LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI


Sentenza n. 19601


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:



  • Dott. LUPO Ernesto – Presidente

  • Dott. LATTANZI Giovanni – Consigliere

  • Dott. GRASSI Aldo – Consigliere

  • Dott. CHIEFFI Severo – Consigliere

  • Dott. DE ROBERTO Giovanni – Consigliere

  • Dott. ROTELLA Mario – Consigliere

  • Dott. ROMIS Vincenzo – Consigliere

  • Dott. CONTI Giovanni – Consigliere

  • Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:


sentenza


sul ricorso proposto da:
N.L., n. a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 15 marzo 2007 della Corte di appello di Firenze;


Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Giovanni Conti;
Udito il Pubblico ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. Palombarini Giovanni, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.


FATTO




  1. Con decreto in data 23 ottobre 2003 il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Firenze disponeva il giudizio dinnanzi al Tribunale di Firenze nei confronti di N.L. in relazione a due imputazioni di bancarotta:
    a) R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 217, comma 1, n. 4, perchè nella qualità di legale rappresentante della s.r.l. Giolli Pelle si asteneva dal chiederne il fallimento, aggravando il dissesto della impresa, dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Firenze in data (OMISSIS);
    b) art. 110 c.p., R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, comma 1, nn. 1 e 2, e art. 223, per avere tenuto i libri e le scritture contabili prescritte dalla legge in modo tale da non permettere al curatore la idonea ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società di cui al capo precedente, e rendendosi successivamente irreperibile;
    con l’aggravante di cui all’art. 219, commi 1 e 2, predetto R.D. in (OMISSIS) alla data del fallimento.


  2. Con sentenza in data 27 marzo 2006 il Tribunale di Firenze dichiarava il N. colpevole del reato di cui all’art. 217, comma 2, L. Fall., così modificata l’imputazione sub b), e, riconosciute le attenuanti generiche, lo condannava, con entrambi i benefici di legge, alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, dichiarandolo inabilitato all’esercizio di un’impresa commerciale e incapace di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per un tempo corrispondente alla pena inflitta; assolveva inoltre l’imputato dal reato ascrittogli sub a) per insussistenza del fatto.
    Il Tribunale rilevava che le scritture contabili erano state tenute regolarmente fino al 1997, con bilanci tempestivamente depositati, e che da allora l’attività era praticamente cessata. Peraltro, considerati i debiti modesti – tanto che il fallimento era stato richiesto per un credito pari a L. 4.500.000 – non si erano verificate circostanze tali da imporre una richiesta di fallimento in proprio, e comunque, se ciò fosse anche avvenuto, non ne sarebbe derivata una diminuzione del passivo, accertato in L. 50 milioni.
    Residuava dunque solo la responsabilità penale dell’imputato per l’omessa tenuta delle scritture contabili nell’ultimo periodo di formale esistenza dell’azienda.


  3. Nell’atto di appello proposto dal difensore dell’imputato, si denunciava, con un primo motivo, il vizio di motivazione in punto di affermazione della responsabilità penale, dato che era stato riconosciuto che le scritture contabili erano state regolarmente tenute sino a quando la società amministrata dal N. aveva di fatto operato; con un secondo, il vizio di motivazione circa il trattamento sanzionatorio, non ragguagliato al minimo edittale; con un terzo, la mancata sostituzione della pena detentiva in quella pecuniaria, in luogo della sospensione condizionale della pena.


  4. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza impugnata, riduceva la pena inflitta al N. a mesi due e giorni venti di reclusione, convertendola nella corrispondente pena pecuniaria e dichiarandola interamente condonata, previa esclusione della sospensione condizionale;
    confermando nel resto la sentenza del Tribunale.
    La Corte territoriale osservava tra l’altro che non era accoglibile la tesi difensiva, prospettata nel corso del dibattimento di appello, secondo cui, in forza delle disposizioni attualmente vigenti, la società del N. non avrebbe potuto essere sottoposta a fallimento, con la conseguenza che i fatti in contestazione, in tesi, non costituivano più reato; e ciò in quanto, ad avviso della Corte di appello, a norma del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 150, la posizione di detta società e la procedura di fallimento della stessa erano regolate dalla legge anteriore alle ultime modifiche apportate alla legge fallimentare.


