Corte di Cassazione, sez. lav., 22 settembre 2006 n. 20616


Svolgimento del processo


Con ricorso al Pretore di Genova, in data 25.5.1995, Pietro Lorenzo Santi impugnava il licenziamento intimatogli il 15.9.1994 dalla società Centro Sviluppo Materiali s.p.a., della quale era stato dirigente. Deduceva l’invalidità o l’inefficacia del recesso, con le relative conseguenze retributive o risarcitorie, e chiedeva altresì la condanna della società al risarcimento del danno per il demansionamento subito a partire dal 13.12.1993, con violazione
dell’art. 2103 c.c., nonché al risarcimento dell’ulteriore danno alla salute, ex artt. 2087 e 2043 c.c., per l’invalidità temporanea causatagli dalla condotta dell’azienda.
La società resisteva al ricorso e formulava domanda riconvenzionale per i danni causati dal dirigente con emissione di ordinativi senza potere e autorizzazione di esborsi non dovuti.
Il Pretore dichiarava l’inefficacia del recesso fino al termine del periodo di malattia del lavoratore e condannava la società al pagamento delle relative retribuzioni e dell’indennità supplementare; respingeva le altre domande del lavoratore e la riconvenzionale della C.S.M.
Il Tribunale di Genova, a seguito dell’appello principale della C.S.M. e di quello incidentale del Santi, così riformava la sentenza di primo grado: rigettava la domanda di condanna al pagamento della indennità supplementare e condannava la società a corrispondere al lavoratore, a titolo di risarcimento del danno da demansionamento, una somma di importo pari alle retribuzioni maturate dal 1 ° gennaio al 15 settembre 1994, da quantificarsi in prosieguo di giudizio.
Avverso tale sentenza Pietro Lorenzo Santi proponeva ricorso per cassazione; la C.S.M. resisteva e proponeva ricorso incidentale.
Con sentenza n. 9628 del 25 gennaio/21 luglio 2000 questa Corte accoglieva il quarto motivo del ricorso principale (con il quale il lavoratore aveva lamentato l’omessa statuizione sul capo della domanda con il quale aveva chiesto il risarcimento del danno biologico ex artt. 2043 e 2087 c.c.) ed il ricorso incidentale (con il quale la società aveva criticato la concessione di un danno da demansionamento nonostante l’assenza di prova specifica di tale
pregiudizio, in contrasto con l’orientamento della Corte di Cassazione, nonché la quantificazione del danno e la decorrenza degli interessi sulle somme riconosciute); rigettava gli altri motivi del ricorso principale e, cassata la sentenza in relazione ai motivi accolti, rinviava la causa al Tribunale di Savona.
Il giudice di rinvio, dinanzi al quale la causa veniva riassunta dal dirigente, rigettava la domanda di risarcimento del danno biologico ex artt. 2043 e 2087 c.c. e condannava la C.S.M. al risarcimento del danno da demansionamento, in € 40.358, 23, oltre interessi legali sulla somma capitale annualmente rivalutata dalla data della domanda al saldo. Compensava fra le parti le spese di tutti i gradi del giudizio.
I giudici di Savona osservavano che la Cassazione, nella sentenza rescindente, aveva individuato nell’illegittimo licenziamento la causa dei danni alla salute domandati dal signor Santi ed oggetto dell’appello incidentale, danni sui quali il Tribunale di Genova non si era pronunciato. La correttezza di tale interpretazione dell’appello era confermata dalla riduzione dei danni richiesti al solo periodo successivo al licenziamento: dal 15.9.1994 al 21.7.1995.
Essendo coperta da giudicato la legittimità del licenziamento, la domanda di danni alla salute non poteva essere accolta, mentre risultava inammissibile la stessa domanda, correlata in sede di rinvio non più al licenziamento ma al demansionamento.
Per la cassazione di tale decisione (sentenza del 4 dicembre 2002/18 febbraio 2003) ricorre, formulando tre motivi di censura, la s.p.a. Centro Sviluppo Materiali.
Pietro Lorenzo Santi resiste con controricorso e propone ricorso incidentale contenente due motivi di censura, ai quali resiste, con controricorso, la C.S.M.

Le parti hanno depositato memoria.


Motivi della decisione


1. Ricorso principale e ricorso incidentale, cui sono stati attribuiti distinti numeri di molo, vanno preliminarmente riuniti (art. 335 c.p.c.).


