La violazione degli obblighi comportamentali da parte degli intermediari finanziari,
tra regole di comportamento e regole di validità:
i rimedi accordati agli investitori e le sezioni unite del 2007.

di Gaetano Labianca


(relazione tenuta al convegno
La responsabilità degli intermediari finanziari:
regole di comportamento e regole di validità.
Prime riflessioni sulle sezioni unite del 2007.)


1. Premessa. Quadro normativo.
A seguito del verificarsi di importanti rovesci finanziari, con titoli azionari ed obbligazionari finiti in default, ben presto è seguita la reazione degli investitori, i quali hanno cercato di recuperare i loro risparmi (c.d. “risparmio tradito”) agendo, oltre che nei confronti degli emittenti, quasi tutti più o meno decotti, anche nei confronti degli intermediari finanziari.
Com’è noto, le regole di condotta poste a carico degli intermediari finanziari si articolano, da un lato, in principi e criteri applicabili alla prestazione di qualsivoglia servizio di investimento e dei relativi servizi accessori; dall’altro, in norme dettate con specifico riferimento alla singola attività di intermediazione mobiliare.
I principi e le regole di generale applicazione trovano la loro fonte nella direttiva comunitaria n. 2004/39/Ce (relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che ha sostituito la direttiva 93/22/Cee), nel D.lgs del 17 settembre 2007 n. 164 (che ha modificato in modo sensibile il D.lgs n 58/1998, a sua volta sostitutivo della legge n 1/1991[1] ), e dal Reg.to Consob [2].
Si tratta di regole di condotta (ad es., il dovere di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati [3]) che paiono definibili come la specificazione di una clausola di portata generale, la buona fede, diretta a garantire la chiusura e la necessaria elasticità del sistema.
Si è individuato, così, una sorta di “principio di offensività[4], per il quale la violazione di una norma di condotta diviene rilevante solo se, o nella misura in cui, lede o pone in pericolo i beni (tutela del risparmio, elemento di valore dell’economia nazionale ed integrità del mercato finanziario [5]) sottesi alla disciplina.
L’incertezza, però, sin da subito, ha riguardato la struttura o il tipo di rimedio richiesto ed accordato all’investitore: da un lato, è stato individuato un rimedio di tipo restitutorio (con declaratoria di nullità o di annullamento del contratto e restituzione delle somme a suo tempo versate per l’esecuzione degli ordini di acquisto); dall’altro, si è ben presto profilato un rimedio concettualmente opposto a quello restitutorio, vale a dire il rimedio risarcitorio, secondo i modelli della responsabilità precontrattuale e contrattuale.
Assai meno seguita, almeno inizialmente, da parte dei risparmiatori, la scelta dell’annullamento del contratto per vizio di volontà dell’investitore, specie in ragione delle difficoltà di ordine probatorio, come pure per l’atteggiamento tradizionalmente restrittivo in ordine all’errore (essenziale e riconoscibile) incidente su meri profili di valutazione economica.


2. La tesi del rimedio restitutorio. La nullità virtuale del contratto.
Il primo orientamento muove le basi da una premessa fondamentale, e cioè che le norme, di natura attuativa e regolamentare, costituenti l’attuazione dei principi generali del T.U.F. (D.lgs 24.2.1998 n. 58) costituiscono delle norme imperative, aventi la finalità di tutelare un interesse pubblico, e cioè la tutela del risparmio nonchè la correttezza ed integrità dei mercati finanziari.
In tal senso, si è pronunciato per primo il Tribunale di Mantova (sent. 12.11.2004) che ha dichiarato la nullità dell’operazione di investimento per “la violazione, da parte dell’intermediario, delle prescrizioni contenute negli artt. 21 e ss T.U.F. e negli artt. 28 e 29 del Regolamento degli Intermediari”.
Tale soluzione è stata seguita, a ruota, da numerosi altri Tribunali: in particolare, il Tribunale di Treviso (sentenza 26.11.2004), per il quale “la violazione, da parte della banca, dei precetti di cui agli artt. 21 e ss. T.U.F. comporta la nullità del contratto di acquisto dei bond a norma dell’art. 1418 c.c. per contrarietà a norme imperative”.
La soluzione ha trovato conferma anche da parte del tribunale di Palermo, con la sentenza del 17.5.2005, nella quale si è osservato, più precisamente, che “…. le regole che sovrintendono la fase immanente al contratto e prodromica al compimento delle singole operazioni, denominate con terminologia inglese come Know your customer rule e suitability rule, sono codificate dall’art. 26 del regolamento Consob n. 11522/1998, dagli artt. 21 e ss. T.U.F., 28 comma 1 lett. a) e 29 del regolamento Consob ed impongono all’intermediario di acquisire adeguata conoscenza degli strumenti finanziari, dei servizi o prodotti diversi, propri o di terzi, raccogliendo informazioni necessarie dai clienti, richiedendo all’investitore informazioni sulla sua esperienza in materia di investimenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento, la sua propensione al rischio; la corretta interpretazione delle preferenze di investimento dei risparmiatori e la ponderata valutazione dei rischi da parte di costoro, riducono l’alea connessa agli investimenti finanziaria entro quell’alea connaturata e perciò insopprimibile alle operazioni eseguite su mercato dei valori mobiliari, ed elidono tendenzialmente il rischio non necessario, evitando che questo sia addossato in modo inconsapevole al risparmiatore.
La violazione di tali obblighi determina la nullità dell’operazione eseguita.