  5. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del N., avv. Michele Ducei, che con un unico motivo denuncia la violazione dell’art. 2 c.p., comma 3, (recte, 4).
    Secondo il ricorrente, pur essendo pacifico che, in forza “dell’art. 242, L. Fall.” permangono gli effetti delle sentenze dichiarative di fallimento pronunciate prima della entrata in vigore del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, tale previsione non può estendersi al processo penale, pena la violazione dell’art. 2 c.p..
    Infatti, a seguire l’argomentare della Corte di appello, casi identici troverebbero soluzioni totalmente diverse, in contrasto con il principio della successione nel tempo della legge penale più favorevole.
    Si osserva ancora nel ricorso che, come risulta dalla relazione ex art. 33, L. Fall., dalla stessa sentenza dichiarativa di fallimento e dall’esame testimoniale del curatore, attualmente non ricorrerebbero più, alla luce dell’art. 1, L. Fall., come modificato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, i presupposti per dichiarare il fallimento della società di cui il N. era legale rappresentante, dovendosi alla stregua della nuova normativa ritenere l’imputato un piccolo imprenditore, come tale non assoggettabile alle disposizioni sul fallimento.
    Era stato infatti accertato che nell’esercizio dell’attività commerciale della società dichiarata fallita non erano stati effettuati investimenti per un capitale superiore a 300.000 Euro, nè l’azienda aveva realizzato ricavi lordi, calcolati sulla media degli ultimi tre anni, per un ammontare complessivo annuo superiore a 200.000 Euro.
    Ad avviso del ricorrente, poichè l’art. 1, L. Fall., integrativo delle norme penali contenute negli artt. 216 e 217, L. Fall., era stato modificato in senso più favorevole all’imputato, non rendendo più soggetta a fallimento la società nella quale egli aveva agito, in applicazione del disposto dell’art. 2 c.p., comma 3 (recte, 4), si sarebbe dovuto pronunciare sentenza di assoluzione, perchè il fatto come contestato al N. non è oggi più previsto dalla legge come reato.


  6. La Quinta sezione della Corte di cassazione, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza resa alla udienza del 13 novembre 2007, ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, a norma dell’art. 618 c.p.p..
    Nell’ordinanza si osserva che il motivo di ricorso pone all’attenzione della Corte di cassazione la questione se, in relazione ai reati di bancarotta, in seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che ha modificato la nozione di piccolo imprenditore non assoggettabile a procedura fallimentare, debba trovare applicazione il disposto di cui all’art. 2, comma 4, “con la conseguenza di escludere la sussistenza del reato in ipotesi di condotta realizzata nella vigenza della precedente normativa fallimentare da persona la quale, in forza del novum legislativo, attualmente non sarebbe sottoposto a fallimento, e questo pur in presenza del portato della norma transitoria di cui al citato D.Lgs., che fa salvi gli effetti delle procedure concorsuali pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge di riforma”.
    L’ordinanza di rimessione segnala al riguardo il contrasto di giurisprudenza insorto in seno alla stessa Quinta sezione a seguito della sentenza 20 marzo 2007, ric. Celotti, e della successiva sentenza 18 ottobre 2007, ric. Rizzo; evidenziando, quanto alla prima, che in essa si richiama la disciplina transitoria di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006, citato art. 150, che regola secondo la legge anteriore le procedure fallimentari pendenti alla data di entrata in vigore del predetto decreto, e quindi anche la individuazione dell’imprenditore assoggettabile a fallimento, per farne derivare la conseguenza della irrilevanza del nuovo regime ai fini dell’applicabilità delle norme in materia di successione di leggi penali; e, quanto alla seconda, che, nella stessa, in senso contrario, si afferma che il novum legislativo integra il precetto penale, giacchè la dichiarazione di fallimento, e quindi la “fallibilità” dell’imprenditore, è elemento costitutivo dei reati di bancarotta, con la conseguente applicabilità dell’art. 2 c.p. in un caso in cui, come nella specie, secondo la nuova disciplina il titolare della impresa dichiarata fallita debba considerarsi piccolo imprenditore e quindi, come tale, non assoggettabile a fallimento.

DIRITTO




  1. La questione rimessa alle Sezioni Unite.
    1.1.
    La questione rimessa alle Sezioni unite è la seguente: “se i fatti di bancarotta commessi dal “piccolo imprenditore” prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006, che ha modificato la nozione di imprenditore assoggettabile a fallimento, integrino, o non, la relativa fattispecie di reato, alla luce della disciplina transitoria dettata dall’art. 150, medesimo D.Lgs.”.
    1.2. L’ordinanza di rimessione ha preso in considerazione la novella recata dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (in G.u. 16 gennaio 2006, n. 12, suppl. ord., recante “Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, ai sensi della L. 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 5”), emanato sulla base della Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, ed entrato in vigore, fatta eccezione per alcune disposizioni, alla scadenza del sesto mese dalla sua pubblicazione, che ha integralmente sostituito, tra l’altro, il R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, e il cui art. 150 contiene una disciplina transitoria.
    In particolare, per quel che qui interessa, l’art. 1, comma 6, lett. a), n. 1, citata legge-delega, ha, con riguardo alla “disciplina del fallimento”, stabilito (tra l’altro) il principio direttivo, di contenuto indubitabilmente molto ampio, così formulato:
    “semplificare la disciplina attraverso l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto” (ove l'”istituto” sembrerebbe avere come termine di riferimento la “disciplina del fallimento”).
    1.3. Tuttavia, successivamente a detto D.Lgs., è stato emanato (sulla base della stessa legge-delega, come modificata, con l’inserimento nell’art. 1, del comma 5 bis, ad opera della L. 12 luglio 2006, n. 228, art. 1, comma 3) il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (in G.u. 16 ottobre 2007, n. 241, recante “Disposizioni integrative e correttive al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, nonchè al D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi della L. 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, commi 5, 5 bis e 6”), entrato in vigore il 1 gennaio 2008, che ha, tra l’altro, all’art. 1, nuovamente sostituito l’art. 1, L. Fall., in tema di imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo, in particolare prescindendo dalla nozione di “piccolo imprenditore”, e, all’art. 22, introdotto una nuova disciplina transitoria.
    1.4. Ora, considerato che i presupposti per l’applicabilità dell’art. 2 c.p., in tema di successioni di leggi penali, devono essere apprezzati d’ufficio anche nell’ambito del giudizio di cassazione (v. art. 609 c.p.p.), a prescindere dallo stato della legislazione in vigore al momento della proposizione del ricorso e dal contenuto dei motivi di impugnazione, il quesito sottoposto all’esame delle Sezioni unite, tenuto conto anche del successivo decreto “correttivo”, deve essere riformulato nei seguenti termini:
    “se i fatti di bancarotta commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e del successivo D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che hanno modificato i requisiti perchè l’imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuano a essere previsti come reato, anche se in base alla nuova normativa l’imprenditore non potrebbe più essere dichiarato fallito”.