2. Con il primo motivo la difesa della ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 cod. civ., in relazione agli artt. 2103, 1223 e 1226 stesso codice; nonché insufficiente e contraddittoria motivazione.
Deduce che i giudici di rinvio non si sono attenuti al principio di diritto contenuto nella sentenza rescindente (” il danno da demansionamento non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro, ma deve essere oggetto di allegazione e prova secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c. c. “), ma hanno ritenuto raggiunto la prova del danno sulla scorta di considerazioni di carattere generale e presunzioni, con accenno all’ “id quod plerumque accidit” e con sostanziale violazione del ricordato principio di diritto.
Rileva la contraddittorietà della decisione perché da una parte, respingendo la domanda di risarcimento del danno biologico, si afferma che il  demansionamento non ha provocato alcun danno, né fisico né psichico meritevole di risarcimento, né ha determinato perdita di concrete chances di progressione lavorativa e di concorrenzialità sul mercato del lavoro, e, dall’altra, si presume che il demansionamento abbia provocato una apprezzabile lesione al prestigio professionale di grado elevato.


3. Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 1226 cod. civ., nonché vizio di motivazione, la difesa della società critica la sentenza nella parte in cui ha assunto, senza adeguata motivazione, l’ammontare complessivo della retribuzione come parametro per la determinazione del danno, e non ha considerato che l’inadempimento della società (all’obbligo di far espletare al dirigente mansioni consone al suo livello) non era colpevole, rispondendo ad esigenze di natura organizzativa, sicché il debitore, ai sensi dell’art. 1218 cod civ., non era tenuto a rispondere del danno.


4. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 cod. civ. ed insufficiente motivazione, la difesa della C.S.M. deduce che i giudici del rinvio hanno errato nel far decorrere gli interessi legali dalla data della domanda giudiziale, non tenendo conto che, nella sentenza  escindente, era stato indicato come dies a quo quello della sentenza (con citazione di Cass., n. 2456/93).


5. Con il primo motivo del ricorso incidentale, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2087 e 2103 c.c., nonché vizio di motivazione, la difesa Santi critica la sentenza nella parte in cui ha respinto la richiesta di risarcimento del danno alla salute e del danno biologico.
Deduce che erroneamente il Tribunale di Savona ha ritenuto che tali domande fossero collegate all’illegittimo licenziamento. Rileva che nel ricorso introduttivo del giudizio, a pag. 13, si era dedotto: “L ‘Ing. Santi, gravemente inciso da una sindrome ansioso depressiva che ne ha aggravato le condizioni, è tuttora ammalato (doc. 36 fascicolo di 1 ° grado). Tale infermità risulta eziologicamente provocata dalla vicenda lavorativa del ricorrente oggetto del presente ricorso”. Aggiunge che la domanda veniva reiterata e ripresa nella memoria difensiva con appello incidentale del 15.5.1998, al punto F, pag. 3, e ancora a pag. 20, con la seguente affermazione: “La sofferenza psicofisica patita dal ricorrente per fatto e colpa di C.S.M. che ha creato prima la base predisponente la malattia, demansionando illecitamente ed umiliando l’Ing. Santi con 1 ‘ablazione di tutte le sue funzioni”.


6. Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 429 c.p.c. e 1283 c.c., nonché vizio di motivazione, la difesa Santi critica la sentenza nella parte in cui fa decorrere gli accessori di legge dalla domanda, assumendo che gli stessi devono decorrere dall’evento dannoso.

