di Giuseppe Losappio
Testo della relazione presentata al convegno La deontologia dell’avvocato e i legami affettivi alla prova del carcere, 10 maggio 2008, Cerignola
Il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, nella sua relazione sull’attività svolta nell’anno 2007, ha esordito indicando i dati dell’organismo in funzione di giudice disciplinare di appello: il CNF, nel 2006, ha tenuto 23 udienze, esaminando 213 ricorsi, rinviandone 56, decidendone 157 (a fine anno erano pendenti 210 ricorsi).
Le sanzioni applicate, nei procedimenti che si sono conclusi con l’accertamento della responsabilità disciplinare (ben 135 su 157) sono state: 8 radiazioni; 10 cancellazioni dagli albi; 59 sospensioni; 32 censure e 26 avvertimenti.
La corposa tabella relativa all’attività disciplinare svolta dai 165 ordini locali risulta che: 90 ordini non hanno adottato nel 2006 decisioni impugnate in appello, di 26 risulta una sola pronuncia, mentre nei grandi ordini con alcune migliaia di iscritti si sono avute soltanto 4/5 decisioni (http://www.consiglionazionaleforense.it/visualizzazioni/vedi_dettagli.php?areanumber=11&action=view&idmessaggio=4378)
Sono dati che, in relazione al numero complessivo degli iscritti all’albo degli avvocati, pari, alla fine del 2006 a circa 200.000 unità, corrispondono a frazioni infime.
Tra i molti possibili commenti di questi numeri segnalo quello di chi ha sottolineato che in Europa l’Italia ha il rapporto più basso tra numero di procedimenti disciplinari/avvocati.
È un primato di cui non saprei se essere fiero. Si tratta senza dubbio di un risultato ambivalente. Potrebbe rivelare che gli avvocati italiani sono i più corretti del vecchio continente; oppure potrebbe segnalare che gli ordini professionali italiani sono più indulgenti che altrove.
Non si tratta di ipotesi alternative. L’una non esclude l’altra, anche perché il dato riflette molti altri fattori, non esclusi i comportamenti dei c.d. stakeholders, ovvero i clienti e più in generale gli utenti della professione forense.
Di sicuro, il fatto stesso che esista la possibilità di una doppia lettura ripropone il tema della disciplina del procedimento disciplinare. Un tema fortemente avvertito anche dal Consiglio Nazionale Forense che nel 2007 ha elaborato un progetto di riforma incentrato in due punti:
– rafforzamento delle garanzie per il cliente (es. introduzione del ricorso avverso le archiviazioni);
– dissociazione dell’organo amministrativo dal collegio giudicante, eventualmente elevato al livello distrettuale.
Da avvocato che ha il privilegio e la responsabilità di proporre una riflessione ad altri avvocati vorrei dire forte e chiaro che questi numeri, anche se accreditassero l’ipotesi più negativa di un atteggiamento protezionistico dei Consigli nei confronti dei loro iscritti, non legittimerebbero in nessun caso l’accostamento dell’avvocatura italiana alla immagine della casta.
Vorrei che fosse altrettanto chiaro, però, che così come considero opportuna, persino doverosa, la difesa come dire “civile”, del prestigio della professione, ritengo, del pari, che questa difesa non deve mai sfociare in atteggiamenti pregiudizialmente auto-assolutori. Al contrario occorre coltivare una costante e vigile consapevolezza auto-critica di cui, peraltro, la scelta di trattare in questo convegno i profili di responsabilità disciplinare del penalista alle prese con la realtà carceraria è già una solida testimonianza.
Deontologia e formazione dello specialista.
Inquadrate le “reali” dimensioni del problema deontologico, accennerò ad alcuni aspetti del rapporto tra deontologia e formazione del penalista e, più in generale dell’avvocato specialista, cercando, infine, di tracciare qualche declinazione con specifico riferimento alla deontologia dell’avvocato alle prese con gli istituti di pena.
In realtà, nonostante le marcate specificità che presenta la difesa penale non credo ad un codice deontologico per il penalista. Piuttosto possono essere messi in risalto alcuni aspetti dei doveri deontologici che interessano prevalentemente o esclusivamente il penalista. In questo senso, condivido la posizione dell’Unione delle Camere penali che ha stilato un documento di regole etiche in 17 articoli e tre parti relative solo ad alcuni aspetti dell’attività professionale: rapporti con i colleghi, rapporti con la stampa e soprattutto le indagini difensive (alle quali sono dedicati ben 13 disposizioni).
Il codice deontologico del penalista è il codice deontologico forense integrato da una formazione professionale specifica. Mi pare persino ovvio, infatti, che la formazione professionale sia parte integrante della formazione deontologica. È appena il caso di ricordare che può essere onesto solo il buon avvocato. L’azzeccagarbugli è sempre un avvocato disonesto (difficile dire se in the facts valga il contrario).
Poste queste premesse, dal punto di vista deontologico, più che uno specifico problema di formazione del penalista esiste un problema di formazione specifica del penalista come di qualunque altro collega che intenda esercitare la professione in un determinato settore.
Si tratta di un tema di grande attualità. Com’è noto il D.L. 4 luglio 2006 n. 223 (convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006 n. 248) c.d. decreto Bersani, ha disposto l’abrogazione delle disposizioni che vietavano anche parzialmente «di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto e’ verificato dall’ordine» (art. 2, comma 1, lett. c)). Il comma 3 dello stesso articolo inoltre disponeva che «Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali, entro il 1° gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle».