  2. Il decorso dei termini di prescrizione del reato.
    2.1.
    Dalla data di consumazione del reato, che va individuata nella sentenza dichiarativa di fallimento, in data 19 gennaio 2000, è decorso, al 19 luglio 2007, il termine previsto dalla legge, in relazione ai livelli di pena edittali stabiliti dall’art. 217, L. Fall., per la prescrizione del reato, che è quello di sette anni e sei mesi, in base sia alla previgente sia all’attuale formulazione degli artt. 157, 160 e 161 c.p. (novellati dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251).
    Nella specie è comunque la nuova normativa a rendersi applicabile, in quanto alla data di entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 (8 dicembre 2005) non era stata ancora pronunciata la sentenza di condanna di primo grado (27 marzo 2006); e ciò in relazione a quanto derivante dalla dichiarazione di incostituzionalità parziale dell’art. 10, comma 3, legge citata (Corte Cost., sent. n. 393 del 2006).
    Alla udienza dibattimentale di primo grado del 14 marzo 2005 era stato accertato un impedimento dell’imputato, derivante da infermità fisica, tanto che il dibattimento venne rinviato all’udienza del 10 ottobre 2005, con dilazione pari dunque a 209 giorni. In base alla nuova formulazione dell’art. 159 c.p., al termine di sette anni e sei mesi vanno aggiunti non più di 65 giorni (5 giorni di impedimento più 60 giorni di sospensione massima), con la conseguenza che il termine di prescrizione viene a cadere alla fine del giorno 22 settembre 2007 (19 luglio 2007 più 65 giorni), quindi antecedentemente ad oggi.
    Ove anche si ritenesse che ai soli fini della durata della sospensione debba tenersi conto della disciplina vigente al momento in cui si è verificato l’impedimento dell’imputato, il reato sarebbe comunque prescritto, perchè, aggiungendo il periodo di sospensione pari a 209 giorni al termine di legge, risulterebbe che il termine di prescrizione sarebbe maturato allo spirare del giorno 13 febbraio 2008 (19 luglio 2007 più 209 giorni), quindi sempre antecedentemente ad oggi.
    2.2. Tuttavia, non rinvenendosi cause di inammissibilità del ricorso, rispetto al tema della prescrizione è pregiudiziale, a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, quello, proposto con l’unico motivo, relativo all’applicabilità dell’art. 2 c.p., da inquadrare giuridicamente nella disciplina specificamente recata dal comma secondo di tale articolo, malgrado l’improprio richiamo fatto dal ricorrente al comma “3” (recte, 4), predetto art.; motivo che, se accolto, comporterebbe la declaratoria di assoluzione dell’imputato perchè il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato.


  3. Gli effetti delle modifiche dell’art. 1 della legge fallimentare, secondo la tesi del ricorrente.
    3.1.
    La Corte di appello mostra di riconoscere che, in base al dettato del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, come modificato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, un’impresa avente caratteristiche quali quelle accertate nel caso di specie non potrebbe essere più assoggettata a fallimento. Assume però che la nuova disciplina non si estende alle dichiarazioni di fallimento pronunciate nel vigore del precedente regime, in quanto in forza della disposizione transitoria di cui all’art. 150 del citato decreto, “la posizione di detta società e la procedura di fallimento della stessa sono regolate dalla legge anteriore”.
    3.2. Replica il ricorrente, richiamando anche l’art. 242, L. Fall., essere pacifico che permangano gli effetti delle sentenze dichiarative di fallimento pronunciate prima della entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006; essendo però altra cosa, ai fini penali, l’effetto derivante, ex art. 2 c.p., dalla “successione nel tempo della legge penale più favorevole”, che nella specie deriverebbe dal nuovo dettato dell’art. 1, L. Fall., da considerare “norma integrativa” delle fattispecie penali di cui agli artt. 216 (“Bancarotta fraudolenta”) e 217 (“Bancarotta semplice”), L. Fall.;
    in forza del quale l’impresa di cui era titolare l’imputato, stante l’ammontare degli investimenti e dei ricavi nel periodo di riferimento, non sarebbe ora più soggetta a fallimento.
    A sostegno del suo assunto, il ricorrente invoca il precetto secondo cui, in caso di successione di leggi penali, deve farsi applicazione di quella contenente le disposizioni più favorevoli all’imputato, richiamando l’art. 2 c.p., comma 3 da intendersi come fatto al comma quarto di detto articolo, a seguito dell’inserimento di un comma nell’art. 2 ad opera della L. 24 febbraio 2006, n. 85.
    3.3. In realtà, come anticipato, gli argomenti addotti nel ricorso non attengono alla ipotesi in cui la successione di leggi produca effetti solo modificativi delle fattispecie incriminatrici, onde debba essere stabilito, nella comparazione tra la vecchia e la nuova, quale sia la legge più favorevole da applicare. Essi evocano piuttosto il diverso precetto della non ultrattività della legge penale, di cui all’art. 2 c.p., comma 2, dato che, secondo la tesi sostenuta, i presupposti in base ai quali un imprenditore può essere dichiarato fallito, indicati dal nuovo art. 1, L. Fall., da considerare norma integratrice delle fattispecie di bancarotta, non sarebbero rinvenibili nella impresa dell’imputato, in relazione agli accertati dati economici della sua gestione; con la conseguenza che “il fatto” ascritto al medesimo non “costituirebbe più reato” e che chi lo ha commesso non sarebbe dunque punibile.


