Insidie e strategie dell’esame incrociato
Presentazione del volume ed intervento del Dott. Pasquale Drago
nel corso dell’iniziativa a cura della Camera Penale di Trani
Esame e controesame: tecniche e strategie
Molfetta 6 giugno 2008


 




L’opera dell’avv. Ettore Randazzo ” Insidie e strategie dell’esame incrociato ” è certamente un’opera che fornisce utili suggerimenti – frutto, insieme, di matura esperienza ed accurata riflessione – per la pratica quotidiana nelle aule di giustizia penale, ed a questi suggerimenti può rimandarsi il lettore attento che voglia migliorare la sua professionalità.


Ma quelle che ho trovato grandemente stimolanti del libro sono le parti in cui si tratta delle “INSIDIE”, parti dalle quali ho ricevuto importanti messaggi, non so se voluti dall’Autore o, talvolta involontari, tuttavia sicuramente pieni di ulteriori riflessioni, non sempre rassicuranti, talvolta direi proprio preoccupanti, ma comunque portatrici di una tensione verso il miglioramento del servizio che un magistrato è tenuto ad offrire alla amministrazione della giustizia ed agli utenti di essa.
Riflessioni, dicevo, che ritengo di poter riassumere lungo due direttrici principali, la prima delle quali riguarda l’affidabilità- a mio parere alquanto modesta- della prova orale e in particolare della testimonianza, nella ricostruzione della vicenda criminosa di cui si occupa il procedimento penale.
Dopo aver trasmesso al lettore, per più pagine, numerosissimi suggerimenti (che spesso ho trovato utili anche per il mio ruolo di Pubblico Ministero) e preziose regole di esperienza, l’Autore, tuttavia, è costretto a riconoscere che la tecnica della prova orale non può consistere in una strategia che risponda a rigide regole scientifiche, ma spesso si avvicina all’arte, abbisognando di dati di intuito e di improvvisazione per la migliore riuscita dell’esame. Ed è consequenziale la conclusione dell’autore: << L’ultima regola: nessuna regola … la molteplicità dei casi e la variabilità delle situazioni in cui ci si trova impediscono di attenersi a regole rigide e rigorose e tanto meno ingessate…>>.



Mi sembra, a questo punto, opportuno riflettere brevemente, (pur senza ripetere – malamente – quanto da tempo si viene leggendo nei trattati di psicologia giuridica), circa i meccanismi e le dinamiche, attraverso cui si sviluppa la prova testimoniale.
Considerare il testimone come una mera res loquens, quasi un oggetto che, avendo fedelmente registrato un evento, sia in grado di riprodurlo in maniera obiettiva e neutrale tutte le volte che ne sia richiesto è – come ciascuno di Voi certamente concorda – una solenne sciocchezza.
Eppure – facciamoci un esame di coscienza – quante volte voi avvocati e noi pubblici ministeri, distratti dalla fretta di concludere il più rapidamente possibile l’incombenza processuale giornaliera ( e magari pressati da un giudice ancor più frettoloso di noi), ci siamo posti di fronte a un teste da esaminare come se fosse un “registratore”, dimenticando tutto quel che sapevano e sappiamo dei suoi (ma anche dei nostri) meccanismi psicologici? E, invece, è bene riflettere sul fatto che la testimonianza si sviluppa lungo un percorso estremamente complesso, articolato in varie tappe che, in estrema sintesi, possono individuarsi secondo il seguente schema:




  1. Momento della PERCEZIONE dell’evento criminoso, percezione che avviene non in maniera neutra ma secondo il punto di vista soggettivo del percipiente.


  2. Momento della consequenziale MEMORIZZAZIONE di quanto percepito, che avviene mediante lo “incasellamento” del dato in categorie e schemi logici, anch’essi assai soggettivi e formatisi in base al vissuto esperenziale del teste, quando non addirittura in base a veri e propri pregiudizi.


