Cassazione – Sezione sesta penale
sentenza 10 ottobre – 20 novembre 2007, n. 42790


Presidente Lattanzi – Relatore Matera Pm De Sandro – conforme –


Ricorrente Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Firenze


Fatto e diritto


1) Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Arezzo, Sezione Distaccata di Montevarchi, ha assolto G. Armando dal reato di appropriazione indebita aggravata perché il fatto non sussiste e dal reato di esercizio abusivo della professione di ragioniere perché il fatto non costituisce reato. In particolare, la pronuncia di assoluzione in ordine al capo di imputazione di cui all’art. 348 c.p. (“perchè non essendo iscritto all’Albo Professionale, esercitava abusivamente l’attività di Ragioniere svolgendo incarichi professionali per conto di C. Carlo redigendo e presentando al curatore fallimentare nominato dal Tribunale di Firenze per il fallimento della C.S.T.”; fatto commesso in Pian di Scò il 29-11-2003) è stata motivata sul rilievo che il G. aveva posto in essere un unico atto, tra l’altro non retribuito e determinato da motivi di amicizia.


2) Il Procuratore Generale di Firenze ricorre per saltum limitatamente alla pronuncia relativa al reato di cui all’art. 348 c.p., per erronea interpretazione di detta norma e, quindi, ai sensi dell’art. 606 lettera b) c.p.p. Secondo il ricorrente, la decisione impugnata si pone in contrasto col costante orientamento della Suprema Corte, secondo cui, ai fini della consumazione del reato in oggetto, non è necessario il compimento di una serie di atti, ma è sufficiente anche un solo atto, così come bastano prestazioni isolate, gratuite ed occasionali. Quanto all’elemento psicologico, inoltre, il reato non richiede il dolo specifico, per cui è sufficiente la volontarietà dell’azione nella quale si concreta la condotta criminosa. Infine, non esclude il reato neppure il consenso del destinatario della prestazione abusiva, in quanto l’interesse leso, essendo di carattere pubblico, è indisponibile.


3) Il ricorso è fondato.


La condotta esecutiva del delitto di-cui all’art. 348 c.p. consiste nel compimento di atti di esercizio di una professione per la quale sia richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, senza aver conseguito tale abilitazione.


La norma è volta a tutelare l’interesse generale, riferito in via diretta e immediata alla P.A., che determinate professioni, richiedenti, tra l’altro, particolari competenze tecniche, vengano esercitate soltanto da soggetti che abbiano conseguito una speciale abilitazione amministrativa (Cass. Sez. II, 21-11-2006 n. 3627; Cass. Sez. VI, 18-4-2007 n. 17203). Al riguardo, va evidenziato che l’art. 348 c.p. ha natura di norma penale in bianco, che presuppone l’esistenza di altre disposizioni di legge che stabiliscano le condizioni oggettive e soggettive in difetto delle quali non è consentito – ed è quindi abusivo – l’esercizio di determinate professioni (quelle per cui occorre l’abilitazione statale): trattasi propriamente di altre disposizioni che, essendo sottintese nell’art. 348 c.p., sono integrative della norma penale ed entrano a far parte del suo contenuto, cosicché la violazione di esse si risolve in violazione della norma incriminatrice (Cass. 15-11-1966 n. 2546; Cass. Sez. VI, 1-6-1989 n, 59; Cass. Sez. VI, 6-12-1996 n. 1632).


