesto il persistere, nonostante il tempo trascorso dalla commissione del fatto, dell’interesse statuale alla attuazione della pretesa punitiva.
È interessante notare che il testo del progetto preliminare del nuovo codice penale prevedeva all’art. 161 c.p., comma 1, che il corso della prescrizione è interrotto da qualsiasi atto del procedimento, perchè, sosteneva il guardasigilli nella sua relazione, ognuno di essi manifesta l’interesse dello Stato alla attuazione della legge penale.
La rigorosa impostazione originaria fu abbandonata proprio perchè anche il compimento di un semplice atto del procedimento, quale ad esempio la formazione materiale del fascicolo processuale da parte del cancelliere, avrebbe finito con il vanificare un vero e proprio diritto dell’imputato.
Si ritenne opportuno, perciò, contemperando diverse e spesso opposte esigenze, di restringere la cerchia degli atti del procedimento penale idonei ad interrompere la prescrizione a quelli veramente fondamentali del procedimento stesso, che, in considerazione del loro carattere obiettivo, per sè, dimostravano la persistenza dell’interesse dello Stato a punire.
In base a tale impostazione, ed alla considerazione che la giurisprudenza sotto la vigenza del codice penale precedente aveva smisuratamente allargato la cerchia di tali atti, il legislatore ritenne di dovere individuare ed indicare specificamente, in base ad un razionale uso della discrezionalità legislativa, gli atti fondamentali del processo ai quali si sarebbe dovuto riconoscere effetto interruttivo del corso del termine prescrizionale.


Il legislatore del 1930 introdusse, inoltre, una altra novità rilevante; mentre, infatti, il codice precedente prevedeva che l’inutile decorso del tempo comportasse la prescrizione dell’azione penale, quello attualmente vigente prevede all’art. 157 c.p. la estinzione del reato.
È del tutto evidente allora il passaggio da un istituto di diritto processuale ad uno di diritto sostanziale.
Del resto anche quella parte della dottrina che sosteneva la natura processuale dell’istituto della prescrizione attribuiva, poi, rilievo sostanzialistico al suo effetto estintivo, con la conseguenza che in tale argomento prevaleva sempre ciò che più risultava in favore dell’accusato.
La valenza sostanziale attribuita dal legislatore all’istituto della prescrizione ha fatto, quindi, ritenere applicabile in tale materia anche l’art. 2 c.p., comma 3 .
In ordine a tale disposizione normativa – secondo la quale «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile» –, occorre anzitutto stabilire se tra le «disposizioni più favorevoli al reo», cui si riferisce la citata norma codicistica, debbano rientrare esclusivamente quelle concernenti in senso stretto la misura della pena, ovvero vi si possano includere anche le norme che, riguardando ulteriori e diversi profili (come, appunto, la riduzione dei termini di prescrizione del reato), ineriscono al complessivo trattamento riservato al reo.
La norma del codice penale deve essere interpretata, ed è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e da quella di legittimità nel senso che la locuzione «disposizioni più favorevoli al reo» si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato.
Una conclusione, questa, coerente con la natura sostanziale della prescrizione e con l’effetto da essa prodotto, in quanto “il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva” (Cass., Sez. I, 8 maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro, esprime l’interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato l’allarme della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l’acquisizione del materiale probatorio.
Pertanto, le norme sulla prescrizione dei reati, ove più favorevoli al reo, rispetto a quelle vigenti al momento della commissione del fatto, devono conformarsi, in linea generale, al principio previsto dalla citata disposizione del codice penale.


La questione sopra esaminata riguardante l’applicazione del principio del favor rei all’istituto della prescrizione ha assunto particolare rilevanza con l’entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. legge ex Cirielli) che ha ridisegnato l’istituto della prescrizione, innovandone la disciplina, riscrivendo in particolare il testo dell’art. 157 c.p. e rimodulando la durata dei termini prescrizionali in relazione alle diverse fattispecie criminose, sortendo l’effetto di inasprire la disciplina previgente relativamente ad alcuni reati e, viceversa, rendendo più breve il termine prescrizionale per altri.
