Leggi la nota a firma dell’avv. Nicola Ulisse |
TRIBUNALE DI TRANI
UFFICIO G.I.P. G.U.P.
Sentenza n. 716/2007 Reg. Sent
Repubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
Il Giudice della Udienza Preliminare presso il Tribunale Penale di Trani
Dr. Maria Teresa Giancaspro
alla udienza del 26/11/2007 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente
SENTENZA
nei confronti di: TIZIO nato a XXXX ed ivi residente-Via -Libero-contumace-Difeso dall’avv.L.M. di fiducia – presente IMPUTATO
Per il reato di cui agli artt. 8l, co. 1° e 328, co. 1° e co. 2° cod. pen. perché, pubblico ufficiale siccome responsabile dell’ufficio Amministrazione della caserma “ZZZZZZ” di ZZZ, rifiutava di fare conoscere all’avv. xxxx -che glieli aveva richiesti quale difensore di CAIA nella causa civile di separazione da MEVIO, in servizio presso quella caserma, con raccomandata del 12.6.2004 gli esatti dati relativi alla situazione stipendiale del MEVIO (richieste reiterate dal1’avv. xxxx il 12.9.2004, e il 16.9.2004), così indebitamente rifiutando un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia civile, doveva essere compiuto senza ritardo. Comunque, entro trenta giorni dalle richieste sopra menzionate, non compiva l’atto richiesto e, in ogni caso, non rispondeva in modo adeguato per esporre le ragioni del ritardo, opponendo insussistenti ragioni di tutela della privacy del MEVIO.
In Trani il 23.9.2004 (data della denuncia della p.o.)-
PARTE CIVILE: CAIA – assente – cost. p.c. tramite l’avv. YYYY assente sost. giusta delega dall’avv. MMM-
Si procede con il rito abbreviato chiesto dalle parti ed ammesso dal Giudice all’udienza preliminare del 15.6.07.
Il Giudice invita le parti alla discussione.
Il Pubblico Ministero conclude chiedendo assoluzione perché il fatto non sussiste.
Il difensore della parte civile conclude chiedendo la condanna dell’imputato con la condanna alle spese come da note conclusive e nota spese alle quali si riporta.
Il difensore conclude chiedendo l’assoluzione perché il fatto non sussiste o non costituisce reato.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Alla udienza preliminare del 15-6-2007 fissata su richiesta di rinvio a giudizio del Pubblico Ministero, perveniva processo a carico di TIZIO imputato del reato indicato in epigrafe.
Alla udienza, costituite le parti, dichiarata la contumacia dell’imputato, non comparso senza addurre alcun legittimo impedimento, si costituiva parte civile CAIA; il difensore procuratore speciale di TIZIO chiedeva definirsi processo con rito abbreviato; ammesso il quale la discussione veniva rinviata ad udienza del 26.11.2007, ove le parti hanno discusso il merito del processo ed esposto le rispettive conclusioni, riportate in epigrafe;all’esito della camera di consiglio questo giudice ha emesso sentenza con lettura del solo dispositivo
§§§§
Va preliminarmente valutato se nel rito abbreviato tutti gli atti processuali possano o meno utilizzarsi per la decisione e a seguito della Sent. Cass. Pen. 21/6/2000, n° 16 (Tammaro, in Cass. Pen., 2000, 3259) può ritenersi ormai orientamento consolidato quello secondo cui il giudizio costituisce un procedimento “a prova contratta”, alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova, patteggiamento che peraltro non può incidere sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio, e quindi di controllare che le prove assunte a base della sua decisione non siano acquisite contra legem e ove quindi ha piena rilevanza la categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità cosiddetta “patologica”.
Nel presente giudizio abbreviato possono quindi utilizzarsi tutti gli atti di indagine svolti, ivi compresigli atti di prova atipica che non si sottraggono, al pari di quelli di prova tipica, al vaglio e al prudente apprezzamento del giudice, salvo gli atti affetti da cosiddetta inutilizzabilità patologica, che non sono presenti nel fascicolo processuale.