Costituisce principio acquisito in giurisprudenza quello secondo cui, ai fini della sussistenza del delitto di esercizio abusivo di una professione, non è necessario il compimento di una serie di atti riservati ad una professione per la quale sia richiesta una particolare abilitazione, ma è sufficiente anche il compimento di un solo atto (Cass. 7-3-1985 n. 4349; Cass. 11-12-1979 n. 3732). Controversa è invece la questione se la norma in esame tuteli esclusivamente gli atti c.d. propri o tipici, riservati a ciascuna professione, ovvero anche gli atti che, mancando di tale tipicità, possono essere compiuti da chiunque, anche se abbiano connessione con quelli professionali. A fronte di un indirizzo contrario a una interpretazione estensiva della disposizione in esame (Cass. Sez. VI, 24-10-2005 n. 7564; Cass. Sez. VI, 3-3-2004 n. 17702; Cass. Sez. VI, 11-5-1990 n. 11794), infatti, si registra un diverso orientamento, propenso a ritenere rilevanti, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 348 c.p., non solo gli atti riservati, in via esclusiva, a soggetti dotati di speciale abilitazione (c.d. atti tipici della professione), ma anche quelli c.d. caratteristici, strumentalmente connessi ai primi, a condizione che vengano compiuti in modo continuativo e professionale, in quanto, anche in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione per la quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo (Cass. 8-10-2002 n. 49).


Quanto all’elemento psicologico, esso è richiesto dalla legge a livello di mero dolo generico. Ai fini della configurabilità del reato di abusivo esercizio di una professione, pertanto, è irrilevante l’eventuale scopo di lucro e, in genere, qualsiasi movente di carattere privato; sicché, la consapevole mancanza di titolo abilitativo all’esercizio di tale professione, integra il dolo generico richiesto per la sussistenza del reato, ancorché “l’abusiva” prestazione “professionale” sia stata del tutto gratuita e con il concorrente consenso del destinatario di tale prestazione (Cass. Sez. II, 22-8-2000 n. 10816). Poiché, infatti, titolare dell’interesse protetto dalla norma penale è solo lo Stato, l’eventuale consenso del privato è del tutto irrilevante ex art. 50 c.p. (Cass. Sez. VI, 8-10-2002 n. 49).


Fatte queste premesse, si osserva che, nel caso di specie, il Tribunale, dopo avere accertato che il G. ha presentato per conto dell’amico C. Carlo una relazione a titolo di favore e senza ricevere alcuna retribuzione, ha mandato assolto l’imputato dal reato ascrittogli, sul rilievo che si era trattato di “un episodio singolo, di fronte alla contestazione di esercizio abusivo della professione che implica il protrarsi di una attività nel tempo”. Nel pervenire a tali conclusioni, peraltro, il Tribunale si è sottratto alla necessaria verifica della natura della prestazione compiuta dall’imputato e della sua eventuale inquadrabilità tra gli atti “propri” della professione di ragioniere; verifica che avrebbe dovuto essere effettuata, stante la evidenziata natura di norma penale in bianco dell’art. 348 c.p., con riferimento alle previsioni della seconda parte dell’art. 1 del d.p.r. 27-10-1953 n. 1068, che individua la competenza riservata a coloro che sono iscritti nell’albo dei ragionieri, specificando, con un’elencazione in otto punti, le attività che formano oggetto tipico di tale professione. Una simile indagine sarebbe stata doverosa, in quanto, per le ragioni in precedenza esposte, l’eventuale riconducibilità della prestazione effettuata dall’imputato tra quelle c.d. tipiche, riservate alla professione di ragioniere, avrebbe reso configurabile, nella specie, l’ipotesi criminosa prevista dall’art. 348 c.p., non rilevando, in contrario, l’unicità dell’atto, né la gratuità della prestazione e il consenso del destinatario.


Si impone, di conseguenza, l’annullamento della sentenza di primo grado, con rinvio, ai sensi dell’art. 569 ultimo comma c.p.p., al giudice competente per l’appello, il quale dovrà in primo luogo accertare se la prestazione posta in essere dall’imputato costituisca un atto “proprio” della professione di ragioniere, e in caso affermativo valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo, attenendosi al principio di diritto secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di esercizio abusivo di una professione, non è necessario il compimento di una serie di atti, ma è sufficiente il compimento di un’unica ed isolata prestazione riservata ad una professione per la quale sia richiesta una speciale abilitazione, mentre non rileva la mancanza di scopo di lucro nell’autore o l’eventuale consenso del destinatario della prestazione, in quanto l’interesse leso, essendo di carattere pubblico, è indisponibile.


PQM


La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 348 c.p. e rinvia alla Corte di Appello di Firenze per il giudizio.