  4. Il contrasto di giurisprudenza.
    Come si è sopra dato atto, sulla questione rimessa all’esame delle Sezioni unite si registra un contrasto di giurisprudenza, tutto interno alla Quinta sezione penale.
    La sentenza 20 marzo 2007, Celotti – che pure afferma rientrare nell’ambito di cognizione del giudice penale, in presenza di una sentenza dichiarativa di fallimento, l’accertamento della qualità di imprenditore assoggettabile a fallimento, ex art. 1, L. Fall., quale “indefettibile requisito” del reato di bancarotta propria, e che assegna alla disciplina sul fallimento una funzione in varie parti integratrice della fattispecie penale – è dell’avviso che, in forza della norma transitoria di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 150, “gli eventi processuali (concorsuali e penali) avviati prima della data di entrata in vigore del decreto ” sono regolati dalle norme previgenti “anche per quanto attiene alla identificazione del soggetto assoggettabile a fallimento ed alla nozione di “piccolo imprenditore”, ancorata a indici monetari di per sè indicativi di una cesura temporale con eventi passati.
    Per contro, la sentenza 18 ottobre 2007, Rizzo – ribadito che la sentenza dichiarativa di fallimento non fa stato nel procedimento per bancarotta, essendo preciso compito del giudice penale accertare se sussistevano i requisiti soggettivi di fallibilità – osserva che se per volontà del legislatore tali requisiti vengono a mutare, è sulla base della nuova disciplina che va parametrato l’accertamento degli elementi costitutivi del reato. Non sarebbe poi corretto desumere la perdurante applicabilità della precedente disciplina sui requisiti di fallibilità dell’imprenditore dalla norma transitoria di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 150, perchè questa ha riguardo alla procedura fallimentare, ma non esplica incidenza sul fondamentale canone della “retroattività della legge più favorevole” di cui all’art. 2 c.p. che, pur non essendo costituzionalizzato, deve in sede penale trovare applicazione in mancanza di una esplicita volontà in senso contrario del legislatore.
    In termini simili a quest’ultima pronuncia si è poi espressa la sentenza, sempre della Quinta sezione, 30 ottobre 2007, Cremona.