Gli atti del fascicolo processuale
Con denuncia presentata il 23.9.2005 la sig.ra CAIA esponeva che il suo Legale avv. xxxx nell’ambito della causa di separazione dal coniuge MEVIO aveva chiesto con lettera raccomandata già dal 12.6.2004 all’ufficio amm.ne del AAAAA ove prestava servizio, caserma ZZZZZZ di ZZZ , che fossero comunicati i dati esatti relativi allo stipendio, non era giunta risposta e il legale avv. xxxx per telefono aveva sollecitato risposta parlando con il ten. TIZIO, che avrebbe, stando alla denuncia, offerto “speciose ed evidentemente dilatorie eccezioni” erano seguiti lettera raccomandata 14.9.04 e 16.9.2004 cui erano state opposte ragioni di tutela della privacy e non erano state offerte informazioni cui la esponente aveva diritto per la gestione della causa di separazione. Allegava varie missive.
Nella prima del 12.6.2004 l’avvocato e la istante CAIA esponevano della pendenza del giudizio di separazione personale e della necessità di ottenere indicazioni sui dati esatti relativi alla retribuzione ed emolumenti, specificando le voci richieste e segnalato una sentenza del TAR Lazio del 1994 in ordine al diritto alla richiesta di soggetto qualificato titolare di un interesse a conoscere i dati di retribuzione.
Altra lettera del 14.9.2004 era inviata direttamente al ten TIZIO, con copia della raccomandata, provvedimento del 4.12.2003 di affidamento della prole, lettera di istanza di assegni famigliari e sentenza della Corte Di Cassazione relativi al diritto di percepirli direttamente. Altra lettera del 16.9.2004 era inviata al col. Sempronio comandante del reggimento, ove si riportava una telefonata del ten. Tizio del 14.9.2004 che aveva giustificato il mancato riscontro alle lettere di giugno con smarrimento di una parte del contenuto e di invito alla trasmissione degli atti (v lettera precedente) nuova richiesta telefonica del 15.9.04 produrre i provvedimenti giudiziari relativamente ad assegni famigliari, a quanto pare mai richiesti dal coniuge Mevio, ed ulteriore risposta del 16.9.04 relative alla non ostensibilità dei dati stipendiali per ragioni di privacy.
L’avvocato protestava per una “indebita protezione” nei confronti del Mevio.
Per nessuna di queste missive vi era documentazione della spedizione e/o avvenuta ricezione.
A seguito di richiesta della Procura della Repubblica, il comandante del reggimento dava notizia di nuove richieste del difensore avv. xxxx, una datata 18.10.04 e pervenuta il 25.10.2004, in cui si instava per sapere se Mevio avesse richiesto assegni famigliari, altra del 3.11.2004 con cui si inviava una copia della ordinanza del 22.9.2004 del Giudice istruttore di Trani che ordinava al comando di corrispondere alla Caia gli assegni famigliari spettanti, e in cui si accusava il comandante di avere collaborato ad una appropriazione indebita degli assegni ai danni della sua assistita, il comandante escludeva ciò poiché il dipendente aveva presentato richiesta in data 30.6.2004 dichiarando di essere coniugato, contrariamente a quanto dichiarato dall’avv. xxxxx (nota a fg. 24 datata 4.11.2004).
Altra istanza del |29.10.2004 dell’avv. xxxxx era avanzata per produrre al reggimento il provvedimento del Giudice istruttore della causa di separazione che, si comprende dal tenore della nota, l’avvocato ritenesse superfluo e puramente dettato dalla insistenza del comando, e chiedeva arretrati dall’1.1.2003 invitando ad adottare provvedimento disciplinare nei confronti del Mevio.
Il comando rispondeva in data 4.11.2004 che Mevio aveva chiesto espressamente gli assegni famigliari con istanza del 30.6.2004 e che avrebbe proceduto ad eseguire il provvedimento del giudice istruttore.
Con altra nota del 18.10.2004 inviata alla Procura il comandante Sempronio relazionava su circostanze che riguardavano direttamente Tizio, cui aveva chiesto dopo la telefonata del legale del 14.9.2004 notizie sentendosi rispondere dal tenente che egli non conosceva nulla di quanto esposto, e lo stesso comandante aveva delegato il tenente a telefonare al legale per farsi inviare le richieste scritte via fax; Tizio il 15.9.04 aveva riferito di avere detto al legale che non poteva esaudire le richieste senza un ordine dell’autorità giudiziaria, anche per questioni di privacy; nella stessa nota riferiva inoltre delle richieste scritte e del ricorso al TAR del legale avverso il diniego verbale nonché copia della querela della Caia contro il Tizio.
Allegato alla relazione vi è carteggio tra le parti tra cui una sentenza della Cassazione civile.
