IL MOBBING [*]
di Luca Buonvino

Il mobbing è fenomeno relativamente recente. L’espressione (derivante dall’inglese to mob: aggredire) fu usata per la prima volta dallo psicologo svedese H. Leymann per descrivere quella condizione di persecuzione psicologica nell’ambiente di lavoro che si concreta in una manifestazione ostile diretta in modo sistematico, frequente e durevole contro un singolo, allo scopo di porlo in una posizione di debolezza e di isolamento, sino a determinarne, in ultima analisi, l’espulsione dal mondo del lavoro. In Italia il fenomeno è stato studiato per primo dallo psicologo Harald Ege [1], il quale ha definito il mobbing come “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo p gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”.
E’ possibile individuare tre tipi di mobbing: 1) discendente (detto anche bossing), cioè posto in essere da un superiore gerarchico nei confronti di un sottoposto; 2) orizzontale, cioè posto in essere da colleghi nei confronti di un pari grado; 3) ascendente, cioè posto in essere da uno o più sottoposti nei confronti di un superiore gerarchico (fenomeno raro, ma possibile e giuridicamente tutelabile al pari degli altri due).
Le forme di manifestazione di una condotta mobbizzante possono essere varie e di diversa natura. A titolo meramente esemplificativo: generici, ma inequivoci atteggiamenti ostili (sistematici approcci sarcastici, rimbrotti, sguardi di significato negativo, assenza di comunicazione, rimproveri frequenti); isolamento attraverso il trasferimento del lavoratore in luoghi privi della possibilità di contatti; demansionamento; progressivo svuotamento delle funzioni del lavoratore oppure, al contrario, carichi di lavoro eccessivi; destinazione a sedi scomode; particolare sorveglianza della condotta della vittima allo scopo di rilevare la minima infrazione; facilità di contestazione di addebiti disciplinari; difficoltà nella concessione di ferie e permessi; sottovalutazione delle prestazioni rese; boicottaggio di ogni iniziativa proveniente dalla vittima; licenziamento illegittimo.
In ogni caso, ciò che è importante è che le condotte siano sistematiche e si manifestino nell’arco di un apprezzabile lasso di tempo [2].
Deve osservarsi, peraltro, che vi sono condotte che, pur potendo essere manifestazione di mobbing, hanno una rilevanza autonoma e appaiono già riconducibili a forme di tutela specifica (ad es. l’ingiuria o la minaccia, in ambito penale; il demansionamento in ambito lavoristico). Il vero valore aggiunto della figura del mobbing, quindi, si rivela laddove vi siano condotte che di per sé considerate appaiono legittime, ma che valutate complessivamente e contestualizzate nell’ambito di un intento persecutorio disegnano una situazione antigiuridica.
Un profilo decisivo ai fini dell’eventuale accoglimento della domanda, è quello relativo alla distinzione tra una reale situazione di mobbing (di solito, del tipo discendente) e il mero conflitto interpersonale. E’ frequente, infatti, che insorga una situazione di condotte bilaterali ostili e di ostruzionismo, determinate da reciproche accuse e che conducono solitamente ad una dinamica del tipo azione-reazione (adibizione a mansioni reputate inadeguate o non gradite – strumentale malattia del lavoratore; impegno minimo del lavoratore nello svolgimento delle mansioni – continuo monitoraggio in funzione di eventuale applicazione di sanzioni disciplinari, e così via). In questi casi, non può, a rigore, parlarsi di mobbing. Si pone, peraltro, il problema di trovare un criterio pratico, sia pure orientativo, per distinguere i due fenomeni. In proposito, va tenuto presente che il mobbing presuppone sempre una “vittima” e un “carnefice”: la prima subisce, materialmente e psicologicamente, senza avere possibilità di difendersi in modo adeguato; il secondo aggredisce senza, a sua volta, subire. Nel conflitto interpersonale, invece, i due protagonisti sono su un piano psicologico di sostanziale parità (che, peraltro, da questo punto di vista, non può escludersi anche nell’ambito di un rapporto superiore-sottoposto) [3].
Il mobbing è una figura chiaramente caratterizzata da una certa elasticità e si ricollega quasi sempre ad un fenomeno dai contorni sfumati; per tale motivo spesso non è, dal punto di vista processuale, di facile identificazione. Fondamentale, quindi, è la fase delle acquisizioni probatorie, con conseguente dovere per le parti di curare con particolare attenzione il momento delle richieste istruttorie.