In termini non dissimili, la soluzione inizialmente seguita dal Tribunale di Trani, con la sentenza del 2005, della quale sono stato estensore [6]; in Puglia, in termini analoghi, il trib. Foggia, con sentenza n. 2128/2006 ed il trib. Brindisi 26 dicembre 2005.
Trattasi di una nullità virtuale [7] c.d. “di protezione”, cioè di una nullità relativa azionabile solo dal risparmiatore interessato ad ottenere declaratoria di invalidità dell’atto, con conseguente restituzione della somma versata e trattenuta sine titulo dalla banca.
Il bene tutelato è il risparmio pubblico, quale elemento di valore dell’economia nazionale e della stabilità del sistema finanziario, nonché l’efficienza del mercato dei valori mobiliari, con indubbi vantaggi per l’impresa e per l’economia pubblica [8].
Va detto, però, che la tesi della nullità, ben presto, ha scandalizzato il milieu dei giuristi di carattere tradizionale.
Il dissenso si è, invero, subito focalizzato sulla struttura degli obblighi imposti agli intermediari rispetto alla fattispecie-contratto: si è osservato, in altri termini, che la contrarietà a norme imperative, per condurre a nullità, deve riguardare o la struttura oppure il contenuto del contratto [9]; gli obblighi comportamentali, invece, stanno fuori della fattispecie del contratto: o la loro violazione si verifica nella fase delle trattative – e allora può parlarsi di responsabilità precontrattuale – oppure nella fase dell’esecuzione del contratto, ed allora, nei casi più gravi, può parlarsi di inadempimento contrattuale, con conseguente risolubilità del contratto.
In entrambe le ipotesi, però, la violazione degli obblighi non può mai condurre alla nullità virtuale.


3. Il rimedio risarcitorio. La tesi dell’inadempimento.
In tal senso, una diversa giurisprudenza [10], che ha valorizzato il fatto che la banca non è mero esecutrice degli ordini di acquisto del cliente, ma destinataria di precisi obblighi di informazione (con, ad esempio, obbligo di comunicazione sul grado di affidabilità del titolo secondo le agenzie di rating); avendo il dovere di astenersi dall’effettuare operazioni inadeguate – sotto il profilo della natura, oggetto, frequenza e dimensioni – il comportamento della banca dev’essere valutato in executivis, ovverosia sotto il profilo dell’inadempimento alle obbligazioni assunte con il contratto, in quanto le regole violate sarebbero relative al momento funzionale e non a quello genetico del contratto.
Rispetto alla tesi della nullità virtuale, la tesi risarcitoria affronta la materia in termini, ancor più che di logica astratta, addirittura ontologici.
In realtà, come è stato osservato [11], per potersi reggere, la tesi dell’inadempimento è costretta a dare valore decisivo al c.d. contratto “quadro”, cioè al contratto di intermediazione finanziaria dal quale discendono diritti ed obblighi reciproci tra la banca e l’investitore, con il quale quest’ultimo apre il rapporto con l’intermediario (viene normalmente fatto sottoscrivere una volta acceso il conto corrente e il conto titoli), ma non lo rende realmente operativo.
Vengono così relegati al rango di meri atti di esecuzione i vari ordini di acquisto, con cui l’investitore decide i singoli, concreti investimenti.
Il solo rimedio esperibile per il contraente mandante è quello risarcitorio e/o risolutorio del contratto quadro per inadempimento.
Quest’ultimo deve ritenersi integrato ai sensi dell’art. 1374 c.c. dalle regole negoziali di comportamento previste dal t.u.f.
Avendo tale negozio nel concreto natura di contratto di durata, esso, in base al primo comma dell’art. 1458 c.c sarà travolto immediatamente al solo ordine per il quale vi è violazione degli obblighi di condotta, senza che la risoluzione possa avere effetto in relazione alle prestazioni già eseguite, e di cui non è in discussione la conformità alle regole di comportamento.
Risolto il contratto quadro, con la restituzione del controvalore dell’investimento e l’eventuale risarcimento del danno, l’acquisto resta a carico del mandatario.