Il 16 dicembre 2006, il CNF dava corso a quest’ultima regola, novellando l’art. 17 del codice deontologico forense. La delibera, tra l’altro, per un verso, abrogava il divieto – già previsto dal comma 3, lettera c) – di rendere pubbliche le specializzazioni, per l’altro, introduceva l’art. 17-bis. Con questa disposizione veniva – finalmente – consentito all’avvocato di indicare «i settori di esercizio dell’attività professionale e, nell’ambito di questi, eventuali materie di attività prevalente».
Il CNF adottava le «misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali», richiamate dall’art. 2, comma 3 con un regolamento del 13 luglio 2007, nel quale la facoltà di indicare i settori di esercizio dell’attività professionale era collegata all’obbligo di formazione professionale continua introdotto nell’art. 12 del codice deontologico. Alludo alla previsione dell’art. 2, comma 5, secondo cui «L’iscritto che, dando con qualunque modalità consentita informazione a terzi, intenda fornire le indicazioni» sui settori di esercizio dell’attività professionale «dovrà aver conseguito, nel periodo di valutazione che precede l’informazione» il numero di crediti formativi nell’ambito di esercizio dell’attività professionale che intende indicare, determinati dai regolamenti di ciascun Consiglio dell’Ordine, ex art. 17, comma 2 del Codice Deontologico.
L’Ordine degli Avvocati al quale appartengo – l’Ordine degli Avvocati di Trani –, per esempio, nel regolamento approvato il 26 febbraio 2008 ha stabilito (art. 2, comma 6) che l’iscritto all’Albo che intenda comunicare a terzi di esercitare una determinata attività professionale prevalente dovrà richiedere al Consiglio la previa verifica del regolare conseguimento dei crediti formativi necessari, e potrà spendere la indicazione dell’attività prevalente solamente in caso di riconoscimento da parte del Consiglio di un numero di crediti formativi idonei e sufficienti.
La deontologia dell’avvocato in relazione agli istituti di pena.
Senza dubbio il rapporto con gli istituti di pena pone al penalista come a qualunque altro avvocato specifici problemi deontologici o meglio peculiari declinazioni dei doveri deontologici contenuti nel codice. Si tratta tuttavia di profili abbastanza elementari che ogni professionista conosce. Vorrei evitare, pertanto, le ovvietà e i facili moralismi. Del resto sono convinto che grandissima parte dei comportamenti deontologicamente ripropovevoli configurabili nei rapporti dell’avvocato con i protagonisti del pianeta carcerario siano anche gravi reati. Un esempio ? Il più comune degli illeciti disciplinari che si consuma negli istituti penali: l’accordo con il “secondino” per indirizzare i detenuti nella scelta del difensore è sì una violazione dell’art. 19, II, è si una violazione dell’art. 25, comma 2 del D.P.R. n. 431/1999 (1.«Presso ogni istituto penitenziario é tenuto l’albo degli avvocati e procuratori del circondario, che deve essere affisso in modo che i detenuti e gli internati ne possano prendere visione». 2. «É fatto divieto agli operatori penitenziari di influire, direttamente o indirettamente, sulla scelta del difensore») ma è anche, pressoché inevitabilmente, una condotta corruttiva. Un altro esempio? L’introduzione nel carcere di sostanza stupefacenti (vedi al riguardo la decisione del Cons. Naz. Forense 21 settembre 2007, n. 109 http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp).
Il carcere è un luogo “estremo” e non mi sembra affatto sorprendente che tra le sue mura illecito deontologico e penale finiscano almeno in parte per sovrapporsi, o meglio che l’illecito disciplinare assuma un carattere “accessorio” a quello della violazione della legge penale.
L’avvocato penalista e la «penalistica civile».
Concludo, dirottando la mia riflessione sul piano etico o più semplicemente dei doveri di civiltà che l’avvocato, il penalista in particolare, dovrebbe avvertire con l’intensità alimentata dalla consapevolezza dei problemi derivante dalla conoscenze e dall’esperienza professionale.
Non credo dando al mio intervento questa direzione di uscire dal seminato della deontologia. Se fossi solo un cittadino europeo potrei argomentare citando l’art. 1.1. del Codice di condotta per l’avvocato europeo: «In a society founded on respect for the rule of law the lawyer fulfils a special role».
Da studioso italiano del diritto penale posso confidare nella tradizione della penalistica civile. Con questa espressione Mario Sbriccoli (http://www.lex.unict.it/didattica/materiali06/storiamed_mz/c/06/Orientamenti_Mario_Sbriccoli.pdf) allude ad un tratto caratterizzante e al tempo stesso costante della storia penale italiana dall’unità fino ad oggi. L’incessante dedizione dell’accademia e dell’avvocatura nazionali per un diritto penale più civile nel quadro di una civiltà del diritto e dei diritti. Questa nobile tradizione chiama l’avvocatura italiana, i penalisti italiani ad una nuova stagione di impegno per le garanzie, di lotta per il diritto, contro lo spirito del tempo che ha preso corpo dopo l’undici settembre. Con un importante documento del 25 giugno 2007, l’Osservatorio dell’Unione delle Camere penali (http://media.camerepenali.it/200707/2986.doc?ver=1) ha chiaramente indicato nelle carceri il terreno sul quale la penalistica civile italiana sarà chiamata a rinnovare il suo impegno per sottrarre il diritto penale «alla furia iconoclasta della demagogia, del cinismo di una politica che vuole cavalcare l’onda del sentimento di insicurezza e di paura ravvivato da una informazione spesso corriva e manipolatrice», come ha ricordato il collega Gian Domenico Caizza (presidente della Camera Penale di Roma) nella prima “Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei penalisti italiani”, il 23 gennaio 2008, a Roma (http://www.ristretti.it/)
Prof. Avv. Giuseppe Losappio