In assenza di un quadro normativo, la figura in parola è stata progressivamente definita dalla giurisprudenza di merito [4]; infine, anche la Corte di Cassazione ha avuto occasione, nel marzo 2006, di pronunciarsi, offrendo una definizione del fenomeno [5].
La casistica, nella giurisprudenza di merito, è abbondante [6]. Storiche, per essere state le prime, sono quelle del Tribunale di Torino del 1999 [7]. Di rilievo è la sentenza del Tribunale di Forlì del 28.1.2005 in materia di mobbing contemporaneamente discendente e orizzontale [8]. E’ stato esaminato anche un caso di mobbing esercitato dal datore di lavoro nei confronti di un proprio dipendente eletto RSU aziendale [9]. Una fattispecie analoga al mobbing, definita straining, è stata individuata da Trib Bergamo 20.6.2005 [10].


Quanto alla tutela della vittima del mobbing, deve ricordarsi innanzi tutto quella penale, laddove vi siano state condotte integrative di fattispecie di reato (ingiurie, minacce, violenza privata, molestie).
Vi è poi la tutela civile. Qui vengono in considerazione sia l’art.2043 c.c. sia l’art.2087 c.c.. Diciamo, però, che ormai tanto la dottrina quanto la giurisprudenza concordano nel ritenere che le ipotesi di vessazioni attuate nei luoghi di lavoro integrino essenzialmente una violazione dell’obbligo contrattuale di cui all’art.2087 c.c., letto in combinazione con l’art.1218 c.c.. Sicché, una volta dimostrata la sussistenza dell’inadempimento, non occorre, da parte del lavoratore, anche la prova della ricorrenza della colpa del datore di lavoro.
Rimane comunque una scelta del ricorrente quella di percorrere la strada della responsabilità extracontrattuale o contrattuale [11].
Tale possibilità di scelta è certa laddove si agisca per un mobbing discendente (bossing), in quanto nei confronti del datore di lavoro è azionabile sia l’art.2043 c.c. sia l’art.2087 c.c.. Laddove si agisca, invece, per un mobbing orizzontale, nei confronti dei colleghi autori della condotta denunciata la strada è limitata a quella dell’art.2043 c.c. in quanto l’art.2087 c.c. non è riferibile a coloro che non sono datori. Nei confronti, invece, di quest’ultimi rimane la scelta di invocare l’art.2049 c.c oppure direttamente l’art.2087 c.c.
I rimedi direttamene esperibili sotto il profilo risarcitorio si ricollegano alle categorie del danno patrimoniale, biologico, morale e esistenziale.
Il danno patrimoniale, nelle due componenti del danno emergente e lucro cessante, è quello che incide direttamente sulla capacità di guadagno e di lavoro del mobbizzato. Sono contemplate, dunque, le spese sostenute per le cure mediche e riabilitative e le altre spese conseguenza diretta dell’evento dannoso; il danno futuro determinato dal minor reddito quale conseguenza della ridotta capacità di guadagno [12]. Inoltre, vi è il danno alla professionalità ove sia stato impedito il completo svolgimento delle mansioni e si sia determinata una mortificazione delle capacità e aspettative professionali.
Vi è poi il danno biologico, che consiste nella menomazione dell’integrità psicofisica in quanto tale; esso va al di là della lesione all’attitudine a produrre ricchezza, ma comprende tutti i riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività e rapporti attraverso cui il soggetto realizza la sua vita e al sua personalità.
Il danno morale è quello che, tradizionalmente, si ricollega ai patimenti e alle sofferenze subite in conseguenza di un reato. Tuttavia, a seguito della pronunce della Corte di Cassazione del 2003 e della Corte Costituzionale [13] lo spettro di operatività di tale voce di danno è stato ampliato; sicché può parlarsi di danno morale soggettivo (il pretium doloris) inteso come sofferenza interiore di carattere temporaneo e transeunte che risulta risarcibile a prescindere dall’integrazione di una fattispecie di reato ex art.185 c.p..