Con atto del 5.12.2004 il P.M. conferiva delega di indagini ai Carabinieri di Trani, attraverso i quali venivano nuovamente acquisiti atti, per vero già in fascicolo quali la nota del 12.6.04, altra nota del 12.6.2004 con la quale Caia a mezzo del suo avvocato comunicava di esser coniuge separato affidatario dei figli e richiedeva, poichè il marito non lo aveva fatto, gli assegni dall’1.12.2003 e per il futuro; questa nota porta la data di fax del 14.9.2004.
Tra le note acquisite ve ne era una dell’Avvocatura dello Stato, del 28.9.2004 ove si riteneva di non resistere al ricorso proposto, atteso che era stata presentata istanza di accesso ai documenti con “rituale raccomandata del 12.6.2004” ed essendo decorsi 30 giorni.
Vi è altro incartamento acquisito direttamente al TAR ove finalmente si rinviene traccia della raccomandata in questione e delle altre, perché solo quell’incartamento, evidentemente tratto in copia dall’originale depositato per il ricorso al tribunale amministrativo – vi è la ricevuta, per giunta senza avviso controfirmato di ritorno, della spedizione di raccomandata del 14 giugno 2004; vi sono altresì, depositate dalla Avvocatura dello Stato, in data 5.10.2004 gli atti relativi a buste paga e al modello CUD 2004 del Mevio.
Mai, infatti, pur tra le molteplici copie degli stessi atti prodotti con la denuncia, prodotti dal Comando, acquisiti d’ufficio, vi era mai stata traccia scritta della ricevuta della raccomandata.
Si può notare che la ricevuta depositata al T.A.R. riporta lo sbarramento della voce A.R. però non è mai stata prodotta; che detta ricevuta risulta intestata al Comando del reggimento e non è certo dimostrato che quella raccomandata sia stata ricevuta proprio dal Tenente Tizio; nel fascicolo del tribunale le altre ricevute relative ad altre raccomandate controfirmate dai destinatari vi erano.
Tanto serve rimarcare per delineare le condotte come coattivamente imputate dal P.M..
Invero la pubblica accusa ha formulato la imputazione su ordine del giudice cui aveva invece avanzato una istanza di archiviazione su assenza di elemento soggettivo, vedendo una opposizione della Caia.
Dopo una prima ordinanza del 21.7.2005 seguita a richiesta di archiviazione, ove il giudice imponeva la audizione dell’avvocato xxxxx, il P.M. reiterava la richiesta in data 12.1.2006 nuovamente opposta dalla Caia, indi dopo altra camera di consiglio il giudice rigettava la richiesta imponendo la formulazione della imputazione
§§§§
La valutazione degli atti
Ritiene questo giudice che la omissione imputata a Tizio, sotto duplice profilo alternativo della fattispecie di cui ad art. 328 1° co. e 328 2° co. non sussista in nessuna delle due modalità, sia per la forma che per il merito.
Da un canto invero, sembrerebbe incerta tuttora la data in cui tale omissione si sarebbe formata, posto che lo stesso P.M. ha notato due date distinte, quella del 12.6.2004, data della raccomandata che per vero è stata spedita dall’avvocato xxxxx solo in data 14.6.2004, e non pare sia mai stata trovata nell’incartamento del comando reggimento come arrivata in quella data, poiché invero, quelle rinvenute sono le copie spedite il 16.9.2004.
Vi è da rilevare come il “rifiuto” si sarebbe, stando alle date rubricate al P.M., compiuto immediatamente, e ve ne sarebbe notizia con denuncia proposta da Caia già in data 24.9.2004.
Orbene può notarsi che il motivo di giustizia civile era stato forse abbozzato nella ultima istanza, con la allegazione di un provvedimento del giudice civile che assegnava alla madre i figli, e che prevedeva un assegno di mantenimento, ma solo in data 3.11.2004 era stata trasmessa dall’interessata l’ordinanza del 21.9.2004 con la quale il giudice disponeva esplicitamente al datore di lavoro di pagare direttamente al genitore affidatario gli assegni famigliari.
Deve notarsi che ancora dopo questa trasmissione Mevio continuava a dichiarare di essere “coniugato”, e che in precedenza aveva espressamente richiesto ala sua amministrazione di appartenenza il 20.6.2004 di beneficiare di assegni famigliari.
