Interrogazioni sulla compatibilità o meno con il divieto del patto commissorio
della datio risolutivamente condizionata all’adempimento
e sospensivamente condizionata all’inadempimento.

di Stefania Petruzzelli

La datio in solutum è espressione latina che significa “dazione in pagamento”.
E’ disciplinata dall’art. 1197 c.c. (Prestazione in luogo dell’adempimento), contenuto nel Libro IV (Delle Obbligazioni), Capo II (Dell’adempimento delle obbligazioni), Sezione I (Dell’adempimento in generale) del Codice Civile, e sancisce espressamente “ Il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta. In questo caso l’obbligazione si estingue quando la diversa prestazione è eseguita.
Se la prestazione consiste nel trasferimento della proprietà o di un altro diritto, il debitore è tenuto alla garanzia per l’evizione e per i vizi della cosa secondo le norme della vendita, salvo che il creditore preferisca esigere la prestazione originaria e il risarcimento del danno.
In ogni caso non rivivono le garanzie prestate dai terzi.
”.
Tale disposizione normativa, dunque, riconosce efficacia liberatoria all’esecuzione di una prestazione diversa da quella dovuta che sia avvenuta in sostituzione di quella originariamente stabilita, con il consenso del creditore, che può essere espresso o tacito.


E’ importante sottolineare come con la datio in solutum non si realizza il soddisfacimento in senso stretto del credito, ma il perseguimento dell’interesse del creditore che si ritiene soddisfatto con una prestazione diversa.
L’istituto in esame, pertanto, costituisce una causa di estinzione sattisfattoria, il cui effetto solutorio è subordinato però non all’accordo intercorso tra creditore e debitore ma bensì all’esecuzione della prestazione sostitutiva.
Tale caratteristica distingue la datio in solutum dalla novazione oggettiva: nella datio l’estinzione del vincolo obbligatorio non scaturisce dall’assunzione di una nuova obbligazione, circostanza questa che si verifica di converso con la novazione oggettiva.
In ordine alla natura giuridica della datio in solutum, ben può affermarsi che, superato l’orientamento isolato declamante una presunta configurabilità del consenso del creditore quale dichiarazione recettizia (sic volontà autorizzativa unilaterale) avente lo scopo di attribuire alla prestazione sostitutiva lo stesso valore di quella originaria, la dottrina maggioritaria si è espressa nel senso di riconoscere alla datio in solutum natura contrattuale.


Una prima corrente ha definito tale istituto un “negozio a contenuto reale”, ove l’elemento della realità doveva ricercarsi non nella “consegna della cosa”, ma nell’ “esecuzione della prestazione”, così da poter includere anche le prestazioni consistenti in un facere.
Tale teoria ha incontrato non poche obiezioni per la sua scarsa adattabilità alle prestazioni di fare – non essendo in alcun modo verosimile parlare di “consegna di una prestazione consistente in un’attività” -, nonché ai trasferimenti dei beni immobili – ove la traslatio si ha con il passaggio di proprietà e non con la consegna del bene.
Una seconda corrente ha definito la dazione in esame come contratto modificativo dell’oggetto del preesistente rapporto obbligatorio, incontrando non pochi rilievi contrari, posto che la dazione in pagamento non cambia il contenuto dell’obbligazione, restando la prestazione dovuta quella originaria, pur se si pattuisce l’accettazione di una diversa prestazione reputata equivalente.
In verità la qualificazione giuridica ritenuta più corretta dalla dottrina e con fondamenta giuridiche solide è quella che inquadra la datio in solutum quale “contratto a titolo oneroso solutorio – liberatorio” che estingue l’obbligazione in modo satisfattivo.


La disciplina da applicarsi, dunque, ad un siffatto istituto giuridico è la disciplina generale del contratto, sia in ordine alla forma che alla pubblicità, per le quali deve necessariamente guardarsi alla natura della prestazione oggetto di dazione (es. trasferimento bene immobile = forma scritta ad substantiam).
In ordine ai soggetti del contratto in esame, deve necessariamente distinguersi tra “momento dell’accordo” e “momento dell’esecuzione della prestazione”:
nel primo caso soggetti sono esclusivamente creditore e debitore (o chi ne ha la rappresentanza), unici legittimati all’accordo sostitutivo; nel secondo caso soggetto del rapporto ben può essere il terzo, il quale ponga in essere la prestazione satisfattiva in favore del creditore.
L’oggetto, invece, della prestazione sostitutiva, può estrinsecarsi in qualsivoglia prestazione, purchè lecita, non essendoci limiti posti dalla legge.