4. La sentenza n. 19024/2005 della Suprema Corte.
A fronte di queste difficoltà interpretative, la Cassazione, a sorpresa, nel 2005, emette l’unica pronuncia propriamente in termini, con la quale si è orientata nel senso della responsabilità precontrattuale; si tratta della sentenza del 29 settembre 2005, n. 19024, a firma del consigliere Giuseppe Marziale.
Con la pronuncia in questione, la Cassazione afferma il seguente principio di diritto: “La contrarietà” a norme imperative, considerata dall’art. 1418, primo comma, c.c. quale “causa di nullità” del contratto, postula che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il contenuto del contratto (art. 1418, secondo comma, c.c.).
I comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale
[12] e s’intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto; a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista dal legislatore (ad es., art. 1469 ter, quarto comma, c.c., in relazione all’art. 1469, quinquies, primo comma, stesso codice).
Né potrebbe sostenersi che l’inosservanza degli obblighi informativi, impedendo al cliente di esprimere un consenso “libero e consapevole” avrebbe reso il contratto nullo sotto altro profilo, per la mancanza di uno dei requisiti “essenziali” (anzi di quello fondamentale) previsti dall’art. 1325 c.c..
Invero, le informazioni che debbono essere preventivamente fornite dall’intermediario, non riguardano direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma (soltanto) elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione e non sono quindi idonee ad integrare l’ipotesi della mancanza di consenso.

Con tale pronuncia, come è stato osservato dalla dottrina più attenta, si è venuto a sconvolgere le linee portanti di un istituto generale del diritto civile, quale quello della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c., come ricostruito dalla consolidata e precedente giurisprudenza.
Per la prima volta, infatti, la Corte arriva ad affermare che è applicabile la responsabilità preconrattuale anche nell’ipotesi in cui, nonostante tutto, il contratto sia stato poi concluso (così, invero, in motiv. “.. del resto, contrariamente a quel che mostra di ritenere il ricorrente, non è affatto vero che, in caso di violazione delle norme che impongono alle parti comportarsi secondo buona fede nel corso delle trattative e nella formazione del contratto, quando il contratto sia stato validamente concluso, non avrebbe alcuna possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti.
Tale tesi, un tempo non priva di riscontri nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. 9 ottobre 1956, n. 3414; 12 ottobre 1970, n. 1948; 11 settembre 1989, n. 3922), poggia sull’assunto che l’ambito di rilevanza della responsabilità contrattuale sia circoscritto alle ipotesi in cui il comportamento non conforme a buona fede abbia impedito la conclusione del contratto o abbia determinato la conclusione di una contratto invalido ovvero (originariamente) inefficace.

Viene in pratica chiarito dalla Cassazione che l’ambito di rilevanza della regola posta dall’art. 1337 c.c. va ben oltre l’ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa, ma certamente implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto.
La violazione di tale regola di comportamento assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del contratto), ma anche nell’ipotesi di conclusione di un contratto valido, e pur tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto (1440 c.c.).
Inoltre, la sentenza afferma la natura contrattuale di tale responsabilità, in contrasto con l’orientamento tradizionale della dottrina e della giurisprudenza che, all’unisono, le avevano assegnato natura extra – contrattuale o aquiliana; quanto, poi, al danno risarcibile, la Suprema Corte si spinge al punto di affermare che il danno non si arresta al c.d. “interesse negativo”, ma dev’essere ragguagliato al minor vantaggio, o maggior aggravio economico causato dal contegno lesivo del danneggiante (“… Si afferma comunemente che il risarcimento, in caso di responsabilità precontrattuale, è limitato al c.d. “interesse negativo” e deve, pertanto, essere commisurato alle spese sostenute per le trattative rivelatesi poi inutili e alle perdite subite per non aver usufruito di occasioni alternative di affari, non coltivate per l’affidamento nella positiva conclusione del contratto per il quale le trattative erano state avviate (in tal senso, tra le altre: Cass. 30 luglio 2004, n. 14539; 14 febbraio 2000, n. 1632; 30 agosto 1995, n. 9157; 26 ottobre 1994, n. 8778; 12 marzo 1993, n. 2973).
È tuttavia evidente che, quando, come nell’ipotesi prefigurata dall’art. 1440 c.c., il danno derivi da un contratto valido ed efficace, ma “sconveniente”, il risarcimento, pur non potendo essere commisurato al pregiudizio derivante della mancata esecuzione del contratto posto in essere (il c.d. interesse positivo), non può neppure essere determinato, come nelle ipotesi appena considerate, avendo riguardo all’interesse della parte vittima del comportamento doloso (o, comunque, non conforme a buona fede) a non essere coinvolta nelle trattative, per la decisiva ragione che, in questo caso, il contratto è stato validamente concluso, sia pure a condizioni diverse da quelle alle quali esso sarebbe stato stipulato senza l’interferenza del comportamento scorretto.
Il risarcimento, in detta ipotesi, deve essere ragguagliato al “minor vantaggio o al maggiore aggravio economico” determinato dal contegno sleale di una delle parti (Cass. 11 luglio 1976, n. 2840; 16 agosto 1990, n. 8318), salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento “da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto” (Cass. 29 marzo 1999, n. 2956).