7. Ricorso principale.
7. 1. Il secondo motivo del ricorso principale, nella parte in cui, invocando l’art. 1218 c.c., si deduce che nessun danno da demansionamento è dovuto, perché l’inadempimento contrattuale era stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile alla società, ha carattere pregiudiziale, atteso che il suo accoglimento renderebbe inutile l’esame delle altre censure.
Lo stesso è inammissibile, atteso che propone per la prima volta una questione mai sollevata prima. Nel precedente ricorso incidentale avverso la sentenza di appello che aveva concesso un danno da dequalificazione, la CSM aveva criticato l’inosservanza dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di prova specifica di un tale danno, nonché i criteri di determinazione dello stesso e la decorrenza degli accessori.
La impossibilità di far svolgere le mansioni proprie della sua qualifica all’ing. Santi, per causa non imputabile alla società, è quindi questione nuova e, come tale, inammissibile.
7. 2. Il primo motivo del ricorso principale è anch’esso infondato.
La sentenza rescindente n. 9628 del 2000, accogliendo il ricorso incidentale della società avverso la condanna ai danni da dequalificazione, ha censurato la sentenza di appello per la genericità di certe espressioni usate; perché si era discostata, senza alcuna valida argomentazione, dall’insegnamento di questa Corte circa il fatto che il danno biologico conseguente alla dequalificazione professionale patita, inteso come menomazione della integrità psicofisica della persona del lavoratore, deve essere da questi provato in base alla regola generale dell’art. 2697 c.c., non essendo sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta. datoriale; perché non aveva indicato il criterio di “valutazione equitativa” adottato come parametro “in precedenti statuizioni” né esplicitato le ragioni che avevano consigliato l’adozione di tale criterio; perché aveva fatto decorrere gli accessori dalla scadenza delle singole mensilità e non dal giorno della sentenza.
Il giudice del rinvio ha sostanzialmente osservato i criteri suggeriti dalla sentenza di questa Corte, spendendo adeguate argomentazioni a sostegno della sua decisione. Dopo avere rilevato che il fatto del demansionamento del lavoratore era coperto da giudicato, il Tribunale di Savona ha così motivato:
“In applicazione del principio di diritto sancito dalla Corte, secondo cui il danno da demansionamento non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro ma deve essere oggetto di allegazione e di prova secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c.c., ritiene il Collegio che tale prova sia stata effettivamente raggiunta, quantomeno in via presuntiva, sulla base del complesso univoco e convergente delle
risultanze acquisite in merito alla natura, alla portata e alla durata della dequaliftcazione subita nonché alle specifiche caratteristiche soggettive del lavoratore (Cass. 15868/2002, Cass. 13580/2002).
È un dato infatti ormai incontrovertibile che il Santi, all’epoca quarantatreenne titolare di una posizione dirigenziale di vertice all’ interno della società quale responsabile dell’Ente attuazione progetti speciali e già responsabile sino a pochi mesi prima anche dell’ Ente Sistemi di Funzionamento che operava alle dirette dipendenze dell’Amministratore Delegato, professionalmente stimato ed apprezzato da tutti (cfr. teste Pini Prato, amministratore della C.S.M. dal 1989 all’ aprile 1993), a partire dall’inizio del 1994 venne di fatto esautorato dall’ incarico e posto in una condizione di totale inattività prima di essere licenziato in data 15.9.1994. Il carattere totale (“rimase senza far nulla”) e repentino della privazione di qualsiasi mansione nei confronti di un dirigente in posizione di vertice e nel pieno della carriera professionale – privazione protrattasi per oltre otto mesi e tale da paralizzare totalmente l’esercizio dei poteri e delle competenze sino a quel momento impiegati nello svolgimento dell ‘attività lavorativa, in patente violazione dei doveri di tutela della professionalità di cui all’art. 2103 c.c. – non può non avere cagionato al lavoratore, secondo l’ id quod plerumque accidit, un ‘apprezzabile lesione al
prestigio professionale di grado elevato inerente la posizione dirigenziale rivestita all’ interno dell’ambiente di lavoro ed alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (Cass. 10/2002, 14443/2002) esigenza assolutamente frustrata nel caso di specie.
Sulla scorta degli elementi evidenziati deve dunque ritenersi accertata la sussistenza di un danno da demansionamento nella componente lesiva di un danno alla professionalità, quale bene immateriale inerente all’esplicazione dei diritti della personalità sul luogo di lavoro, dovendo invece essere esclusa la ricorrenza di distinte componenti di carattere immediatamente patrimoniale, quali la perdita di concrete chances di progressione lavorativa e di
concorrenzialità sul mercato del lavoro, che, al pari delle ulteriori lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore, avrebbero dovuto essere specificamente provate dal lavoratore.”
I giudici di rinvio hanno affermato cha le condizione di inattività lavorativa, nella quale era stato posto il Santi, non poteva non avere cagionato al lavoratore, secondo l’ id quod plerumque accidit, una apprezzabile lesione al prestigio professionale inerente la posizione dirigenziale rivestita e alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo.
Hanno quindi ricavato la sussistenza del danno al prestigio professionale ed alla dignità del lavoratore da una ritenuta regolarità causale fra demansionamento, nella specie particolarmente rilevante, e conseguenze dello stesso in ambito lavorativo per quanto concerne, appunto, prestigio professionale e dignità.
La motivazione è corretta e tiene conto, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente principale, dei principi di diritto affermati nella sentenza rescindente. Né sussiste contraddizione fra l’affermazione di un danno da demansionamento, nella componente lesiva di danno alla professionalità, quale bene immateriale inerente all’esplicazione dei diritti della personalità sul luogo di lavoro, e l’esclusione di altri danni, come la perdita di chances di progressione lavorativa o di concorrenzialità sul mercato del lavoro, o altre e diverse lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore.
7.3. Il secondo motivo, nella parte in cui lamenta insufficiente motivazione della decisione di prendere la retribuzione a base della quantificazione del danno alla prestigio professionale, è infondato. Il Tribunale di Savona ha osservato che il danno al prestigio professionale e alla dignità del lavoratore, prodotto dal demansionamento, è pressocché impossibile da provare nel suo preciso ammontare, e, pertanto, è suscettibile di valutazione equitativa ai
sensi dell’art. 1226 c.c., secondo l’orientamento di questa Corte (Cass., 7967/2002, 11727/1999); e che unico parametro obiettivo efficace è il corrispettivo della prestazione dedotta in contratto e, quindi, la retribuzione del lavoratore nel periodo di riferimento.
Si tratta di una valutazione di merito sufficientemente motivata, atteso che si fonda sull’innegabile rapporto fra prestazione e retribuzione; se la prestazione del lavoratore è impedita o declassata, hanno osservato i giudici del rinvio, la retribuzione pattuita costituisce un parametro obiettivo per la quantificazione del danno.
7.4. Il terzo motivo del ricorso principale, relativo alla decorrenza degli interessi, che si assume diversa da quanto indicato nella sentenza rescindente, sarà trattato unitamente al secondo motivo del ricorso incidentale, che verte sempre sulla decorrenza degli accessori.