Per esempio, l’adempimento di un’obbligazione pecuniaria può estinguersi con mezzi diversi dal denaro (vedi assegno circolare, vaglia postale).
In ogni caso, quando l’oggetto della prestazione sostitutiva è costituito dal trasferimento della proprietà e di un altro diritto, il debitore è tenuto alla garanzia per evizione e per i vizi della cosa.
Il legislatore, anzi, in un’ipotesi siffatta, ha riconosciuto al creditore, in aggiunta rispetto al mero compratore, di ben poter scegliere di non agire per veder riconosciute le suddette garanzie, ma bensì di agire per la risoluzione della datio in solutum e la pretesa della prestazione originaria nonché per il risarcimento del danno.
Inoltre, ha inteso tutelare i terzi garanti sancendo espressamente che le garanzie prestate dai terzi rimangono in ogni caso estinte dall’intervenuto accordo solutorio.
Un’ultima annotazione deve farsi in ordine alla presenza nel nostro ordinamento non solo della dazione in pagamento “volontaria”, bensì della dazione in pagamento “legale” e della dazione in pagamento “giudiziale”.


La datio in solutum legale prevede che, in luogo del creditore, sia il legislatore a stabilire la possibilità di estinguere l’obbligazione con una prestazione diversa da quella dovuta.
La datio in solutum giudiziale si caratterizza invece per essere la prestazione sostitutiva frutto di un provvedimento del giudice (es. procedimento esecutivo).
Orbene, le caratteristiche, l’oggetto e la disciplina della datio in solutum conducono inevitabilmente ad un’analisi comparativa con il patto commissorio disciplinato dall’art. 2744 c.c. e ad un’indagine approfondita sulla compatibilità di tali istituti giuridici, che sembrano intrecciarsi per le finalità stessa a cui sono preordinati e porsi tra di loro agli antipodi.
Invero, è stato ampio oggetto di esame la liceità della datio in solutum con riferimento al divieto sancito dal legislatore all’art. 2744 c.c.. di porre in essere i cc.dd. patti commissori, di cui si rende imprescindibile esaminarne gli aspetti e la natura, al fine di poter giungere ad un giudizio in ordine alla liceità o meno della “datio in solutum risolutivamente condizionata all’adempimento” e della “datio in solutum sospensivamente condizionata all’inadempimento”.