Non vi è, quindi, più motivo per ritenere che la conclusione di un contratto valido ed efficace sia di ostacolo alla proposizione di un’azione risarcitoria fondata sulla violazione della regola posta dall’art. 1337 c.c., o di obblighi più specifici riconducibili a detta disposizione, sempre che, ovviamente, il danno trovi il suo fondamento (non già nell’inadempimento di un’obbligazione derivante dal contratto, perché in tal caso si potrebbe parlare, tutt’al più, di risoluzione del contratto per grave inadempimento) nella violazione di obblighi relativi alla condotta delle parti nel corso delle trattative, prima, dunque, della conclusione del contratto.
Si intuisce la portata rivoluzionaria di tale pronuncia, che non è semplicemente la terza via tra il rimedio restitutorio e rimedio risarcitorio; la Suprema Corte pone un punto fermo, e dice che la responsabilità precontrattuale sussiste non solo nel caso di rottura ingiustificata dalle trattative, ma anche nell’ipotesi in cui il contratto sia stato validamente concluso, ma si sia rivelato sconveniente per l’investitore, danneggiato da un comportamento sleale della banca nella fase anteriore alla conclusione del contratto stesso.


5. L’ordinanza di rimessione alle sezioni unite n. 3683/2007.
A sorpresa, nel febbraio del 2007, la stessa prima sezione della Corte, rileva un contrasto con l’orientamento manifestato dalla stessa sezione in alcuni precedenti.
Nell’ordinanza in questione, viene fatto riferimento alla nullità di contratti di swap stipulati in violazione delle disposizioni di cui alla legge n. 1/91 (che prevede la necessità dell’iscrizione all’albo delle società di intermediazione mobiliare, previo accertamento, da parte della Consob, della sussistenza di una serie di requisiti), per contrarietà a norme imperative.
La contrarietà a norme imperative deriva dal fatto che la violazione delle norme in materia di intermediazione mobiliare (e segnatamente delle norme che prevedono determinati presupposti soggettivi per poter contrarre) si pone in contrasto con gli interessi pubblici con essa garantiti, concernenti la tutela dei risparmiatori, uti singuli, ed il risparmio pubblico come elemento di valore dell’economia nazionale (Cass. 3272/2001).
Sotto questo angolo prospettico, la nullità del contratto può derivare anche dalla violazione di norme imperative che non attengono ad elementi obiettivi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi cioè alla struttura ed al contenuto del contratto, ma dalla violazione di norme che pongono limiti all’autonomia negoziale delle parti, o sotto il profilo delle qualità soggettive di determinati contraenti o dell’esistenza di specifici presupposti soggettivi (nella specie, la mancanza nel soggetto svolgente attività di intermediazione mobiliare della iscrizione nell’apposito albo o delle caratteristiche della SIM.
Altro esempio, riportato nell’ordinanza in parola, è quello della nullità del contratto di agenzia stipulato con soggetto non iscritto nel ruolo degli agenti di commercio.
In tal caso, si verifica il contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 9) della legge n. 204/1985, non derogabile da parte dei contraenti, in quanto rivolta alla protezione non solo degli interessi della categoria professionale degli agenti ma anche di interessi generali, della collettività degli utenti (Cass. 9063/1994).
Viene, ancora, riferita, con riferimento alla disciplina valutaria, la nullità di mandati, conclusi dalla banca senza l’assunzione di alcuna garanzia circa il trasferimento di valuta all’estero nella ricorrenza delle condizioni imposte inderogabilmente dalla normativa vigente in materia (Cass. 4605/1983); il caso della nullità virtuale del contratto concluso per effetto della circonvenzione di incapace.
Osserva ancora il relatore che, con riferimento questa volta non alla giurisprudenza interna alla Corte, ma con riferimento alla legislazione, “una pluralità di indici pone in evidenza un tendenziale inserimento, in sede normativa, del comportamento contrattuale delle parti tra i requisiti di validità del contratto”; è il caso dei contratti a distanza, laddove, con particolare riguardo al caso di comunicazioni telefoniche, l’art. 53, 3° co. del codice al consumo (d.leg. 206/2005) stabilisce, a pena di nullità, che l’identità del fornitore e lo scopo commerciale della telefonata debbono essere dichiarati in modo inequivocabile all’inizio della telefonata; oppure dei contratti del consumatore, in cui la vessatorietà e la nullità del contratto restano escluse solo in caso di trattativa specifica sulla stessa e quindi in presenza di uno specifico dato comportamentale (art. 34 del codice al consumo); dell’art. 9 della legge n. 192/1998 in tema di abuso di dipendenza economica, nei contratti di subfornitura di attività produttive; dell’art. 7 del D.lgs n. 231/2002 in tema di transazioni commerciali relativamente alla clausola di dilazione dei termini di pagamento; dell’art. 3 della legge n. 287/1990 in tema di clausole imposte con abuso di posizione dominante.
Tali recenti interventi normativi assegnano, come si vede, rilevanza al comportamento contrattuale delle parti, anche ai fini della validità del contratto; allora la rigida distinzione tra regole di comportamento e regole di validità tradizionalmente impostata dalla dottrina non esiste più, ed una volta messo in discussione il principio di non interferenza delle regole di comportamento con le regole di validità (ed ammesso che il comportamento della parte possa rilevare ai fini della nullità del negozio), dice il relatore che non v’è più ragione per ritenere che – in presenza di comportamenti contrattuali che violino precetti che si ritengano imperativi, anche se non assistiti dalla specifica sanzione della nullità – non possa trovare applicazione la disposizione dell’art. 1418 c.c., che configura un’ipotesi di nullità virtuale, rivolta cioè proprio a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione di precetti normativi non si accompagni una espressa sanzione di nullità.
Viene così rimesso alle sezioni unite il contrasto giurisprudenziale interno alla Corte.
Tale ordinanza è stata immediatamente criticata da alcuni autorevoli commentatori [13], i quali hanno replicato che l’argomento utilizzato dalla Corte è stato “tautologico”, in quanto ha provato solo ciò che è autoevidente, e cioè che è il legislatore che incorpora nella regola di validità la regola di comportamento; l’art. 1418 c.c. presuppone, invece, un contratto e cioè un atto, non un comportamento, contrario a norma imperativa; la nullità del contratto per contrarietà a norma imperativa può essere solo testuale [14].