Al fine di coordinare il passaggio da una disciplina all’altra, la legge, al decimo ed ultimo articolo, contiene una serie di disposizioni transitorie e in particolare, al terzo comma così dispone «Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».
Proprio in ordine a tale disposizione è stata sollevata dal Tribunale di Bari questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui l’applicazione della nuova e più favorevole disciplina è subordinata alla condizione della mancata apertura del dibattimento nei procedimenti pendenti.
La Consulta, con sentenza 23 ottobre 2006, n. 393, ha ritenuto fondata la questione sollevata stante l’irragionevolezza della scelta effettuata dal legislatore nel voler fissare nella dichiarazione di apertura del dibattimento la scriminante temporale per l’applicazione dei nuovi e più favorevoli termini di prescrizione, con conseguente violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.


Al fine di meglio comprendere le ragioni della decisione di cui sopra occorre riprendere brevemente alcuni concetti relativi alla successione delle leggi penali nel tempo.
Il principio generale della irretroattività della legge di cui all’art. 11 delle preleggi trova specificazione più puntuale in materia penale nell’art. 2 c.p. coordinandosi con altro principio generale dell’ordinamento, quello del favor rei. Ne deriva che il principio del “tempus regit actum” è parzialmente derogato in favore dell’applicazione retroattiva della legge più favorevole al reo, dando luogo ad un sistema alquanto complesso per cui: a) vi è irretroattività delle norme incriminatrici; b) vi è retroattività delle norme abrogatici; c) vi è una limitata retroattività delle altre norme penali ovvero solo se più favorevoli al reo rispetto a quelle vigenti al “tempus commissi delicti” (salvo condanna passata in giudicato).
Occorre altresì rilevare come se il principio della irretroattività della norma incriminatrice ha rilevanza costituzionale (“Nessuno può essere punito in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” – Art. 25 Cost.), così non è per il regime giuridico riservato alla lex mitior. Ne deriva che la stessa legge che introduce norme più favorevoli al reo può altresì contenere disposizioni che ne escludano la retroattività, derogando all’art. 2, 4 comma c.p., fermo restando il limite del rispetto dell’art. 3 della Costituzione ovvero dell’uguaglianza dei cittadini.
La Corte Costituzionale ha affermato, nella suindicata pronuncia, che eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell’art. 3 Cost., possono essere disposte dalla legge ordinaria solo se ricorre una sufficiente ragione giustificativa. Più precisamente il livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio della retroattività della disposizione più favorevole al reo impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo.
Si tratta di criteri propri non solo dell’ordinamento nazionale, ma desumibili da tutta una serie di disposizioni di carattere comunitario (comma 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario») ed internazionale (art. 15, 1 comma, Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato con L. n. 881/77 «se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne»).
Cosicché, in applicazione di detti criteri, la Consulta ha così motivato la dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251:«…la questione di legittimità costituzionale in esame si risolve in quella della intrinseca ragionevolezza, ex art. 3 Cost., e dunque alla luce del principio di eguaglianza, della scelta di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005. A giudizio di questa Corte, la scelta effettuata dal legislatore con la censurata disposizione transitoria non è assistita da ragionevolezza.
L’apertura del dibattimento non è in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legato al già menzionato rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme sociale, e dall’altro rende più difficile l’esercizio del diritto di difesa (e ciò a prescindere del tutto dalla addebitabilità del ritardo nello svolgimento del processo). Infatti, l’incombente di cui all’art. 492 del codice di procedura penale non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado (in particolare i riti alternativi – e, tra essi, il giudizio abbreviato – che hanno la funzione di “deflazionare” il dibattimento); né esso è incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen., il quale richiama una serie di atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre altri atti processuali anteriori».


Orbene, delineata la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione ed il suo rapporto con il regime successorio delle leggi penali, è intenzione della scrivente soffermarsi sulle questione relativa alla possibilità di riconoscere attitudine interruttiva della prescrizione all’avviso di conclusione delle indagini di cui all’art. 415 bis c.p.p..