8. Ricorso incidentale.
8. 1. Il primo motivo dell’incidentale è infondato.
Interpretando l’appello incidentale del lavoratore (lettera F), il giudice di rinvio ha rilevato che “l’espressa riduzione della domanda di risarcimento del danno biologico – anche sotto il profilo quantitativo limitata ad un terzo dell’ammontare richiesto in primo grado – in relazione alla sola inabilità temporanea manifestatasi a causa e in epoca successiva al licenziamento trova espresso e inequivoco riferimento nella parziale modifacaziane delle ragioni di fatto dedotte nella parte motiva dell’atto di appello incidentale: nel paragrafo relativo al danno biologico si deduce infatti la grave
sindrome ansioso depressiva verificatasi a causa e in conseguenza dell’illegittimo licenziamento”; il Tribunale di Savona ha quindi rilevato che in quell’appello si riconosceva come la dequalificazione precedente il recesso si fosse limitata a creare la base predisponente la malattia e si chiedevano i danni patiti “per ed in conseguenza dell’illegittimo licenziamento”.
La interpretazione che il giudice di rinvio ha fatto degli atti di causa (nella specie, dell’appello incidentale proposto al Tribunale di Genova) risulta corretta; i brani riportati dal ricorrente incidentale non inficiano la suddetta interpretazione, né vengono evidenziati vizi logici o violazioni di norme di ermeneutica.
8.2. Il secondo motivo del ricorso incidentale ed il terzo motivo del ricorso principale, che si trattano congiuntamente perché attaccano, da differenti angolazioni, la decorrenza degli accessori fissata dai giudici del rinvio, sono entrambi infondati.
Nella sentenza n. 9628 del 2000 questa Corte ha affermato che il Tribunale è incorso “nel vizio di motivazione inadeguata anche sotto il profilo della liquidazione degli accessori, fatti decorrere, ‘trattandosi di danno derivante da un illecito del datore di lavoro protrattosi nel tempo’, dalla scadenza delle singole mensilità retributive e non, invece, come ritenuto da questa Corte, dal giorno della sentenza (cfr. Cass.. n. 2456/93)”.
La massima della sentenza. n. 2456 del 26 febbraio 1993, citata dalla sentenza rescindente, così statuisce a proposito della decorrenza degli interessi: “Quando il giudice liquida il danno (nella specie mancato guadagno) conseguente all’inadempimento contrattuale di una parte con riferimento alla data della sentenza, in tal modo reintegrando il patrimonio del danneggiato nella consistenza che aveva alla data dell’ evento dannoso, gli interessi sono dovuti dal giorno della sentenza, e non dalla data dell’ evento dannoso.”
Il senso della affermazione della sentenza rescindente in punto decorrenza degli interessi diviene chiaro alla luce della massima richiamata: non è consentito, quando il danno è liquidato con riferimento alla data della sentenza, far decorrere gli interessi da epoca precedente al giorno della pronuncia giudiziale.
Il Tribunale di Savona ha però liquidato il danno in modo equitativo, commisurandolo alla “retribuzione del lavoratore nel periodo di riferimento”, senza attualizzarlo alla data della pronuncia. Non ha quindi liquidato il danno con riferimento alla data della sentenza, sicché non doveva far decorrere gli accessori da tale data. Ma neppure doveva necessariamente far decorrere gli accessori dalle date di maturazione delle retribuzioni dei periodo di riferimento; trattandosi di liquidazione complessiva ed equitativa del danno, ben potevano i giudici far decorrere, come hanno fatto, gli accessori
dalla data della domanda.
In conclusione entrambi i ricorsi vanno rigettati. La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di giudizio.


P.T.M.


La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese.



Così deciso in Roma il 5 luglio 2006 (depositato 22.9.2006).