Detta circostanza comporta che quanto meno nella amministrazione di appartenenza un certo dubbio, almeno fino al 3.11.2004 data della ordinanza del giudice istruttore espressa vi era dal punto di vista del datore di lavoro circa la pertinenza degli assegni.
Invero, se nella continua attività di denuncia ed opposizione si fosse fatta più attenzione proprio a quella sentenza che si presumeva essere, tra gli altri l’invocato “titolo” agli assegni (Cass. 5060/2003) si sarebbe potuto leggere che la decisione, in virtù dell’art. 211 della legge 151/75 – invocato anche dalla istante – poneva a carico del marito l’obbligo di versare gli assegni famigliari oltre assegno di mantenimento.
Il primo titolare dell’obbligo quindi è il coniuge separato, non certo il suo datore di lavoro, specie se nessuno dei controinteressati mostri al datore di lavoro la esistenza di un provvedimento provvisorio di autorizzazione alla separazione, da cui almeno potrebbe farsi discendere la pretesa del pagamento diretto degli assegni, almeno per implicito sempre ammettendo che, per scienza giuridica fortunosamente in possesso del datore di lavoro, questi sia in grado di aderire alla istanza senza problemi.
La istanza dell’avente diritto anche se tale, non corredata da alcun provvedimento giudiziario rimane una istanza e giammai potrà invocarsi il motivo di giustizia e il conseguente rifiuto, specie ove, come nel caso in esame vi era analoga e diametralmente opposta istanza del Mevio.
Pertanto la condotta non può inquadrarsi ex art. 328 1° co. c.p., come richiesto pure dal P.M. nella richiesta di assoluzione.
Resta da esaminare la imputazione “alternativa”, ex art . 328 co. 2° c.p., vale a dire la omissione che si forma sul ritardo.
Non è in discussione il “diritto di accedere” a dati che la giurisprudenza, dopo anni di discussione, consente anche al titolare di interessi qualificati e non solo di diritti , e peraltro occorrerebbe dimostrare che nella amministrazione pubblica tutti conoscano la giurisprudenza relativa all’accesso, piuttosto appare assai dubbia la realizzazione della fattispecie così come la norma la disegna, che non ricalca fedelmente la normativa dell’accesso.
La fattispecie prevista dalla norma ex art 328 2° co. c.p. richiede diversi requisiti, in quanto è finalizzata alla tutela del cittadino dalla inerzia della pubblica amministrazione, non già alla tutela di un particolare tipo di interesse sostanziale del cittadino, mirando cioè a garantire una risposta ovvero la esplicazione delle ragioni della mancata risposta al cittadino che vanti un interesse non di mero fatto ma qualificato.
Secondo una giurisprudenza risalente a qualche anno fa il dovere di provvedere ex art. 328 2° co. c.p. sorgeva allorché l’atto fosse vincolato, con esclusione di qualsiasi scelta discrezionale sui tempi e i modi della sua emanazione e pertanto il pubblico ufficiale è tenuto, ricorrendo tutte le condizioni di fatto e di diritto necessarie, a compiere l’atto richiesto, ovvero, in mancanza delle condizioni stesse o in presenza di altre cause impeditive, a darne ragione nella risposta, prima del decorso del termine di trenta giorni, risposta che doveva essere scritta e non ammetteva equipollenti (così Cass. Pen., sez. VI, 3/11/97, n. 11484 Masiello Cass. Pen., 1999, 518).
E, quindi affinché si configuri il reato occorre che vi sia stata inerzia, a fronte di una richiesta precisa dell’avente diritto, esposta peraltro come espressa diffida ad adempiere (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 8/6/2000, n. 10002 Spanò – Cass. Pen., 2002, 1040, in quanto il diritto alla risposta nasce dalla ” … congruità dell’istanza medesima in relazione alla doverosità del comportamento della pubblica amministrazione, indipendentemente dalla fondatezza delle ragioni alla base dell’istanza e dunque dell’accoglimento della medesima (Cass. Pen., Sez. VI, 22/3/2000, n. 6778 Minicapilli e altri in Cass. Pen., 2001, 880).
Deve ricordarsi inoltre che l’articolo 2 della L. 241/90 prevede il dovere di concludere con provvedimento espresso un procedimento che sia obbligatorio rispetto ad una istanza, in un termine che ove non diversamente disposto è di trenta giorni e anche la norma sub art 328 2° co. c.p. prevede che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse il pubblico ufficiale debba compiere l’atto del suo ufficio, o rispondere sulle ragioni del ritardo, il che farebbe pensare ad un provvedimento adesivo e quindi ad un istante titolare del diritto al provvedimento.