6. Le sezioni unite (sentenza n. 26725/2007, rel. Rordorf)
Il 19 dicembre del 2007 viene depositata la sentenza a sezioni unite n. 26725.
La Corte di Cassazione parte dai principi generali e dalle regole di comportamento dettate dalla legge n. 1/1991 (in seguito modificata dal dlgs. n. 58/1998, con successive modificazioni), applicabile all’epoca in cui le operazioni finanziarie contestate erano state poste in essere.
Dopo aver elencato i principi ed i doveri informativi connessi ai rapporti con la clientela da parte dell’intermediario finanziario [tra gli altri, il dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente, l’obbligo di sottoscrivere contratto destinato ad assolvere alla funzione di contratto “quadro” rispetto alle successive attività negoziali in cui l’espletamento di quei servizi si esplicherà, una copia del quale dev’essere trasmessa al cliente, il dovere di fornire informazioni rilevanti ai fini dello svolgimento dell’attività (Know your customer rule), di non consigliare né effettuare operazioni con frequenza non necessaria e di dimensioni inadeguate rispetto alla situazione finanziaria del cliente (suitability rule), di non effettuare operazioni in conflitto di interesse, di dotarsi di adeguate procedure di controllo interno, etc.], le sezioni unite individuano nel contratto “quadro” il contratto di intermediazione finanziaria dal quale derivano diritti ed obblighi reciproci dell’intermediario e del cliente; le successive operazioni costituiscono il momento attuativo del precedente contratto di intermediazione, riconducibile alla figura in generale del mandato.
Gli obblighi comportamentali sono tutti, in qualche misura, finalizzati a garantire il rispetto di una clausola generale, consistente nel dovere di un comportamento leale, professionale e non reticente da parte della banca; essi attengono o al momento prenegoziale ovvero a quello esecutivo della banca: si riferiscono, ad esempio, alla fase prenegoziale il dovere di informarsi sulla situazione finanziaria del cliente, sulla sua esperienza, sulla sua propensione al rischio e sui suoi obiettivi di investimento, in modo che la banca possa ad essa adeguare la successiva operatività.
Dopo la stipula del contratto di intermediazione, però, doveri di informazione permangono anche nella fase della necessaria attuazione del contratto: tra gli altri, il dovere di porre il cliente in condizione di valutare la natura, i rischi e le implicazioni delle singole operazioni di investimento e di disinvestimento, nonché di ogni altro fatto necessario a disporre con consapevolezza dette operazioni; l’obbligo di tenersi informato sulla situazione finanziaria del cliente (se è mutato il profilo di rischio, anche l’adeguatezza dell’operazione può variare, e quindi un’operaizone precedentemente inadeguata può diventare adeguata, e viceversa); l’obbligo di non effettuare operazioni di frequenza (churning) e dimensioni eccessive rispetto alla situazione finanziaria del cliente, e così continuando.
Fatta tale premessa di carattere generale, la Suprema Corte prende in considerazione la tesi della nullità, ed inizia a smontarla.
Premesso che le norme in questione hanno carattere imperativo in quanto volte alla tutela di un interesse generale, rappresentato dall’interesse pubblico alla integrità dei mercati finanziari, parte dall’ovvia considerazione che il Legislatore non ha comminato espressamente (rimarcando che, nella medesima legge n. 1/91 non ha esitato, in altri casi, a farlo) la nullità del contratto, nel caso di accertata violazione delle disposizioni succitate; non si è, pertanto, in uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge in base all’art. 1418, terzo comma, c.c.
Non ricorre, però, neppure il caso di nullità contemplato dal secondo comma dell’art. 1418 (“Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa [1343], la illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345, e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346”): pur volendo ammettere, in effetti, che la violazione di tali obblighi comportamentali possa dar luogo ad un consenso “inquinato” della controparte, appare difficilmente sostenibile che il consenso manchi del tutto; i vizi del consenso, poi, non determinano la nullità del contratto, ma solo la sua annullabilità.
Deve allora convenirsi che l’omissione di informazioni, espressamente dovute per legge o per regolamento, onde assicurare la formazione di un consenso consapevole da parte del cliente, opererà quale causa di annullamento, per raggiro omissivo, anche colposo ai sensi dell’art. 1439 c.c., ogni qualvolta il cliente provi che la specifica informazione che l’intermediario non ha dato, non era già in suo possesso, con la conseguenza dell’annullamento del contratto per vizio del consenso, ma non potrà giammai dar luogo ad un’ipotesi di radicale nullità del contratto, nullo dalla sua genesi.