Il divieto di patto commissorio è previsto dal legislatore all’art. 1963 c.c. ed all’art. 2744 c.c., riferendosi, nel primo caso all’anticresi, mentre nel secondo caso al pegno e ipoteca.
Si tratta di norme sostanzialmente analoghe che vietano la possibilità che le parti contraenti stabiliscano (patto commissorio in continenti), tramite un pactum, che vi sia il trasferimento automatico del bene dato in garanzia a favore del creditore, laddove vi sia l’inadempimento del debitore, comminandone la nullità; il patto è nullo anche se successivo alla costituzione della garanzia patrimoniale (patto commissorio ex intervallo).
Tale patto, di origine romana, non è stato sempre vietato e se ne faceva largo uso nell’età repubblicana; il patto commissorio, infatti, veniva utilizzato come strumento di pressione verso il debitore, finalizzata ad indurlo all’adempimento.
Più in particolare, esisteva il patto commissorio con cui il creditore acquistava in proprietà il bene pignorato (proprietà quiritaria per le res nec mancipi, pretoria per le res mancipi) a seguito dell’inadempimento del debitore, ed il patto con cui si dava al creditore la facoltà di vendere la cosa (ius vendendi o ius distrahendi) a trattenerne il ricavato (sempre a seguito di inadempimento del debitore); il primo patto veniva guardato con sfavore perché troppo gravoso per il debitore (perché, non di rado, superava l’importo del debito stesso) e fu vietato da Costantino (onde la nullità, se convenuto nonostante il divieto, in un’ottica generale di favor debitoris), diversamente dal secondo patto che fu usato spessissimo, tanto che, alla fine dell’età classica, si ritenne tacitamente stabilito in ogni dazione e convenzione.
Il divieto di patto commissorio, quindi, non ha avuto lo stesso ambito applicativo sempre, ma in passato non solo era ammesso, ma se ne guardava favorevolmente l’utilizzo; anche più di recente, d’altronde, il divieto di patto commissorio, seppur vietato espressamente dal legislatore, è stato legittimato in più di un’occasione, nella misura in cui fosse “travestito” da altro istituto (come nel caso di patto commissorio realizzato con schema risolutivo).
Infatti, le dispute sulla portata applicativa del divieto di patto commissorio sono tutt’ora aperte, in quanto si contrappongono tesi formali a tesi sostanziali, dove le prime assumono una portata applicativa più ristretta perché fondate su un’interpretazione rigorosa della lettera della legge, mentre le seconde (più recenti) assumono un ruolo più aperto perché fanno leva, essenzialmente, sulla ratio e la struttura della figura giuridica in esame.
Le tesi sostanziali, poi, arrivano anche ad estendere il divieto del patto commissorio a tutta la vicenda negoziale, comprendendo i negozi strumentali e collegati, come evidenziato anche dalla giurisprudenza recente (Cass. n. 8411 del 27 maggio 2003) che ha detto “il divieto di patto commissorio, sancito dall’art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio che venga impiegato per consentire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di proprietà di un suo bene come conseguenza della mancata estinzione del debito, e può pertanto configurarsi un patto commissorio ogni qual volta il debitore sia comunque costretto al trasferimento di un suo bene a tacitazione dell’obbligazione”.
Ad ogni modo, è bene precisare che non è nullo l’intero contratto a cui è apposto il pactum commissorio, ma solo quest’ultimo, con la conseguenza applicativa che non potrà spiegare effetto e tale clausola si considererà per non apposta, mentre il restante negozio giuridico non subirà alcuna caducazione; l’inserimento della clausola del patto commissorio, dunque, incide direttamente in modo negativo solo su se stessa, senza pregiudicare la validità del restante accordo negoziale.
Inoltre, tale patto è sempre nullo, anche se dovesse essere approvato secondo le modalità di cui al secondo comma dell’art. 1341 c.c. (nullità assoluta ed insanabile).
Lo stesso divieto di patto commissorio, poi, ha un limite applicativo, nel senso che esistono una serie di casi in cui lo schema negoziale commissorio si realizza e, ciononostante, non vi è nullità in quanto non viene concretamente vulnerata la norma.
In questo senso, si pensi al c.d. patto marciano, che è il contratto con il quale debitore e creditore stabiliscono che, in caso d’inadempimento, il creditore acquisti la proprietà di un bene che il debitore trasferisce in garanzia, con l’obbligo, però, che un terzo stimatore provveda a valutare il bene stesso successivamente alla scadenza del credito: il creditore può divenire proprietario del bene nei limiti del valore del proprio credito, con l’obbligo di restituirne l’eccedenza, evitando, pertanto, un ingiustificato arricchimento, ex art. 2041 c.c.
In questo caso, allora, non vi è il rischio che il creditore si appropri di un bene in misura superiore a quanto dovuto e la causa non è quella della concessione di garanzia, quanto piuttosto quella di una vendita con prezzo da determinarsi, mediante stima effettuata da un terzo al tempo dell’inadempimento.


Del pari lecito sarebbe il pegno irregolare, ex art. 1851 c.c., in quanto, come evidenziato da parte della giurisprudenza (Cass. n. 4507 del 5 marzo 2004) “non dà luogo a patto commissorio la convenzione mediante la quale un istituto di credito, titolare di un pegno irregolare sulle somme depositate presso di esso, si appropri, in caso di inadempimento, della somma corrispondente al credito garantito”.


Dovrebbe, dunque, ritenersi valida anche una datio in solutum spontanea a successiva all’inadempimento, in quanto sembrerebbe venir meno l’automaticità insita nel patto commissorio; id est nel patto commissorio vi è, nella sostanza, una clausola che prevede il passaggio automatico del trasferimento patrimoniale nell’ipotesi di inadempimento che, invece, manca nel caso di spontanea datio in solutum dove vi è una volontà chiara e spontanea di cedere al bene, successiva al momento dell’accordo negoziale: se non vi è automaticità, allora, de plano, non vi sarebbe, in questa angolazione prospettica, patto commissorio.