Ma anche a voler collocare la norma sub art. 328, 2° co. c.p. nella finalità di trasparenza procedimentale, ciò rimanda alla individuazione fattispecie per fattispecie della obbligatorietà del procedimento, e quindi della chiusura di esso con un atto.
Il diritto ad un procedimento si pone in capo non già al titolare al diritto sostanziale da proteggere e soddisfare, – che avrebbe invece diritto ad un provvedimento – bensì in capo ai titolari di interessi legittimi, di quelle posizioni cioè tradizionalmente descritte dalla dottrina come posizione differenziata derivante da precedente rapporto di diritto pubblico in genere che fa sorgere nel soggetto un diritto alla pretesa di legittimità della attività amministrativa, differenziato dal diritto soggettivo che implica tutela diretta in quanto tale nei confronti della p.a. o dall’interesse di mero fatto di cui e portatrice la collettività di fronte alle scelte amministrative generali o semplice.
In definitiva non può che affermarsi che sono le norme positive, siano esse di primo grado o grado inferiore a determinare le posizioni soggettive e per questo motivo appare molto più rispondente alla esigenza di trasparenza ritenere che sussista comunque un diritto al procedimento se non al provvedimento adesivo in tutti i casi in cui non si sia di fronte a indifferenziati interessi di fatto o semplici, di categoria o di cittadinanza.
Sulla questione però, a parere di questo giudice, non sembra nemmeno che la Corte di Cassazione abbia un orientamento stabile giacché a fronte della decisione che segue di Cass. Pen., sez. VI, 15/5/2001, n. 24567, Monaco Riv. Pen.,2001,823 secondo cui “La previsione di cui all’art. 328,comma2, c.p., pur rispondendo alle stesse esigenze che si pongono a base della disciplina del diritto d’accesso di cui alla L. n. 241 del 1990, si colloca su di un piano di tutela diverso rispetto a quest’ultima. In particolare, è da escludersi che la formazione del silenzio rifiuto per il decorso del termine dei trenta giorni, costituisca, per il solo fatto di consentire al privato di promuovere un giudizio amministrativo, una risposta idonea tale da escludere la rilevanza penale dell’omissione in quanto, se cosi fosse, risulterebbe inutile e pleonastica la stessa presenza nell’ordinamento della previsione in oggetto. La richiesta del privato, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 328, comma 2, c.p., deve fondarsi su di una pretesa seria, volta cioè ad ottenere un provvedimento che riconosca un diritto certo del privato. Conseguentemente, non può operare la tutela apprestata dalla norma ogniqualvolta il cittadino conosca le ragioni per cui le sue richieste non vengono soddisfatte, cosi come avviene, in particolare, quando il preteso diritto sia contestato al punto da costituire oggetto di accertamento in un procedimento giurisdizionale (pendente) promosso dallo stesso privato poichè in tal caso la richiesta non può che essere pretestuosamente rivolta a superare i tempi necessari per ottenere una pronuncia da parte dell’autorità giudiziaria nè, d’altra parte, il giudice penale è autorizzato a sindacare il fondamento delle eccezioni sollevate dalla p.a. nel giudizio pendente”.
Vi è altresì quella di Cass. Pen., sez. VI, 13/3/2001, Gremmo (Riv. Pen., 2001, 617) secondo cui “… la richiesta presa in considerazione dall’art. 328, comma2, c.p., è solo quella proveniente da un soggetto privato (non appartenente alla p.a.) e connessa ad una situazione giuridica di diritto soggettivo od interesse legittimo con esclusione di situazioni che attengono ad interessi di mero fatto. Ciò tanto più vale nel caso in cui la richiesta abbia ad oggetto l’accesso ai documenti amministrativi in quanto la disciplina dettata in materia dalla L. 241 del 1990 (art. 22) e dal D.P.R. di attuazione n. 352 del 1992 (art 2) riconosce espressamente il diritto di accesso solo ai portatori di situazioni giuridicamente rilevanti, tali dovendosi intendere solo quelle di diritto soggettivo od interesse legittimo”.