Il consenso, o l’accordo delle parti, in altri termini, si è già determinato; potrà trattarsi di un consenso viziato, ma allora il rimedio accordabile all’investitore è quello dell’annullabilità del contratto, non quello della nullità.
Rimane da esaminare l’ipotesi contemplata dal primo comma dell’art 1418 c.c., in base al quale “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”.
La Corte ribadisce la correttezza dell’impianto della sentenza Marziale; la tradizionale distinzione tra “regole di comportamento” e “regole di validità” del contratto – con relativa non interferenza delle prime nell’ambito delle seconde – deve ritenersi ancora valida ed effettiva, in quanto la violazione delle prime può generare responsabilità ed essere causa, al più, di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di buona fede e di lealtà gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale.
Come tale non è idoneo a provocarne la nullità.
La violazione di tali obblighi o doveri può generare, allora, a seconda dei casi, annullabilità (per vizio del consenso) rescindibilità (per lesione enorme), oppure risolubilità del contratto.
Circa la sussistenza di una tendenza evolutiva del legislatore, diretta cioè a “trascinare” il principio della buona fede (clausola generale che deve poi essere verificata nel concreto, caso per caso) sul terreno del giudizio di validità del contratto, la Corte avverte del rischio di generalizzazioni ed osserva che si tratta di fenomeno frammentario o settorializzato, ben lungi da costituire sistema, avendo il legislatore isolato specifiche fattispecie comportamentali “elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità”; in questi casi, però, si è pur sempre nell’ambito di operatività del terzo comma dell’art. 1418 c.c., e precisamente nel novero delle nullità c.d. “speciali” o testuali.
Peraltro, si ravvisa nel dovere di buona fede, e negli obblighi comportamentali in generale, un inevitabile radicamento alle circostanze del caso concreto, che li renderebbe inidonei ad assurgere a requisiti di validità, e dunque a rispondere ad esigenze di certezza dei rapporti [15].
Le conseguenza che invero il codice civile fa discendere dalla violazione del dovere generale di buona fede – immanente all’inero sistema giuridico – nell’ambito del rapporto negoziale possono riflettersi, a determinate condizioni, anche sulla sopravvivenza dell’atto (come nel caso dell’annullamento per dolo o violenza, delle rescissione o della risoluzione) ma non sono mai considerate tali da comportare, per ciò solo, la nullità ab origine del contratto, e questo ancorché l’obbligo di buona fede abbia carattere imperativo.
Quanto, poi, ai precedenti giurisprudenziali richiamati nell’ordinanza di rimessione, e precisamente la nullità del contratto per l’assenza di particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalla legge, ovvero la nullità dovuta alla mancanza dell’iscrizione di uno dei contraenti in appositi albi o registri (contratto concluso da intermediario abusivo, da agente di commercio non inscritto nell’apposito albo, le cui clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti), dice la Corte che è “la stessa esistenza del contratto a porsi in contrasto con la norma imperativa”, posto che il contratto è stato concluso in situazioni che lo avrebbero dovuto impedire, e la nullità ne deriva per nullità ancora più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norme imperative che dipendono dal contenuto del contratto.”
Si osserva, poi, nello specifico settore della intermediazione mobiliare, che il legislatore, laddove l’ha voluto, ha espressamente tipizzato alcune ipotesi di nullità, afferenti alla forma o al contenuto pattizio dell’atto (art. 23, commi 1, 2 e 3, ed art. 24 del Dlgs. n. 58/98 relativi alla necessità di forma scritta, a pena di nullità, del contratto quadro), nessuna delle quali riconducibile alla violazione delle regole di comportamento gravanti sull’intermediario in tema di informazione del cliente e di divieto di operazioni in conflitto di interessi o inadeguate.
Evidentemente, allora, tali situazioni presentano eventuali risvolti solamente in tema di responsabilità, con onere della banca di aver agito, nel concreto, con la dovuta diligenza.
Né vale appellarsi alla valenza generale dell’interesse al buon funzionamento del mercato finanziario e alla tutela del risparmio; questi due interessi sono già tutelati dal sistema dei controlli, facenti capo all’autorità pubblica di vigilanza e dal regime delle sanzioni che ad esso accede, ma nulla se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei singoli contratti sul piano del diritto civile, tanto più che essa dovrebbe essere concepita in termini di nullità di “protezione”, ossia di nullità relativa, e già questo rende problematico ogni ancoraggio alla figura generale della nullità configurata dal primo comma dell’art. 1418 c.c.