Da quanto detto, allora, risulta chiaro che è essenziale per parlare di patto commissorio la presenza di una certa automaticità che deve essere giuridica e non umana, nel senso che deve derivare da un vincolo negoziale aggiuntivo (patto) e non dalla singola volontà del debitore; proprio in questo senso, infatti, si trova la contemperazione tra libertà negoziale, ex art. 1322 c.c., e divieto del patto commissorio, ex art. 2744 c.c.
Nel senso della necessaria automaticità ai fini dell’applicabilità dell’art. 2744 c.c., d’altronde, depone non solo il principio della libertà negoziale, ex art. 1322 c.c. e 41 Cost.), per cui se il debitore, spontaneamente e senza nessun tipo di accordo preventivo (patto) decide di cedere il bene al creditore ben potrà farlo, ma anche la lettera della legge che richiede la sussistenza di un patto (anche se ex intervallo), lasciando ipotizzare le legittimità di un atto unilaterale spontaneamente realizzato.
D’altronde, nella direzione interpretativa della necessaria automaticità sembra essersi mossa la giurisprudenza recente (Cass. n. 5635 del 15 marzo 2005), laddove ha ritenuto che “è nulla per violazione del divieto di patto commissorio la convenzione con cui le parti abbiano inteso costituire, con un determinato bene, una garanzia reale in funzione di un mutuo, istituendo un nesso teleologico o strumentale tra la vendita del bene ed il mutuo, in vista del perseguimento di un risultato finale consistente nel trasferimento della proprietà del bene al creditore acquirente in caso di mancato adempimento dell’obbligazione di restituzione da parte del debitore – venditore”.
In termini più chiari, in questo senso, sarebbe possibile cedere il bene ipotecato o pignorato, ovvero un terzo bene senza ipoteca o pegno, solutionis causa per il debito assunto, ex art. 1197 c.c, perché se non vi è l’automaticità (giuridica) rispetto ad un precedente pactum la cessione del bene è libera.
Gli artt. 1963 e 2744 c.c., che sanciscono il divieto del patto commissorio, postulano che il trasferimento della proprietà della cosa che ha formato oggetto di ipoteca, di pegno o di anticresi, sia condizionato sospensivamente “al verificarsi dell’evento futuro ed incerto del mancato pagamento del debito, sicchè, qualora il trasferimento o la promessa di trasferimento vengano, invece, pattuiti puramente e semplicemente allo scopo non già di garantire l’adempimento di un’altra obbligazione con riguardo all’eventualità, non ancora verificatasi, che essa rimanga inadempiuta, ma di soddisfare un precedente credito rimasto insoluto e di liberare, quindi, il debitore dalle conseguenze connesse alla sua pregressa inadempienza, non sono configurabili le condizioni richieste dalle citate norme per l’operatività del divieto da esse previste (Cass. n. 19950 del 6 ottobre 2004.)”.