In tutte queste decisioni appare peraltro chiaro che la tutela apprestata dalla norma ex art 328 2° co. c.p. e di carattere procedimentale, vale a dire volta a valorizzare la trasparenza della pubblica amministrazione, e quindi il diritto alla risposta,non già a un particolare tipo di risposta, ovvero a vedere esaudita la richiesta, salvo che essa non sia direttamente collegata al tipo di atto, vale a dire alla eventualità che si tratti di atto “dovuto”, a fronte invece di quella di carattere sostanziale apprestata solo in caso di urgenza e in presenza di ben precisi interessi a sensi dell’art. 328 1° co. c.p..
E la tutela procedimentale, in relazione al dato di fatto e di diritto che vede ormai sempre più indistinguibili le posizioni soggettive di diritto e quelle di interesse legittimo o di interesse diffuso, deve ritenersi estesa anche a interessi non qualificati.
Peraltro, detta tutela appare essere, si ribadisce, non finalizzata a garantire la risposta adesiva alla istanza, giacché non può consentire per giunta con valenza penale, la trasformazione, in posizione qualificata, solo in base ad una istanza, di quella che non è tale.
Il diritto all’accesso e alla conoscenza non è garantito e tutelato dalla norma sub art. 328, co. 2° cod. pen., ma dalle singole norme che lo prevedono o dalla più generale disposizione di cui alla L. 241/90.
Nel caso in esame peraltro vi è un’altra valutazione in fatto da operarsi.
Infatti solo a partire dal 14.9.2004 si ha prova di formale richiesta di ottenere dati precisi qualificando la richiesta stessa, sia pure come prospettazione e ponendola formalmente a conoscenza, posto che quelle note del 12 giugno 2004, ammesso e non concesso che fossero davvero giunte a destinazione, non contenevano nemmeno una formale diffida a rispondere fornendo dati.
Orbene la parte non ha nemmeno dato il tempo a che si consolidasse il termine di legge dei trenta giorni al fine della formazione del silenzio – inerzia, tanto che ha già proposto ricorso al T.a.r. in data 20.9.2004, ottenendo in data 4.10.2004 ostensione degli atti, indi non solo “una” risposta ma “la” risposta che cercava e nel termine di trenta giorni, quanto meno decorrente dal 14.9.2004.
Inoltre va considerato che la giurisprudenza sopra citata e riportata ritenendo che ove sia diversamente conosciuto il motivo, non sia necessaria risposta scritta, implicitamente consente a che la risposta non sia necessariamente tale.
Può senz’altro ritenersi che nell’immediato già al settembre 2004 allorché vi fu la telefonata, una riposta vi fu, e tanto lo sostiene la stessa persona offesa nella sua prima denuncia, laddove riporta e critica la dichiarazione telefonica di Tizio che non poteva riferire i dati richiesti per motivi di privacy.
Ne consegue quindi che il fatto non sussiste e pertanto Tizio va assolto dai reati ascritti
p.q.m.
Letti gli artt 438 e segg. c.p.p., 530 c.p.p. assolve Tizio, in atti generalizzato, dal reato ascritto perché il fatto non sussiste
Fissa il termine per la motivazione in giorni novanta.
Trani, 26.11.2007
Il Giudice
(dott. Maria Teresa Giancaspro)
Depositato in cancelleria il 22/2/2008
Con sentenza n° 716/07, resa a seguito di giudizio abbreviato, il G.U.P. presso il Tribunale di Trani, in persona della dr.ssa Maria Teresa Giancaspro, ha assolto un pubblico ufficiale dall’accusa di rifiuto ed omissione d’atti d’ufficio, riconoscendo l’insussistenza del fatto-reato ascrittogli.
L’imputato era responsabile dell’ufficio amministrazione di una caserma ed è stato tratto a giudizio a seguito di querela sporta dalla ex-moglie di un militare, la quale per esigenze connesse al procedimento civile di separazione, nella predetta qualità gli richiedeva di conoscere i dati relativi allo stipendio percepito dall’ex marito.
Il pubblico ufficiale entro i 30 gg. rispondeva telefonicamente, comunicando al difensore della richiedente che senza un ordine dell’A.G. non avrebbe potuto evadere tale richiesta, sussistendo ragioni di tutela della privacy del soggetto interessato.
Questo atteggiamento, secondo la tesi dell’istante, costituitasi parte civile, rappresentava un atteggiamento indebito e lesivo delle disposizioni di cui alla L. 241/90.