  5. La sindacabilità della sentenza dichiarativa di fallimento ai fini della punibilità per fatti di bancarotta, secondo la giurisprudenza.
    5.1.
    Prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice di rito, era consolidata, nella giurisprudenza di legittimità, la tesi, basata sugli artt. 19 e 21 c.p.p. 1930, secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento, divenuta irrevocabile, non era sindacabile dal giudice penale.
    Si affermava dunque che “la sentenza dichiarativa di fallimento, la cui pronuncia è di competenza esclusiva del tribunale fallimentare, fa stato, in sede penale, se passata in giudicato, sull’esistenza degli estremi per l’apertura del procedimento” (così, fra molte, Sez. 5^, 12 aprile 1967, Moretti).
    Con particolare riferimento al presupposto soggettivo della pronuncia dichiarativa di fallimento del giudice civile l’orientamento era ribadito in relazione alle questioni poste, in sede penale, dal fallito che assumeva di rivestire la qualità di “piccolo imprenditore”, osservandosi che “la qualità di imprenditore commerciale, riconosciuta con la sentenza civile dichiarativa di fallimento divenuta irrevocabile, non può essere rimessa in discussione nel giudizio penale per reati fallimentari, e che il giudice penale non può, pertanto, in contrasto con quanto accertato definitivamente in sede civile, qualificare l’imputato piccolo imprenditore” (così, ex plurimis, Sez. 5^, 11 ottobre 1977, Michelani).
    Da ciò due corollari.
    Da un lato, atteso che per il principio di unità della giurisdizione la sentenza dichiarativa di fallimento faceva stato nel processo penale per bancarotta, in tale processo avevano valore le sentenze passate in giudicato; sicchè un’opposizione del fallito alla sentenza dichiarativa di fallimento, ove avesse avuto il carattere della serietà, avrebbe determinato necessariamente la sospensione dell’esercizio dell’azione penale ai sensi dell’art. 19 c.p.p. 1930 (v. in tal senso Sez. un., 29 novembre 1958, Amantini).
    Per altro verso, atteso che la questione relativa alla qualità di fallito rivestiva natura pregiudiziale di stato personale, la sentenza di revoca di quella dichiarativa di fallimento poteva costituire motivo per attivare la procedura di revisione (Sez. 5^, 15 dicembre 1980, Ruggiero).
    5.2. Anche la Corte costituzionale aveva affermato, avallando questa linea interpretativa, che “la dichiarazione di fallimento ha natura pregiudiziale rispetto al processo penale concernente reati fallimentari; sicchè sorgendo controversia sullo stato di imprenditore fallito, il giudice penale non può conoscere di essa, ma deve limitarsi, previa verifica delle condizioni di legge, a sospendere il procedimento pendente davanti a lui, sino al passaggio in giudicato della relativa pronunzia” (sent. n. 141 del 1970; cui adde ord. n. 59 del 1971).
    E si era avuto cura di puntualizzare che l’imprenditore aveva a propria disposizione i mezzi e i modi più adeguati per dimostrare, sia nella fase anteriore alla dichiarazione di fallimento sia in quella conseguente all’opposizione avverso la relativa sentenza e sino all’eventuale passaggio in giudicato di essa, l’inesistenza o la non sufficienza delle condizioni oggettive e soggettive necessarie e sufficienti per la dichiarazione di fallimento (sent. n. 110 del 1972).
    Nella stessa linea, la giurisprudenza costituzionale si era espressa con le sentenze n. 190 del 1972, n. 275 del 1974 e con l’ordinanza n. 636 del 1987.
    5.3. Con l’avvento del nuovo codice di rito, pur considerando la ridefinizione della portata della cognizione del giudice penale e della disciplina delle questioni pregiudiziali (artt. 2 e 3 c.p.p.), l’orientamento precedente era stato ribadito da alcune decisioni della Suprema Corte, osservandosi in esse che la nuova disciplina processual-penalistica in materia di questioni pregiudiziali non incideva sulla validità della consolidata qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo dei reati di bancarotta: da questa premessa discendeva la perdurante validità del “principio per cui la dichiarazione di fallimento, una volta che abbia acquisito il carattere della irrevocabilità, viene a costituire un dato definitivo e vincolante sul quale non possono più sorgere questioni che non siano collegate alla produzione formale della prova della sua giuridica esistenza” (così Sez. 5^, maggio 1993, Berzanti). Nella stessa linea, Sez. 5^, 24 febbraio 1998, Bertoni; Sez. 5^, 29 marzo 2001, Barni.
    5.4. A questo tradizionale orientamento si è venuto a contrapporre nella giurisprudenza di legittimità l’indirizzo che disconosce alla sentenza dichiarativa di fallimento efficacia vincolante in sede penale.
    Ad esempio, Sez. 5^, 29 aprile 1998, Marcimino, ha affermato che “la sentenza dichiarativa di fallimento, pur se irrevocabile, non ha efficacia di giudicato nel processo penale, in virtù della disciplina delle questioni pregiudiziali dettata dagli artt. 2 e 3 c.p.p.”.
    Nella stessa prospettiva, Sez. 5^, 26 settembre 2002, Veruschi, ha ritenuto che poichè con l’avvento del nuovo codice di rito la sentenza dichiarativa di fallimento non fa più stato nel processo penale, essa è “di per sè insufficiente ad integrare la prova della qualità di imprenditore … se tale qualità è controversa ai fini dell’art. 2221 c.c. e art. 1, comma 1, L. Fall. per emergenze che inducano ad attribuire all’imputato lo svolgimento dell’attività di piccolo imprenditore prevista dall’art. 2083 c.c.”. In senso conforme: Sez. 5^, 21 marzo 2003, Severino e Sez. 5^, 30 luglio 2003, Tissi.
    L’indirizzo in esame, come si ricava dalle sentenze da ultimo citate, si è in effetti affermato con particolare riferimento ai profili attinenti lo status dell’imprenditore fallito ovvero, più specificamente, alla qualità di “imprenditore” del fallito (v. ad es. Sez. 5^, 9 aprile 1999, Leo).
    Su questa linea, Sez. 5^, 15 marzo 2007, Decorosi, ha osservato che per effetto della disciplina delle questioni pregiudiziali introdotta dagli artt. 2 e 3 c.p.p., la sentenza dichiarativa di fallimento, pur se irrevocabile, non ha efficacia di giudicato nel processo penale, sicchè, per un verso, gli accertamenti risultanti dalla sentenza stessa devono essere valutati nel processo penale alla stregua di ogni altro materiale utile sul piano probatorio e, per altro verso, la valutazione del giudice di merito in ordine alla ricorrenza dei requisiti per ottenere o escludere la qualifica di piccolo imprenditore di cui all’art. 2083 c.c. si risolve in un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità se motivato.
    Più puntualmente, Sez. 5^, 1 dicembre 1990, Milazzo, ha distinto tra lo status di “fallito”, non sindacabile dal giudice penale e quello di “imprenditore”, invece sindacabile; distinzione peraltro criticata da Sez. 5^, 16 febbraio 1995, Bertoldo, che ha affermato perentoriamente “che sulla base della nuova disciplina introdotta dagli artt. 2 e 3 c.p.p. la sentenza dichiarativa di fallimento, anche se divenuta irrevocabile, non ha efficacia di giudicato nel processo penale”, sicchè il sindacato del giudice penale si eserciterebbe non solo in relazione allo status dell’imprenditore fallito, ma anche su tutti i presupposti di fatto e di diritto che l’acquisizione di quello status comporta e che hanno formato oggetto della valutazione e della decisione del giudice civile.