Tale questione è stata recentemente oggetto di contrasto di giurisprudenza.
Invero tre sentenze (Cass. Sez. V pen., 11.11.2004; Cass. Sez. IV pen., 03.05.2006; Cass. Sez. IV pen., 29.03.2006) hanno escluso che l’avviso ex art. 415 bis c.p.p. potesse essere ritenuto atto interruttivo della prescrizione a causa essenzialmente della tassatività dell’elenco degli atti interruttivi contenuto nell’art. 160 c.p. e del divieto di analogia in malam partem in materia penale, così confermando i principi stabiliti in una sentenza storica in materia ossia la pronuncia della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite dell’11.07.2001 (Brembati).
Tre altre sentenze (Cass. Sez. V pen. 17.02.2005; Cass. Sez. V pen., 16.06.2005; Cass. Sez. II 10.02.2006) hanno invece ritenuto che l’avviso ex art. 415 bis c.p.p. interrompesse il corso del termine prescrizionale, spiegando che quella operata non era una interpretazione analogica in malam partem, perché si trattava semplicemente di constatare che l’invito del PM a rendere interrogatorio – atto questo incluso nell’elenco di cui all’art. 160 c.p. – era contenuto nell’avviso di conclusione delle indagini notificato all’indagato, nella parte in cui contiene l’avvertimento che l’indagato ha facoltà di chiedere di essere interrogato.
Sul contrasto giurisprudenziale si è pronunciata la Corte di Cassazione a Sezione Unite con sentenza del 22.02.2007, n. 21833, che ha concluso sancendo che “l’avviso di conclusione delle indagini di cui all’art. 415 bis c.p.p. non costituisce atto interruttivo della prescrizione del reato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 160 c.p.”.
Argomenta la Suprema Corte ritenendo che la genesi dell’art. 160 c.p., ed in particolare la predisposizione di un minuzioso catalogo delle cause interruttive della prescrizione, dimostra chiaramente come il legislatore ritenesse detto elenco come tassativo, proprio perchè una delle finalità dichiarate, come si è rilevato, era quella di evitare, a garanzia dell’imputato, che la giurisprudenza allargasse a dismisura la cerchia degli atti capaci di interrompere il corso della prescrizione.
Scelta, peraltro, resa necessaria anche dalla dichiarata natura di diritto sostanziale dell’istituto della prescrizione, rispondendo ad un evidente criterio di legalità individuare con precisione gli atti ai quali veniva riconosciuta la capacità di evitare che l’inutile passaggio del tempo determinasse la estinzione del reato.
L’esame del testo originario dell’art. 160 c.p. del 1931, ed in particolare del catalogo, dimostra che effettivamente tale norma abbia in concreto costituito manifestazione di discrezionalità legislativa sorretta da razionalità, perchè l’elenco comprende davvero atti fondamentali del processo in quanto adempimenti necessari, in quel contesto processuale, per la progressione del processo stesso verso il momento conclusivo.
Gli atti interruttivi della prescrizione, come è stato precisato dalla dottrina, si distinguono, invero, in quattro categorie a seconda che abbiano natura decisoria, come la sentenza di condanna, cui viene assimilato il decreto penale di condanna, coercitiva, come l’applicazione di misure cautelari, probatoria, come l’interrogatorio dell’imputato, propulsiva, come il decreto di citazione a giudizio.
Ora se si esamina il catalogo previsto dall’art. 160 c.p. nella sua nuova formulazione, non vi è dubbio che tutti gli atti processuali indicati rientrino nello schema classificatorio richiamato e possano essere ritenuti atti fondamentali del processo, dai quali è possibile desumere il perdurare dell’interesse dello Stato alla celebrazione del processo.
Parte della dottrina ha, però, rilevato che alcuni atti indicati nell’elenco pongono dei problemi di compatibilità tra la scelta operata dal legislatore e le ragioni poste a fondamento dell’opzione del 1930, perchè con difficoltà gli stessi potrebbero essere considerati atti fondamentali del processo, tanto che si potrebbe affermare che il loro inserimento nell’elenco sarebbe il frutto di un mancato approfondimento legislativo sui caratteri di fondo della classe atti veramente fondamentali.