Pertanto, la violazione degli obblighi informativi nella fase prenegoziale o delle trattative (a meno che non si traduca in situazioni tali da condurre all’annullabilità del contratto), è destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, con obbligo di risarcimento dei danni limitati non già al c.d. interesse negativo, ma al c.d. minor vantaggio o maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni collegati al detto comportamento da un rapporto consequenziale e diretto.
La violazione dei doveri informativi nella fase esecutiva del contratto, invece, assume i connotati di un vero e proprio inadempimento o non esatto adempimento: la loro violazione può, nei casi più gravi, ove cioè risulti provata la gravità dell’inadempimento, condurre anche alla risoluzione del contratto di intermediazione finanziaria in corso.
Nella pronuncia si fa il punto anche sui doveri di astensione od obblighi di non fare; in particolare, l’obbligo di astenersi dall’effettuare operazioni inadeguate e dall’effettuare operazioni in conflitto di interessi con il cliente, sono anch’essi attinenti, propriamente, alla fase esecutiva o attuativa del contratto, costituendo, al pari dei doveri d’informazione, una specificazione del primario dovere di buona fede, cioè di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente.
A fronte, dunque, dei diversi orientamenti dottrinali che fanno ricadere le ipotesi in parola sulla validità del contratto [16], la Suprema Corte mantiene il conflitto di interessi e l’adeguatezza sul piano delle regole di comportamento, quali ipotesi di responsabilità contrattuale in relazione al contratto di intermediazione finanziaria.
Attualmente, il nuovo regolamento Consob (16190/2007) ha fatto venir meno il divieto del conflitto di interessi e si limita a prevedere il rispetto da parte dell’intermediario degli obblighi in materia di conflitto di interessi (art. 43).
Si tratta dell’obbligo, previsto dall’art. 21 TUF, di adottare ogni misura ragionevole “per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere e di gestirli in modo da evitare che incidano negativamente sugli interessi dei clienti informandoli preventivamente prima di agire per loro ocnto, ove le misure adottate non siano sufficienti per evitare il pregiudizio”.
Si è osservato [17], con riferimento agli obblighi di astensione, che la Corte ha perso un’occasione per fare chiarezza sul punto, obliterando completamente il fatto che gli obblighi di astensione investono direttamente la fattispecie, non le mere condotte.
In altri termini, se – a fronte della mancanza di autorizzazione scritta da parte del cliente – si interpreta la norma sul conflitto di interessi come una regola di condotta (invece che un requisito di contenuto e di forma, quale invece è), si arriva alla “sconcertante” [18] affermazione che un contratto in cui non è stata raccolta l’autorizzazione scritta del cliente ad effettuare operazione in conflitto di interessi sarebbe contratto meramente risarcibile, non nullo ab origine.
Ed invece, la sanzione per la violazione delle forme e dei contenuti informativi non può che consistere, si è osservato, nella nullità per difetto di forma e di struttura della fattispecie [19], avendo natura imperativa la norma di cui all’art 29 del Reg. Consob 11522/98, che prescrive la forma scritta per l’avvertenza relativa all’operazione inadeguata e tale requisito di forma costituisce un elemento intrinseco alla fattispecie negoziale, in quanto attiene alla sua struttura o al contenuto del singolo contratto di negoziazione, con la conseguenza che la sua violazione importa nullità del contratto stesso.
Recentemente, il tribunale di Venezia, si è occupato degli obblighi di astensione, facendo applicazione dei principi di diritto da poco enunciati dalle sezioni unite; se, in generale, grava specificamente sull’investitore l’onere di dimostrare il nesso di causalità tra inadempimento degli obblighi comportamentali e il danno, onere che può essere assolto eventualmente anche attraverso il ricorso a presunzioni a norma dell’art. 2727 c.c., vi sono tuttavia delle ipotesi nelle quali il nesso di causalità in questione si deve ritenere in re ipsa; tali ipotesi sono appunto nel conflitto di interessi e nelle operazioni inadeguate, nelle quali l’intermediario può legittimamente dar attuazione all’ordine di investimento solo in presenza di determinate condizioni, non ricorrendo le quali lo stesso ha l’obbligo di astenersi.
Una volta riconosciuto, cioè, che opera un divieto di agire, e che l’illecito consiste nel semplice fatto di agire in violazione del divieto, probabilmente appariva adeguato sanzionare con la nullità per illiceità tali operazioni, sussistendo l’interesse di tutelare l’integrità dei mercati contro la diffusione di operazioni pericolose.
Si potrebbe obiettare che a tale finalità rispondano i controlli interni e le sanzioni adottate dalla Consob, ma permane una significativa incertezza posto che il gestore risponde non per la violazione del rapporto gestorio, ma per la violazione di un divieto legale di agire.