Uno dei problemi interpretativi che si sono posti nell’ambito dell’applicazione della disciplina giuridica prevista dal legislatore all’art. 2744 c.c. è quella di capire se il patto commissorio realizzato con schema risolutivo rientrasse o meno nella suddetta norma.
Più chiaramente, la lettera della legge, ex art. 2744 c.c., sembra comminare la nullità del patto commissorio, laddove le parti si accordino (contestualmente o successivamente) nel senso che all’inadempimento del debitore segua l’automatico trasferimento del bene pignorato o ipotecato, ma la suddetta norma è applicabile anche quando si attua immediatamente il trasferimento patrimoniale a favore del creditore con l’accordo (pactum) che in caso di inadempimento il debitore riacquisterà automaticamente il bene? L’art. 2744 c.c. sembra vietare lo schema sospensivo, perchè è vietato accordarsi nel senso che all’inadempimento segue il trasferimento del bene, ma nulla viene detto circa la validità o meno dello schema risolutivo, in cui il bene viene immediatamente trasferito e, a seguito di adempimento, viene “restituito” al debitore.
E’ valido, quindi, il patto commissorio realizzato con schema risolutivo?
Secondo una prima interpretazione letterale e rigorosa, il patto commissorio realizzato con schema risolutivo ben potrebbe essere ritenuto valido ed efficace: l’art. 2744 c.c. si riferirebbe ad uno schema sospensivo, con il corollario logico deduttivo che il patto commissorio realizzato con schema risolutivo ben dovrebbe ritenersi ammissibile.
Se il legislatore, d’altronde, avesse voluto estendere l’ambito applicativo dell’art. 2744 c.c., si dice, lo avrebbe fatto espressamente.
In base ad una seconda interpretazione (funzionale), invece, il problema il problema interpretativo posto andrebbe risolto in termini diametralmente opposti.
Infatti, non bisognerebbe tanto interpretare l’art. 2744 c.c. in modo rigoroso e formale, quanto piuttosto interpretare tale articolo in modo funzionale, ovvero tenendo presente la ratio sottesa a tale istituto: se la ratio è quella di evitare ingiustificati arricchimenti e/o tutelare la par condicio creditorum, allora, in tale prospettiva andrebbe interpretato l’istituto del divieto del patto commissorio.
La soluzione deve necessariamente ricercarsi nella ratio del divieto del patto commissorio.
La ratio sottesa all’istituto del divieto di patto commissorio è tutt’altro che pacifica e da essa dipendono una serie di corollari applicativi circa la validità o meno di figure giuridiche.
Secondo una prima opzione ermeneutica la ratio andrebbe ravvisata nell’esigenza di tutelare il debitore di fronte alla coartazione del creditore: il debitore non dovrebbe subire alcun tipo di coartazione, per cui in caso di inadempimento non dovrebbe vedersi spogliato del proprio bene, anche perché vi sarebbe la possibilità non remota che il creditore abbia un significativo arricchimento ingiustificato, ex art. 2041 c.c., perché ben potrebbe divenire proprietario di un bene di valore superiore a quello del relativo debito.
Laddove si condividesse tale opzione ermeneutica, ne seguirebbe, de plano, la validità di quei patti commissori in cui vi è una certa proporzione tra valore del bene ipotecato o pignorato e valore del credito, in un’ottica di interpretazione estensiva dell’art. 1322 c.c. e 41 Cost..
Tale impostazione, tuttavia, non è esente da rilievi critici, in quanto viene detto che, a rigore, la sanzione della nullità viene generalmente scelta dal legislatore a tutela di interessi generali e non individuali, come quelli dei contraenti; il legislatore commina la nullità per tutelare interessi generali, per cui non potrebbe emergere una nullità a tutela di singoli soggetti come vorrebbe la tesi appena esposta.
Così, anche a fronte di questa critica, altra parte della dottrina, optando per una seconda opzione interpretativa, individua la ratio nella necessità di tutelare la par condicio creditorum: il divieto di patto commissorio sarebbe stato voluto dal legislatore per tutelare l’uguaglianza dei creditori di fronte al debitore inadempiente, poiché, in sua assenza, il creditore che abbia ottenuto il pegno o ipoteca poteva avvantaggiarsi di tutto il patrimonio del debitore, a danno degli altri creditori.
L’art. 2744 c.c., dunque, non andrebbe interpretato nel senso che è volto a tutelare la posizione del debitore per evitare una plusvalenza creditoria, ma andrebbe decodificato nel senso che è volto a tutelare la par condicio creditorum, con la conseguenza che non sarebbero ammissibili patti commissori proporzionati al debito o addirittura vantaggiosi per il debitore, in quanto astrattamente idonei a ledere gli altri creditori. Se, tuttavia, la ratio fosse quella evidenziata sembrerebbe sproporzionata la scelta della nullità rispetto, in quanto ben sarebbe potuta bastare l’inefficacia relativa oppure l’istituto dell’azione revocatoria.