  6. La dichiarazione di fallimento nella struttura dei reati di bancarotta.
    6.1.
    Se fosse vero che la definizione normativa dei presupposti per la dichiarazione di fallimento di un’impresa costituisce una norma extrapenale integratrice della fattispecie penale, dovrebbe essere verificato se, in virtù di abolitio criminis (parziale), il fatto ascritto all’imputato non sia più previsto dalla legge come reato.
    Infatti, alla stregua dei nuovi parametri normativi di cui all’art. 1 L. Fall., sia ex D.Lgs. n. 5 del 2006 sia ex D.Lgs. n. 169 del 2007, l’impresa dell’imputato, come implicitamente riconosciuto dalla Corte di appello, non sarebbe più soggetta a fallimento.
    6.2. Per stabilire se nella vicenda in esame si verta in tema di abolitio criminis, rilevante ex art. 2 c.p., comma 2, occorre verificare se la norma extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non essendo di per sè rilevante una mutata situazione di fatto che da quella norma derivi (v. in questo senso la recente sentenza Sez. un., 27 settembre 2007, Magera, che richiama in particolare sul punto Sez. un., 26 marzo 2003, Giordano).
    6.3. Ora, nella struttura delle fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e ss., L. Fall., il presupposto formale perchè possano essere prese in considerazione, ai fini della responsabilità penale, le condotte specificamente contemplate dalle norme non richiama le condizioni di fatto richieste per il fallimento (o l’ammissione alle altre procedure concorsuali) di un’impresa, consistendo invece nella esistenza di una sentenza dichiarativa di fallimento.
    6.4. In altri termini, come osservato da autorevole Dottrina, che le Sezioni Unite condividono, nella struttura dei reati di bancarotta “la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale”, e non per i fatti con essa accertati.
    Sicchè, in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale, la sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile in sede penale; nè la disciplina delle questioni pregiudiziali prevista dal codice di rito agli artt. 2 e 3 “vale a spostare le premesse di diritto sostanziale”, perchè i presupposti di fatto accertati nella sentenza richiamata dalla fattispecie penale non sono una “questione pregiudiziale” della quale possa ritenersi investito il giudice penale, dato che essi sono stati appunto accertati da detta sentenza, “la quale vincola il giudice penale (purchè esistente e non revocata) come elemento della fattispecie criminosa, e non quale decisione di una questione pregiudiziale” implicata dalla fattispecie.
    6.5. In generale, va rilevato che l’atto giuridico richiamato in una fattispecie penale conta per gli effetti giuridici che esso produce e non per i fatti con esso definiti, sicchè, se muta, per jus superveniens, la definizione legale dei presupposti (che possono a loro volta consistere in dati di fatto o anche in atti giuridici) perchè un certo atto giuridico possa essere legittimamente adottato, non può dirsi che le norme sopravvenute, che quei presupposti mutino, incidano sulla struttura del reato.
    E’ il caso poi di precisare che quando un atto giuridico è assunto quale dato della fattispecie penale (non importa se come elemento costitutivo del reato o come condizione di punibilità), esso è sindacabile dal giudice penale nei soli limiti e con gli specifici mezzi previsti dalla legge.
    Così, se l’atto giuridico è un provvedimento legislativo, richiamato, come spesso accade, in una fattispecie penale, non potendo il giudice disapplicare la legge (art. 101 Cost., comma 2), esso può essere sindacato solo in quanto se ne ravvisi un possibile contrasto con parametri costituzionali, abilitandosi in tal caso il giudice (salva la percorribilità di una interpretazione costituzionalmente orientata) a sollevare incidente di costituzionalità (L. Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art. 1; L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23).
    Se si tratta di un provvedimento amministrativo, esso può essere incidentalmente sindacato dal giudice penale, in quanto illegittimo, come quando è la sua inosservanza a costituire reato, come si è più volte affermato in giurisprudenza ad esempio con riferimento alla fattispecie dell’art. 650 c.p., in tema di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico o d’igiene, o a quella del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5-ter, in tema di inosservanza dell’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato, esclusa ogni rivalutazione dei presupposti di fatto assunti a base del provvedimento (v., in tal senso, proprio a proposito dell’art. 650 c.p., Cass., Sez. 1^, 24 giugno 1992, Beltrami; Id., 1 giugno 1990, Beltramo; Cass., sez. 3^, 2 febbraio 1967, Capra; nonchè, a proposito del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5-ter, fra le tante, Cass., sez. 1^, 28 marzo 2006, Hado), i quali, beninteso, devono essere correttamente individuati nel provvedimento amministrativo (v. Cass., sez. 1^, 22 giugno 2004, Conti).