Dott. Gaetano Labianca
Giudice presso la Sezione distaccata di Andria del Tribunale di Trani


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Note




  1. Prima modificata dal d.lgs 415796, poi dal D.lgs 58/1998.


  2. Risulta abrogato il reg. Consob 11522/98; dal 2 novembre del 2007, è in vigore il nuovo Regolamento, adottato con delibera n. 16190/2007; fra le novità rispetto al precedente regolamento, vanno segnalati:
    a) il venir meno della norma sul conflitto di interessi, che prevedeva il divieto dell’operazione in conflitto in mancanza di una previa informazione e consenso scritto in relazione all’operazione stessa;
    b) dell’obbligo di consegna del documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari;
    c) l’introduzione del dovere di astensione dal servizio di investimento ove il cliente non fornisca le informazioni richieste (art. 39);
    d) la disciplina oltre che dell’adeguatezza dell’operazione, anche dell’appropriatezza (art. 40);
    e) una normativa decisamente più articolata sulle informazioni (art. 27).
    Con regolamento del 29 ottobre del 2007, la banca d’Italia e la Consob, in applicazione dell’art. 6, comma 2 bis, lett.. L del T.U.F. hanno previsto una dettagliata disciplina degli obblighi in materia di gestione dei conflitti di interesse, fornendo anche criteri minimi per l’identificazione dei conflitti (art. 23).
    Con il d.leg. 179 del 2007 è stata poi prevista una procedura di conciliazione ed arbitrato, con relativa camera presso la Consob ed è stato istituito un fondo di garanzia per i risparmiatori e gli investitori.
    L’art. 3 prevede un indennizzo per il ristoro delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’inadempimento dell’intermediario agli obblighi di comportamento (di informazione, correttezza e trasparenza), salvo il diritto di adire l’autorità giudiziaria ordinaria per il maggior danno.


  3. Il nuovo testo dell’art. 21 TUF a seguito dell’intervento di cui all’art. 4, del d.leg. 164/2007, è il seguente:
    comma 1:
    nelle prestazioni dei servizi e delle attività di investimento ed accessori i soggetti abilitati devono:
    a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati;
    b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti ed operare in modo che siano sempre adeguatamente informati;
    c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali chiare, corrette e non fuorvianti;
    d) disporre di risorse e di procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività;

    comma 1bis:
    nelle prestazioni dei servizi e delle attività di investimento e dei servizi accessori, le S.I.M., le imprese di investimento extracomunitarie, le S.G.R. le società di gestione armonizzate, gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 107 del T.U. bancario, le banche italiane e quelle extracomunitarie:
    a) adottano ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero sorgere con il cliente o tra clienti, e li gestiscono anche adottando idonee misure organizzative, in modo da evitare che incidano negativamente sugli interessi dei clienti;
    b) informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti di interesse quando le misure adottate ai sensi della lett. a) non sono sufficienti per assicurare con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato;
    c) svolgono una gestione indipendente, sana e prudente e adottano misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati;

    comma 2:
    nello svolgimento dei servizi le imprese di investimento, le banche e le società di gestione del risparmio, possono, previo consenso scritto, agire in nome proprio e per conto del cliente.


  4. La definizione è di M.. Spada e L. De Mari in foro it. 2002, pag. 866, “le regole di comportamento degli intermediari”.


  5. L’integrità dei mercati comprende i valori della stabilità, del funzionamento ordinato ed efficiente, della competitività. Sul punto, si veda Guaccero, in “la disciplina degli intermediari e dei mercati finanziari.”


  6. Hanno affermato la nullità del contratto per violazione degli obblighi informativi: TRIB. VENEZIA, 22.11.2004, in Giur. Comm. 2005, II, 488, ss. Trib. PALERMO 17.5.2005, in contratti, 2005, 1091 e ss. trib. FIRENZE, 19.4.2005 in il caso.it; hanno ritenuto, invece, che la violazione degli obblighi informativi dia luogo ad una forma di inadempimento dell’intermediario, APP: MILANO 13.12.2004, TRIB. MILANO 25.7.2005, TRIB. ROMA 25.5.2005 E TRIB. PADOVA 14.11.2005.


  7. cioè di una nullità non comminata espressamente dalla legge ma comunque espressione di un principio generale, diretto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione di una norma imperativa non corrisponda una specifica sanzione di nullità.


  8. v. Giuseppe Bersani, in il fisco 5/2007, pag. 701.


  9. V. Cass. 111/2004; Cass. 14234/2003.


  10. v. trib. Rimini 14.11.2006, Trib. Roma 31.3.2005 in foro it. 2005, p. 2538; trib. Genova 15.3.2005, trib. Milano 24.11.2005


  11. v. A. Dolmetta, in “strutture rimediali per la violazione di obblighi di fattispecie da parte di intermediari finanziari”.


  12. (vengono richiamati i precedenti della Cass. 9 gennaio 2004, n. 111; 25 settembre 2003, n. 14234)


  13. v. Enrico Scoditti, in “regole di comportamento e regole di validità dei contratti su strumenti finanziari: la questione alle sezioni unite”, in Foro It, 2007, I, 2094.


  14. V. ancora Enrico Scoditti, cit.


  15. cfr. D’Amico, regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996, 40 e ss.).


  16. Bochicchio, ancora sul conflitto di interessi nella prestazione dei servizi finanziari; il conflitto di interesse nei rapporti contrattuali d’impresa in contratto ed impresa 2007, 306; Gabrielli il conflitto di interessi autorizzato)


  17. Daniele Maffeis in discipline preventive nei servizi di investimento; le sezioni unite e la notte degli investitori in cui tutte le vacche sono nere, in contratti, 2008.


  18. La frase è di Maffeis, cit.


  19. V. anche Sartori (la ricivincita dei rimedi risarcitori, note critiche a Cass. 2007, n. 26725, in www.ilcaso.it; Alpa (la legge sul risparmio e la tutela contrattuale degli investitori, in contratti, 2006, 929.