Parte della giurisprudenza, facendo proprio, invero, sia l’orientamento testè esposto che quello precedente, arriva anche a comminare la nullità di un patto commissorio relativo ad un negozio giuridico collegato; in particolare è stato detto (Cass. n. 9466 del 19 maggio 2004) che bisognerebbe abbandonare “il criterio formalistico e dell’interpretazione strettamente letterale dell’art. 2744 c.c., introducendo il criterio ermeneutico funzionale e finalizzato ad una più efficace tutela del debitore e ad assicurare la par condicio creditorum, contrastando l’attuazione di strumenti di garanzia diversi da quelli legali.
Così che il divieto del patto commissorio, con la conseguente sanzione di nullità radicale, é stato ritenuto operante rispetto a qualsiasi negozio, tipico o atipico, quale che ne sia il contenuto, allorchè esso venga impiegato per conseguire il fine concreto, riprovato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore costringendolo al trasferimento di un bene a scopo di garanzia nell’ipotesi di mancato adempimento di un’obbligazione assunta”.
Secondo altra parte della dottrina, invece, sarebbe necessario riferirsi ad una terza opzione ermeneutica: il divieto di patto commissorio rientrerebbe in un principio generale dell’ordinamento, secondo il quale la realizzazione coattiva dei crediti e la procedura giudiziale esecutiva spetterebbero esclusivamente allo Stato; in contrario, tuttavia, si osserva che è lo stesso ordinamento che prevede sistemi di autotutela, come nel caso di cessione dei beni ai creditori o nell’ipotesi di pegno irregolare: se il legislatore prevede sistemi di autotutela, allora, non è possibile che lo stesso legislatore guardi con sfavore l’autotutela, vietandola in altra parte del codice civile, perché avrebbe optato per una scelta contraddittoria in contrasto con l’esigenza, costituzionalmente avvertita, di uniformità e non contraddittorietà del sistema giuridico nel suo complesso.
In questo senso, allora, parte della dottrina ha optato per una quarta opzione ermeneutica (si potrebbe dire eclettica): la ratio sarebbe quella di tutelare un interesse generale, non necessariamente coincidente con quello individuale, al fine di evitare inconvenienti pratici e possibilità di abusi.
Accogliendo tale ricostruzione, pertanto, i patti commissori in cui vi è proporzione tra valore del bene e debito potrebbero essere validi, nella misura in cui non creino anche problemi agli altri creditori (par condicio crediotrum); si tratterebbe, cioè, di verificare in concreto e caso per caso l’idoneità del patto commissorio a porsi come fonte di abusi, perché laddove tale idoneità non sussista, al di là dello schema negoziale adoperato, il patto commissorio potrebbe, nella sostanza, essere valido, perché non individuerebbe un vulnus alla ratio dell’art. 2744 c.c.
La giurisprudenza più recente (Cass. n. 7296 del 29 marzo 2006) sembra aver accolto quest’ultimo orientamento. D’altronde, l’evoluzione giuridica in tema di patto commissorio si è mossa di pari passo con gli studi sulla causa del contratto, arrivando ad una visione comune, in base alla quale la validità o meno di un negozio giuridico andrebbe vista in concreto e caso per caso, senza alcuna valutazione pregiudiziale e formale: se il patto commissorio va visto in concreto, a fortiori, la causa negoziale voluta dalle parti andrà vista in concreto.
In particolare, a proposito della tesi della causa in concreto è stato, di recente, precisato (Cass. n. 10490 del 8 maggio 2006) che quest’ultima andrebbe “iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale”.
Si tratta, quindi, di notare che non solo l’art. 2744 c.c. andrebbe interpretato in senso funzionale, ma altresì bisognerebbe tener conto dell’art. 1344 c.c., ovvero della frode alla legge, collegandola, inevitabilmente, con il problema della causa illecita in concreto.
Applicando tale ricostruzione, allora, bisognerà verificare caso per caso se lo schema negoziale, ovvero, in particolare, la causa (in concreto) siano idonei a vulnerare l’art. 2744 c.c., perché anche negozi astrattamente leciti possono, se visti in concreto, essere illeciti.


Orbene, ritornando al quesito iniziale volto a stabilire se vi sia compatibilità o meno della datio in solutum risolutivamente condizionata all’adempimento e della datio in solutum sospensivamente condizionata all’inadempimento, ben può affermarsi che tali forme di contratto alla luce dei precedenti orientamenti giurisprudenziali e dottrinari dovrebbero certamente ritenersi illecite ed in aperta violazione dell’art. 2744 c.c..
Invero, però, se si esaminano le recentissime sentenze della Corte Suprema sopra citate, deve concludersi nel senso di affermare che, anche per la datio in solutum risolutivamente condizionata all’adempimento e la datio in solutum condizionata sospensivamente all’inadempimento vale il principio secondo il quale la validità o meno di un negozio giuridico andrebbe vista in concreto e caso per caso, senza alcuna valutazione pregiudiziale e formale: se il patto commissorio va visto in concreto, a fortiori, la causa negoziale voluta dalle parti andrà vista in concreto.


Avv. Stefania PETRUZZELLI