Vi è infine il danno esistenziale. Come è stato sopra chiarito, esso va inteso come ogni pregiudizio – di natura non genericamente emotiva ma oggettivamente accertabile – provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali, inducendolo a scelte di vita diverse e i cui indici sintomatici sono la durata della condotta illecita, la gravità, la conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, la frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, ricadute negative nelle abitudini di vita del lavoratore (vedi Cass.24.3.2006 n.6572, sopra riportata). Esso si distingue dal danno patrimoniale perché prescinde dal danno reddituale; dal danno biologico perché può esistere anche a prescindere dalla sussistenza di una lesione al bene salute; dal danno morale perché non si identifica con il patimento immediato e temporaneo, determinato dall’evento subito.
Un cenno merita il rapporto tra mobbing e tutela cautelare.
E’ possibile l’azione ex art.700 c.p.c proposta sulla base di una situazione mobbizzante. In proposito, deve evidenziarsi che scarsa fortuna avrebbe una richiesta cautelare fondata sulla prospettazione di una futura azione di merito vertente esclusivamente sul piano risarcitorio. E’ chiaro infatti che una futura richiesta meramente risarcitoria difficilmente consentirebbe al giudice della cautela di ritenere sussistente il periculum in mora (costituito da un danno imminente e irreparabile). Invece, la deduzione di una futura azione fondata sulla richiesta di cessazione della condotta mobbizzante (magari specificata attraverso il trasferimento del lavoratore in un diverso ufficio, o in una diversa sede) e risarcimento, può legittimare l’adozione di un provvedimento anticipatorio (sul versante della cessazione della condotta).
Anche in questo caso, tuttavia, qualche problema pratico la fattispecie in discussione lo pone. Come è stato detto, il mobbing è un fenomeno, per sua stessa natura, spesso sfumato, dai contorni non sempre perfettamente definibili. Di talché, sul piano dell’accertamento in concreto, impone normalmente una attività istruttoria particolarmente articolata e accurata (ascolto di molti testi, valutazione di documentazione aziendale, ecc.), più conforme ad un contesto di procedimento ordinario che a quello cautelare. Ciò, ovviamente, è possibile farlo anche in sede di urgenza, ma è indubbio che è un tipo di condotta che spesso è di non facile dimostrazione in un contesto sommario quale quello in parola.


-Dott. Luca Buonvino-


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Note


* estratto dalla relazione “Danno da demansionamento, mobbing e danno esistenziale” tenuta nell’ambito del Corso di aggiornamento professionale su “La disciplina del rapporto di lavoro tra prassi e giurisprudenza” organizzato dall’U.D.A.I. – C.I.S.E.M., Bari, 2007




  1. H. Ege, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora Editrice, Bologna


  2. Ege parla di almeno sei mesi; tale durata minima è ripresa da Trib. Milano 29.10.2004


  3. Trib. Cassino 18.12.2002: “Il mobbing rappresenta quel fenomeno di violenza morale posto in essere per un apprezzabile lasso di tempo da uno o più soggetti, colleghi o superiori, del lavoratore e finalizzato alla sua espulsione dal contesto lavorativo, mediante una serie di soprusi e condotte tese alla emarginazione, umiliazione e svalutazione dell’immagine e dell’attività lavorativa. Tale condotta è illecita e contraria all’art. 2087 c.c., e si differenzia dai normali conflitti interpersonali sorti nell’ambiente lavorativo, i quali non sono caratterizzati da alcuna volontà di emarginare ed espellere il collega o il subordinato dal contesto lavorativo, ma sono legati più che altro a fenomeni di antipatia personale ed ambizione. (Nella specie è stato escluso che si fosse in presenza di un’ipotesi di mobbing, ma di una situazione conflittuale tra la direttrice di un istituto scolastico ed un’insegnante, peraltro originata da un comportamento polemico di quest’ultima la quale era incline, di fronte alla reazione del superiore, a sentirsi perseguitata e discriminata)”.