La difesa dell’imputato evidenziava, però, in primo luogo, la necessità di un preventivo atto di diffida da parte del richiedente, diffida ad adempiere che deve essere notificata espressamente al soggetto responsabile del procedimento (cfr. a titolo esemplificativo Cass. Pen., Sez. VI , 8263/’00; Cass. Pen., Sez. VI, 10002/’00; nel merito v. Trib. Pescara 20/2/’01; Trib. Fermo 22/7/’02).
In secondo luogo che la risposta non necessariamente deve essere data per iscritto, essendo sufficiente una mera comunicazione verbale, idonea ad evadere la richiesta.
In proposito vale richiamare un precedente dell’Ufficio Indagini Preliminari de La Spezia del 9/10/01 (pubblicata su www.penale.it), il quale ha ravvisato che il reato di omissione d’atti d’ufficio di cui all’art. 328 cod. pen. si consuma allorché il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, difronte alla richiesta di provvedere a compiere un atto del suo ufficio, non risponda nel termine di legge per esporre le ragioni del ritardo. Non è necessario che la risposta sia data per iscritto, essendo, invece, sufficiente anche una comunicazione verbale.
Sosteneva ancora la difesa dell’imputato che le motivazioni addotte dal pubblico ufficiale, legate alla privacy, non fossero peregrine e che nel caso in esame il fatto non costituisse reato per mancanza dell’elemento psicologico, caratterizzato dal dolo.
Infatti, ricevuta l’istanza, il pubblico ufficiale aveva conferito telefonicamente con la richiedente, esponendo le ragioni che non gli consentivano la comunicazione dei dati richiesti.
Nell’approfondita motivazione, ricca di autorevoli richiami giurisprudenziali, il GUP sostiene che la condotta dell’imputato non può essere inquadrata nell’ambito del co. 1° ex art. 328 cod. pen..
A tal proposito, nella sua pronuncia afferma che l’istanza dell’avente diritto anche se tale, non corredata da alcun provvedimento giudiziario rimane un’istanza e giammai potrà invocarsi il motivo di giustizia e il conseguente rifiuto.
Soggiunge che neanche l’ipotesi alternativa di cui al co. 2° può trovare riconoscimento.
A sostegno di ciò, il Tribunale così motiva: la fattispecie prevista dalla norma ex art 328 2° co. c.p. richiede diversi requisiti, in quanto è finalizzata alla tutela del cittadino dalla inerzia della pubblica amministrazione, non già alla tutela di un particolare tipo di interesse sostanziale del cittadino, mirando cioè a garantire una risposta ovvero la esplicazione delle ragioni della mancata risposta al cittadino che vanti un interesse non di mero fatto ma qualificato.
Secondo una giurisprudenza risalente a qualche anno fa il dovere di provvedere ex art. 328 2° co. c.p. sorgeva allorché l’atto fosse vincolato, con esclusione di qualsiasi scelta discrezionale sui tempi e i modi della sua emanazione e pertanto il pubblico ufficiale è tenuto, ricorrendo tutte le condizioni di fatto e di diritto necessarie, a compiere l’atto richiesto, ovvero, in mancanza delle condizioni stesse o in presenza di altre cause impeditive, a darne ragione nella risposta, prima del decorso del termine di trenta giorni, risposta che doveva essere scritta e non ammetteva equipollenti (così Cass. Pen., sez. VI, 3/11/97, n. 11484 Masiello Cass. Pen., 1999, 518).
E, quindi affinché si configuri il reato occorre che vi sia stata inerzia, a fronte di una richiesta precisa dell’avente diritto, esposta peraltro come espressa diffida ad adempiere (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 8/6/2000, n. 10002 Spanò – Cass. Pen., 2002, 1040, in quanto il diritto alla risposta nasce dalla ” … congruità dell’istanza medesima in relazione alla doverosità del comportamento della pubblica amministrazione, indipendentemente dalla fondatezza delle ragioni alla base dell’istanza e dunque dell’accoglimento della medesima (Cass. Pen., Sez. VI, 22/3/2000, n. 6778 Minicapilli e altri in Cass. Pen., 2001, 880).
E’ significativo il contributo “tecnico” che è possibile trarre da questa sentenza. Essa non solo offre un ampio quadro sulla corretta interpretazione e delimitazione della figura di reato prevista dall’art. 328 Cod. Pen., ma costituisce un importante riferimento per dirimere i conflitti tra diritto d’accesso e privacy.
Avv. Nicola Ulisse
(Si ringrazia l’Avv. Luigi Mastromauro del Foro di Trani per la cortese segnalazione.)