Ciò dimostrerebbe la non assoluta razionalità delle scelte operate dal legislatore e la conseguente necessità di correggere ed integrare l’elenco stesso.
Le sentenze che si sono discostate, consapevolmente o meno, dagli indirizzi della sentenza delle Sezioni Unite Brembati, già richiamata, hanno rilevato che l’elenco non potrebbe ritenersi completo anche perchè l’art. 160 c.p. non è stato integrato in seguito alle modifiche, talvolta anche rilevanti, al nuovo processo penale introdotte con numerose leggi approvate successivamente alla sua entrata in vigore nel 1989.
La mancata inclusione nel catalogo dell’avviso di deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p., sarebbe, quindi, frutto non di una razionale scelta legislativa, ma di un imperfetto coordinamento legislativo, cosicchè, sembra di comprendere, la interpretazione adeguatrice dell’art. 160 c.p., sostanzialmente effettuata dalle citate sentenze, sarebbe secundum costitutionem.
Anche siffatta impostazione non è stata ritenuta fondata dalla Suprema Corte a Sezioni Unite nella sentenza n. 21833/2007, perchè, come ha già rilevato la citata sentenza Brembati, in assenza di alcun indizio ermeneutico, è davvero difficile ritenere che l’omesso aggiornamento del catalogo di cui al secondo comma dell’art. 160 c.p. sia frutto di imperfetto coordinamento e non già di consapevole scelta da parte del legislatore, tenuto conto del fatto che alcune leggi successive al 1989 (vedi ad esempio il D.L. n. 306 del 1992, convertito in L. n. 356 del 1992), oltre a rilevanti modifiche al nuovo codice di procedura penale, ha apportato anche sul terreno del diritto penale sostanziale incisive modifiche al codice penale.
Inoltre, fa rilevare la Corte, non è vero che il legislatore non abbia mai ampliato il catalogo degli atti interruttivi a seguito di modifiche procedurali;
è necessario ricordare che recentemente il legislatore è intervenuto con la L. 5 dicembre 2001, n. 251, che, pur apportando rilevanti modifiche all’istituto della prescrizione, ha lasciato inalterato il catalogo degli atti di cui all’art. 160 c.p., comma 2.
Sulla scorta di tali argomentazioni, rilevano le sezioni Unite della Suprema Corte come risulti evidente che sia l’interpretazione letterale della norma in discussione – art. 160 c.p. – con la sua analitica elencazione della cause interruttive, sia l’interpretazione logico – sistematica degli istituti della prescrizione e della interruzione della stessa, sia la individuazione della intentio legis consentono di affermare, conformemente all’orientamento nettamente maggioritario della giurisprudenza e della dottrina, che la prescrizione del reato è un istituto di diritto penale sostanziale, fondato sull’interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno l’allarme sociale e con esso ogni istanza di prevenzione generale e speciale. Soltanto gli atti veramente fondamentali del processo, secondo la definizione del Guardasigilli contenuta nella relazione al codice penale del 1930, specificamente indicati dall’art. 160 c.p., o da altre leggi penali che ab externo abbiano integrato tale norma, possono interrompere la prescrizione perchè denotano il persistere dell’interesse dello Stato a perseguire l’illecito.
Tali atti costituiscono senz’altro un numerus clausus, non solo perchè ciò si desume dai lavori preparatori del codice penale, ma principalmente perchè il venir meno della tassatività dell’elenco comporterebbe, con la violazione della riserva di legge in materia penale, la negazione del principio di legalità e la garanzia di determinatezza della fattispecie penale di cui all’art. 25 cpv.
Cost..
Infine l’elenco di cui all’art. 160 c.p. non può essere ampliato per effetto di una interpretazione analogica perchè evidentemente si tratterebbe di una analogia in malam partem non consentita dall’art. 14 disp. gen..