  4. Tra le tante, Trib. Torino 28.1.2003 secondo cui “I caratteri identificativi del fenomeno mobbing – quali concordemente individuati nei vari ambiti in cui ci si è occupati del fenomeno – sono rappresentati da una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una “ratio” unificatrice nell’intento di isolare, di emarginare, e fors’anche di espellere la vittima dall’ambiente di lavoro. Si tratta, quindi, di un processo, o meglio di una “escalation”, di azioni mirate in senso univoco verso un obiettivo predeterminato”; per Trib. Como 22.2.2003 “Il mobbing, ovvero quella situazione di disagio provocata al lavoratore dall’ambiente di lavoro, si compone di un elemento oggettivo, consistente in ripetuti soprusi posti in essere da parte dei superiori e, in particolare, in pratiche – di per sè legittime sebbene biasimevoli – dirette a danneggiare il lavoratore e a determinarne l’isolamento all’interno del contesto lavorativo, e di un elemento psicologico, a sua volta consistente, oltre che nel dolo generico – “animus nocendi” -, anche nel dolo specifico di nuocere psicologicamente al lavoratore, al fine di emarginarlo dal gruppo e allontanarlo dall’impresa. Incombe sull’attore l’onere di provare la realizzazione dei comportamenti mobbizzanti, la ricorrenza del dolo e l’effettività del danno, nonché il relativo nesso causale


  5. Cass. 6.3.2006 n.4774: “L’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (c.d. “mobbing”) – che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 cod. civ. – si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifichi obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito impugnata che, con congrua motivazione, si era attenuta a tali criteri escludendo la configurabilità, in capo al datore di lavoro, di un disegno persecutorio realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal lavoratore come vessatori)


  6. Per un’ampia disamina, vedi Iacovino-Di Pardo-Di Pardo-Izzi, Mobbing, Giuffré Editore, Milano 2006


  7. Trib. Torino 16.11.1999, per un caso di isolamento lavorativo, accompagnato da comportamenti ingiuriosi del capo reparto; disattendendo la tesi della azienda, per la quale la stessa non poteva essere ritenuta responsabile della condotta del capo reparto, il Giudice condannava al risarcimento del danno il datore di lavoro sulla base dell’art.2087 c.c. in quanto quest’ultimo era tenuto a garantire l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti impedendo contegni aggressivi e vessatori da parte dei preposti e responsabili nei confronti dei sottoposti. Trib. Torino 30.12.1999, per un caso di demansionamento conseguente al rifiuto della lavoratrice di dimissioni sollecitate in ragione del fatto che il di lei convivente – che in precedenza lavorava presso la stessa azienda – aveva deciso di impiegarsi presso un’azienda concorrente.


  8. La ricorrente, assistente amministrativa in circolo didattico, era stata per circa sedici mesi destinataria di condotte mobbizzanti da parte di colleghi e dirigenti in quanto “non si era sintonizzata con l’ambiente, accettando gerarchie e comportamenti esistenti e consolidati”.


  9. Trib. Siena 5.1.2005


  10. Consisterebbe in una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha un effetto negativo nell’ambiente di lavoro e che, oltre ad essere stressante, è anche di durata costante.


  11. Cass. 25.9.2002 n.13942


  12. Secondo Cass. 27.7.2001 n.10289 non può automaticamente escludersi il risarcimento del danno patrimoniale anche laddove sia rimasta inalterata la retribuzione.


  13. Cass. 31.5.2003 nn.8827 e 8828; Corte Cost. 11.7.2003 n.233