    Se elemento della fattispecie è un atto negoziale privato (come nella ipotesi dell’art. 641 c.p.), il giudice penale può escludere l’illiceità del fatto solo in presenza di un negozio nullo, ad esempio perchè avente causa illecita, dato che in tal caso la relativa obbligazione non è idonea, in assoluto, a produrre effetti giuridici, e quindi nemmeno una condotta incriminabile, non bastando che esso sia solo annullabile, dovendo il negozio ritenersi produttivo di effetti giuridici fino a che esso non sia annullato dal giudice civile (v., a proposito dell’art. 641 c.p., Cass., sez. 1^, 29 marzo 1972, Da Ponte; Cass., sez. 3^, 29 gennaio 1964, Sanzone).
    Nel caso, poi, che, come nella specie, si tratti di un provvedimento giudiziale, il giudice penale non ha alcun potere di sindacato, dovendo limitarsi a verificare l’esistenza dell’atto e la sua validità formale.
    Così, a titolo di esempio, certamente non può essere sindacata la “sentenza di condanna” o il “provvedimento del giudice civile” evocati, con i contenuti ivi precisati, rispettivamente, dall’art. 388 c.p., commi 1 e 2 o la sentenza di separazione legale con addebito (art. 151 c.c., comma 2) agli effetti di quanto previsto dall’art. 570 cpv. c.p., n. 2, (v. tra le altre Cass., sez. 6^, 13 luglio 2005, Gabutti; Id., 7 gennaio 1999, Bianchini), o quella che pronuncia la cessazione degli effetti civili del matrimonio di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, artt. 5 e 6, richiamati dalla fattispecie penale contemplata dall’art. 12-sexies, medesima legge.
    Diversamente dagli altri casi sopra indicati, in cui pure nel paradigma normativo entra a fare parte un atto giuridico, quando elemento della fattispecie è una sentenza, il giudice penale non è abilitato a compiere alcuna valutazione, neppure incidentale, sulla legittimità di essa, perchè le sentenze, a prescindere dalla loro definitività, hanno un valore erga omnes che può essere messo in discussione solo in via principale, con i rimedi previsti dall’ordinamento per gli errori giudiziari (e cioè con i mezzi ordinari o straordinari di impugnazione previsti dalla disciplina processuale).
    6.6. Non può dunque essere condiviso l’orientamento prevalso nella più recente giurisprudenza di legittimità, a seguito della modifica apportata dagli artt. 2 e 3 c.p.p. alla disciplina delle questioni pregiudiziali, secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento non ha efficacia di giudicato nel processo penale e lo status di “imprenditore” (fallibile), in quanto richiamato dalle fattispecie di bancarotta, andrebbe accertato autonomamente dal giudice penale.
    A ben leggere gli artt. 216 e 217, L. Fall., appare chiaro che in essi il termine “imprenditore” non rileva di per sè ma solo in quanto individua il soggetto “dichiarato fallito”: esso compone cioè un’endiadi che ha lo stesso valore connotativo del più breve riferimento al “fallito” contenuto nell’art. 220, L. Fall., del tutto analogo alla espressione “società dichiarate fallite” usata negli artt. 223 e 224, L. Fall. per il caso dei “reati commessi da persone diverse dal fallito”; e nessun indizio logico-giuridico può desumersi da dette fattispecie acchè possa a ragione ritenersi che al giudice penale sia demandato il compito di accertare in capo all’imputato la veste di “imprenditore” ovvero, per la ipotesi di bancarotta impropria, di sindacare la veste societaria assunta dalla fallita.
    D’altro canto, anche se ciò fosse, il giudice penale avrebbe, in tesi, solo il compito di accertare una generica qualità di “imprenditore”, ma non quella di verificare se, in base alla legge fallimentare, un “imprenditore”, quale che sia, “possa essere dichiarato fallito”, posto che le norme penali qui considerate non si esprimono in questi termini, ma ancorano la operatività della fattispecie a una dichiarazione di fallimento e non a un accertamento del giudice penale sulla esistenza delle condizioni per le quali quell’imprenditore poteva essere dichiarato fallito.
    L'”imprenditore” evocato dalle fattispecie in questione altri non è, dunque, che il “soggetto dichiarato fallito”, giacchè nel nostro ordinamento la dichiarazione di fallimento è inscindibilmente legata all’esercizio di una impresa, e la norma penale, ponendo a dato strutturale della fattispecie l’esistenza di una dichiarazione di fallimento, non può che richiamarsi a quella condizione soggettiva (“imprenditore”) che la dichiarazione di fallimento implica necessariamente.
    6.7. Le modifiche apportate dal vigente codice alla materia delle questioni pregiudiziali al processo penale non hanno, a ben vedere, una incidenza determinante sulla questione qui esaminata.
    Lo status di fallito non rappresenta, infatti, una “questione pregiudiziale” da cui dipende la decisione sui reati di bancarotta, perchè questo status è diretto effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, che, come osservato, non è sindacabile dal giudice penale.