  3. Momento della COMUNICAZIONE a terzi delle informazioni in proprio possesso: è questa una tappa assai delicata perchè si creano vari meccanismi di interazione soggettiva tra esaminante ed esaminatore. Le domande e gli atteggiamenti del primo, infatti, finiscono per influenzare (in misura maggiore o minore) le risposte e gli atteggiamenti del secondo, ma -(attenzione), – avviene reciprocamente anche l’interazione inversa.



    • -a. In questa fase, spesso si sottovaluta – anche grandemente – il ruolo che gioca il momento delle sommarie informazioni testimoniali e della influenza che possono avere – anche nel cristallizzare determinate convinzioni (eventualmente anche errate) del teste – le domande e talvolta le pressioni degli inquirenti, tesi alla scoperta del “colpevole”.

E’ questa una fase che sfugge al contraddittorio e che, a maggior ragione, richiede professionalità ed auto-controllo da parte degli organi inquirenti, primo fra tutti il PM, anche nella sua funzione di organo di controllo delle attività della PG.


Nella fase successiva del contraddittorio, quando finalmente si arriva all’esame incrociato delle parti, la deposizione può risultare anche gravemente inquinata, su punti specifici, dalla domanda suggestiva o nociva posta al teste e su questo aspetto si è ampiamente dibattuto e oggi qui, in particolare, si dibatte.


Ma c’è un altro aspetto che si tende a sottovalutare e che, invece, andrebbe conosciuto e studiato con molta più attenzione: quello della “soggezione” del teste non solo, in generale, rispetto all’ambiente giudiziario e alla solennità formale in cui si svolge la prova testimoniale, ma anche. nello specifico, nei confronti della posizione di autorità del soggetto il quale, esaminandolo, interagisce col teste.
Questo della soggezione è un aspetto che. ove sfugga al rigoroso controllo dell’esaminatore, può dare luogo facilmente a risultati negativi – a seconda dei casi – inducendo talvolta il teste a “chiudersi”,offrendo sempre minore disponibilità alla comunicazione delle informazioni in suo possesso e talvolta – forse ancor più perniciosamente – a predisporsi tendenzialmente quanto involontariamente, a “compiacere” l’esaminatore, indirizzando le proprie risposte nel senso che pare suggerito dalle domande di quest’ultimo. Tale pericolo è tanto maggiore quanto maggiore è l’autorevolezza del soggetto esaminatore. E poichè nel processo penale la figura istituzionale dotata di maggiore autorevolezza è indubbiamente quella del Giudice, ne deriva che il ruolo di quest’ultimo nell’assunzione della prova orale è assai delicato e – se non esercitato in maniera corretta – fonte di pericolose e spesso irrimediabili distorsioni nella acquisizione degli elementi probatori.
Quest’ultima considerazione ci porta a riflettere sul messaggio nascosto (ma neppure tanto ” nascosto”) che a mio parere, si può cogliere nell’opera dell’ Avv. Randazzo: quello che, pur senza acrimonia, ma in maniera forte e chiara, l’Autore lancia nei passi in cui mette in evidenza la figura prevaricatrice del giudice che, prendendo l’iniziativa ad un certo punto dell’esame, diventa egli stesso inquirente.
E allora – viene di pensare progredendo lettura del libro – forse i magistrati del Pubblico Ministero, bene o male, si sono adattati al nuovo ruolo dibattimentale (nuovo rispetto al codice di procedura penale del 1930), mentre il Giudice, salvo eccezioni, no.