Le tre sentenze, che si sono poste in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale delineato ritenendo la efficacia interruttiva del deposito degli atti di cui all’art. 415 bis c.p.p., hanno precisato che non si tratterebbe di interpretazione analogica o estensiva e nemmeno di difetto di aggiornamento del catalogo da parte del legislatore. Si tratterebbe, invece, di evidenziare che un atto nominato dall’art. 160 c.p., quale quello previsto dall’art. 375 c.p.p., è ontologicamente, in sostanza contenuto anche nell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p., quindi, anche in un atto diverso e non menzionato dal predetto art. 160 c.p..
Cosicchè sarebbe necessario un coordinamento dell’art. 160 c.p. a seguito della introduzione del nuovo istituto non previsto al momento della revisione dell’art. 160 c.p..
L’indirizzo in questione nega anche di avere fatto ricorso al concetto, costantemente ripudiato dalla quasi unanime dottrina, di atto equipollente, nel senso cioè che l’avviso di deposito degli atti sarebbe riconducibile alla eadem ratio di quelli analiticamente enumerati dall’art. 160 c.p., e precisa che nell’art. 415 bis c.p.p. sarebbe individuabile quell’invito a presentarsi per rendere interrogatorio previsto dall’art. 160 c.p., che originariamente era disciplinato soltanto dall’art. 375 c.p.p..
Anche su tale aspetto si sono soffermate le Sezioni Unite nella sentenza n. 21833/2007 sancendo che appare davvero difficile ricondurre l’avviso di deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p. tra gli atti aventi efficacia interruttiva se si tiene presente la classificazione degli stessi dinanzi menzionata.
Escluso infatti che si tratti di un atto avente natura decisoria, coercitiva o probatoria, esso dovrebbe avere natura propulsiva del procedimento, come ad esempio il decreto di citazione a giudizio.
Non è così perchè il deposito degli atti segnala soltanto la fine della attività investigativa del pubblico ministero e serve essenzialmente a verificare il grado di resistenza del materiale investigativo dell’accusa rispetto alle sollecitazioni – deposito di memorie e documenti, richieste al pubblico ministero di compimento di atti di indagine, deposito di documentazione relativa ad indagini difensive – in senso opposto formalizzate dalla difesa.
È anche errato equiparare l’invito a rendere interrogatorio previsto dall’art. 375 c.p.p. alla facoltà di presentarsi al pubblico ministero per rendere dichiarazioni o per essere sottoposto ad interrogatorio previsto dall’art. 415 bis c.p.p.. Si tratta, invero, di due istituti assai diversi.
Nel primo caso è il pubblico ministero che invita l’indagato a presentarsi, con possibilità anche di accompagnamento coattivo per l’indagato che non ottemperi all’invito, quando è necessario procedere ad atti di indagine che richiedono la presenza della persona sottoposta alle indagini.
Si tratta all’evidenza di un atto che è funzionale allo svolgimento delle indagini, che lo stesso organo dell’accusa ritenga indispensabile, e che rientra tra gli atti processuali aventi natura probatoria ai quali correttamente viene riconosciuta capacità interruttiva della prescrizione perchè testimoniano la volontà dello Stato di perseguire l’illecito.
Nell’art. 415 bis c.p.p. è, invece, prevista la facoltà dell’indagato di chiedere di presentarsi per rilasciare dichiarazioni o rendere interrogatorio.
Si tratta di atto, pertanto, non provocato da una iniziativa del pubblico ministero, ma ricondotto ad una volontà dell’indagato che ritenga attraverso quello strumento di poter far valere le proprie ragioni.
È un atto che si inserisce, perciò, nella strategia difensiva dell’indagato e che proprio per tale ragione non può assumere alcun rilievo ai fini della volontà dello Stato di perseguire l’illecito.


In conclusione, per tutte le ragioni illustrate, deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale l’avviso di conclusione delle indagini di cui all’art. 415 bis c.p.p. non costituisce atto interruttivo della prescrizione del reato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 160 c.p..


Avv. Stefania Petruzzelli