    Appare quindi non del tutto proprio il richiamo alla tematica delle questioni pregiudiziali fatto nella Relazione al Progetto preliminare del c.p.p., nel punto in cui si osservava (p. 9) che, in presenza delle due concorrenti esigenze rappresentate, l’una, dalla “celerità del processo” e, l’altra, dalla “genuinità dell’accertamento incidentale”, fosse la prima a dover prevalere, così da “evitare che il procedimento penale possa venire sospeso … in caso di controversia sulla qualità di fallito, in pendenza di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento”.
    Di ciò mostrava rendersi conto lo stesso legislatore delegato, tanto che, nella Relazione al testo definitivo si dava atto di una “consolidata tendenza giurisprudenziale, resistita in dottrina, all’inclusione nell’ambito delle pregiudiziali di stato della questione concernente lo status di fallito ai fini della ipotizzabilità dei reati di bancarotta” (ivi, p. 165).
    D’altro canto, la possibilità di sospensione del procedimento penale in pendenza di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, risponde a una esigenza per la quale, a prescindere dalla disciplina codicistica sulle “questioni pregiudiziali” e tenuto conto di quanto specificamente previsto dall’art. 238, L. Fall., (secondo cui per i reati di bancarotta “l’azione penale è esercitata dopo la comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento”), rimane ancora valida l’affermazione secondo cui “sorgendo controversia sullo stato di imprenditore fallito, il giudice penale non può conoscere di essa, ma deve limitarsi, previa verifica delle condizioni di legge, a sospendere il procedimento pendente davanti a lui, sino al passaggio in giudicato della relativa pronunzia” (Corte cost., sent.
    n. 141 del 1970, che al riguardo mostra di prescindere dalla concreta disciplina delle questioni pregiudiziali di cui agli allora vigenti artt. 19 e 21 c.p.p. 1930).
    Ed è proprio in considerazione di tale esigenza che nel testo definitivo del codice, in accoglimento di un rilievo della Commissione parlamentare, venne reintrodotto l’art. 479 (previsto nel Progetto preliminare e soppresso nel Progetto definitivo), suscettibile di applicazione proprio ai casi di “opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento”, che, si notava, “la giurisprudenza” riteneva rientrare “nella disciplina dell’art. 19 c.p.p. 1930” (Relazione al testo definitivo, p. 165).
    Ne discende che se anche è stata soppressa la previsione della sospensione obbligatoria del procedimento penale in pendenza di un’opposizione (ora “reclamo”: ex art. 18, L. Fall., come da ultimo modificato) avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, quando lo “status di fallito” sia sub judice resta tuttavia la facoltà del giudice penale, pur non trattandosi propriamente di una questione pregiudiziale, di disporre, ex art. 479 c.p.p., la sospensione del dibattimento, alle condizioni ivi previste (v. Cass., sez. 5^, 5 aprile 2001, Crudo; Id., 5 febbraio 1992, Carzedda); ferma restando, ove sia già intervenuto irrevocabilmente il giudicato penale di condanna, la facoltà del condannato di attivare la procedura di revisione, ex art. 630 c.p.p., comma 1, lett. b), (Cass., sez. 5^, ric. Carzedda, cit.).
    6.8. In conclusione, le Sezioni unite sono dell’avviso che i nuovi contenuti dell’art. 1, L. Fall., non incidono su un dato strutturale del paradigma della bancarotta (semplice o fraudolenta) ma sulle condizioni di fatto per la dichiarazione di fallimento, sicchè non possono dirsi norme extrapenali che interferiscono sulla fattispecie penale. E il giudice penale, che non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento sulla base della normativa all’epoca vigente, allo stesso modo non può escluderne gli effetti sulla base di una normativa sopravvenuta.
    6.9. Resta quindi assorbito il profilo della non retroattività, per gli aspetti che rilevano in questa sede, della disciplina recata dai due provvedimenti legislativi sopra indicati, in forza delle relative disposizioni transitorie, che pure avrebbe potuto legittimare, nel caso specifico (ove anche si fosse potuta assumere una incidenza nelle fattispecie di bancarotta delle modifiche recate all’art. 1, L. Fall.), una conclusione di non operatività di un fenomeno di abolitio criminis, dato che, come condivisibilmente affermato dalla citata sentenza delle Sez. un., ric. Magera, sarebbe ingiustificata l’applicazione dell’art. 2 c.p. rispetto a norme extrapenali prive di effetti retroattivi.


  7. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:
    Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e ss., L. Fall., non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1, L. Fall., per la fallibilità dell’imprenditore, sicchè le modifiche apportate all’art. 1, L. Fall., ad opera del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e poi del D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 c.p. sui procedimenti penali in corso.


  8. Per quanto sopra osservato circa la intervenuta prescrizione del reato, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio.

P.Q.M.


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.


Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2008.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2008