Non so quanto sia nelle intenzioni dell’Autore lanciare questo tipo di messaggio, ma tale è la conclusione che mi pare di cogliere – soggettivamente, come è ovvio – dalla lettura della sua opera.
Certamente è nelle intenzioni dell’Avvocato Randazzo – e non si vede in che modo dargli torto – pretendere che la figura e l’azione del Giudice si evolva sempre più verso il ruolo di rigoroso “custode delle regole”.
A tal proposito, permettetemi di leggervi il paragrafo che, pur polemicamente qualificato dall’Autore come inutile, a me è parso il più significativo sotto l’aspetto in questione. << E’ del Giudice la responsabilità principale della legalità (anche) nell’istruttoria dibattimentale … il giudice ha il potere-dovere, oltre all’autorevolezza, per “raddrizzare” le “storture” e tornare appunto al “diritto”.
Come sappiamo, ciò non avviene sempre. Anzi si espande sciaguratamente come un tumore quella massa di anarchia e di violazioni che incombe tutte le volte in cui il giudice si lasci trascinare dalla noncuranza delle parti, condizionato come spesso gli capita dal desiderio di assumere tutte le informazioni che sia possibile sui fatti di causa, in barba alle restrizioni normative.
Così assistiamo al sostanziale nulla osta per le domande suggestive o nocive, inutilmente vietate se poi riformulate allegramente, il che per un esaminatore scaltro e disinvolto potrebbe tradursi persino in una strategia vittoriosa, seppure a causa dell’altrui inettitudine. E ci imbattiamo anche in giudici che sostengono come a loro non sia vietata alcuna domanda, come se godessero di una depurazione naturale per merito della loro funzione.
Questo è proprio un paragrafo inutile, ché nessun giudice, dopo averlo letto, si riconoscerà in quella figura astratta qui delineata, né tanto meno si metterà in discussione insieme al proprio potere. Eppure si voleva, in definitiva, ricordare soltanto quanto siano importanti sia l’esame incrociato, sia più in generale una conduzione dell’udienza nel rispetto delle regole e quanto questo valore ineguagliabile, identificabile nella legalità, non possa cedere di fronte a nessuna esigenza.
>>
Dunque alla fine il soggetto processuale che rischia di violare le regole del controesame in maniera – almeno qualitativamente e talvolta anche quantitativamente – più pesante sembra essere proprio il Giudice.


E qui vorrei porre alcuni dubbi, perchè siano spunto di ulteriori riflessioni.
Siamo sicuri che questo dipenda totalmente o, quantomeno in parte, da ragioni di colleganza con il rappresentante del PM?
Non è invece, che su questi atteggiamenti del giudice incidano piuttosto:
a) – l’atteggiamento culturale che vede nell’esercizio della giurisdizione penale, almeno in primo grado, la duplice tensione verso la ricerca della “verità” intesa in senso assoluto e non meramente processuale, nonchè verso “la lotta alla criminalità”?
b) – un pernicioso, quanto assai diffuso protagonismo diretto alla affermazione della propria personalità e professionalità attraverso il perseguimento del duplice obiettivo di cui al punto a) ?
E se la “lotta alla criminalità” è un compito degli organi inquirenti, non è per caso che il Giudice si ponga non in adesione, ma addirittura in concorrenza (e perciò in contrasto) col PM?
E tutto questo per chi eserciti la funzione giudicante, non è profondamente sbagliato?
Siamo sicuri che la soluzione stia nella separazione delle carriere?
E se, invece, fosse necessaria una maggiore attenzione alla “rieducazione”, nel senso della creazione di una nuova cultura giuridica, della magistratura giudicante?
Forse occorrerà liberare i giudici – più che dalla presenza del pubblico ministero collega – dal fardello dei carichi di lavoro, dell’organizzazione dell’Ufficio, della responsabilità per i tempi lunghi della giustizia, facendo si che l’organizzazione e la snellezza del lavoro siano un problema di soggetti esterni al processo – come anche deve esserlo la cosiddetta lotta alla criminalità- lasciando al soggetto investito della funzione giudicante nel singolo processo il solo compito che gli è proprio: quello di porsi con serenità di fronte a tutti gli altri soggetti processuali, in modo da condurre il dibattimento avendo di mira principalmente il rispetto delle regole e da emettere una decisione che sia rigorosamente rispettosa della sola verità a cui possiamo aspirare noi operatori giudiziari: la verità processuale.


Dott. Pasquale Drago
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trani