IL CONTRATTO DI MANDATO IN FORMA SCRITTA.
OSSERVAZIONI DELL’AVV. SABINO PALMIERI
PRESIDENTE DELLA SEZIONE DI TRANI E CONSIGLIERE NAZIONALE ANF
DOPO IL CONVEGNO INDETTO DALLE CAMERE CIVILI DI TRANI IL 9.11.2007
“DALL’ABOLIZIONE DEI MINIMI DI TARIFFA
ALL’ACCORDO SCRITTO CON IL CLIENTE PROFESSIONALE”

Ho assistito, assieme a molti di Voi, alla relazione dell’Avv. Giuseppe BASSU, del CNF, nel convegno indetto dalle Camere Civili di Trani, cui mi onoro di appartenere.
Avendo fatto parte della Commissione dell’Associazione Nazionale Forense (ANF) per lo studio delle forme contrattuali per il mandato, nel convegno di Trani ho svolto un breve intervento nel quale ho cercato di dare un contributo al tema illustrando, in pochissimi minuti, il risultato degli studi dell’ANF e degli Ordini del Triveneto che hanno prodotto ben 11 diversi modelli contrattuali, ciascuno dei quali con problematiche proprie.
Raccolgo quindi l’invito di molti Colleghi che mi hanno chiesto di pubblicare sul sito tali forme contrattuali con la presente nota di commento, nello spirito di servizio ai Colleghi che ha sempre animato me, l’attuale Direttivo e tutta l’ANF.
La relazione dell’Avv. BASSU, pur densa di spunti interessanti, a mio avviso non ha risposto al principale quesito che si pone oggi all’Avvocato nei rapporti con il Cliente a seguito del decreto Bersani: se è possibile continuare a comportarsi come prima (Mandato orale e Procura scritta) ovvero è indispensabile formalizzare un contratto scritto di mandato e con quali clausole.
E’ opinione largamente condivisa, anche da chi scrive, che il contratto di mandato orale ha ormai fatto il suo tempo ed è necessario passare ad un modello di contratto scritto, che è maggiormente garantista sia per l’Avvocato e sia per il Cliente. Ed è opinione dell’ANF che una maggiore trasparenza tariffaria può comportare un aumento degli affari per l’Avvocato, giacché può avvicinare alla consulenza legale e all’attività giudiziale anche soggetti oggi fortemente preoccupati dei costi.
A seguito del Decreto Bersani del luglio 2006 l’ANF Nazionale, con il particolare contributo dell’Associazione Provinciale Forense di Bergamo (commissione degli avvocati Jacopo Gnocchi, Gabriele Terzi, Ernesto Tucci e Franco Ugetti), ha avviato uno studio approfondito del Decreto Bersani, e delle implicazioni del medesimo, per fornire un supporto pratico di linee guida ai Colleghi oltre che predisporre alcuni modelli di contratto.
La Commissione dell’ANF in sede Nazionale ha predisposto un modello contrattuale che ho chiamato “modello centro-sud”, poiché lo ritengo più aderente alla nostra realtà.
Tale modello contiene un richiamo alle tariffe, contiene anche l’informativa per la privacy ed è estremamente breve per evitare di spaventare il cliente, soprattutto quello di modesta istruzione.


L’Associazione Provinciale di Bergamo ha predisposto 4 modelli contrattuali più complessi:




  • a)- contratto con richiamo alla tariffa forense;


  • b)- contratto con applicazione di tariffa fissa o forfetaria;


  • c)- contratto con compenso “parametrato agli obiettivi raggiunti”, impropriamente detto “patto di quota lite”;


  • d)- contratto con applicazione di tariffa oraria.

Nel contempo gli Ordini del Triveneto hanno predisposto sette modelli contrattuali che allego alla presente relazione. Si tratta di:




  • a)- contratto tipo secondo tariffe -1^ opzione-;


  • b)- contratto tipo secondo tariffe -2^ opzione-;


  • c)- contratto tipo compenso forfetario;


  • d)- contratto tipo tariffa oraria;


  • e)- contratto tipo patto di quota lite;


  • f)- contratto tipo secondo tariffe con palmario;


  • g)- contratto tipo compenso forfetario con palmario.

I vari modelli contrattuali potranno essere utilizzati a seconda del tipo di incarico ricevuto dal Cliente, sempre che il “nostro” Cliente non si spaventi (!), accetti (!), e, come ci diceva l’Avv. Bassu, non abbia la forza contrattuale di mettere sul tavolo il Suo contratto professionale, fortemente vessatorio per il professionista, e all’Avvocato non resti che accettare o rifiutare.


Procederò all’illustrazione delle problematiche che presentano i vari modelli contrattuali illustrati con particolare riferimento alla relazione svolta dai Colleghi di Bergamo, che mi sembra assai precisa e puntuale.
E’ opportuno esporre l’argomento inquadrando per sommi capi la situazione così come era delineabile fino al 4.7.2006 giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, con immediata entrata in vigore, del decreto legge n. 223/2006 comunemente conosciuto come “Decreto Bersani”, poi convertito con la legge n. 248 del 4.8.2006 (peraltro con modifiche assolutamente rilevanti), per poi analizzare brevemente le novità stesse introdotte da tale legge nonché dal Codice Deontologico Forense che si è dovuto adeguare entro la data del 1.1.2007 e quindi illustrando le applicazioni pratiche nel c.d. “contratto con il cliente”, evidenziando gli aspetti che ad oggi, vista l’assenza di giurisprudenza e di dottrina approfondita, potrebbero creare rischi e presentare criticità.


a) LA SITUAZIONE FINO AL 4.7.2006
Fino alla data di entrata in vigore della “Bersani” il rapporto tra Avvocato e cliente era un rapporto di natura contrattuale, più precisamente un contratto d’opera professionale, non soggetto a particolari requisiti di forma, la cui norma di riferimento, relativamente al compenso, era rappresentata dall’art. 2233 C.C., nel testo allora vigente. Il compenso del professionista era determinato seguendo le fonti ivi indicate in ordine gerarchico e cioè:



  1. l’accordo tra le parti;

  2. tariffe professionali o usi;

  3. liquidazione da parte del giudice sentito il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati;

A ciò si aggiungevano i precetti contenuti nella tariffa (artt. 4 e segg. D.M. 127 del 8.4.2004) e nella legge (art. 24 L. 13.6.1942 n. 794) in forza dei quali le tariffe minime erano assolutamente inderogabili ed ogni accordo in tal senso era civilisticamente nullo, oltreché sanzionato disciplinarmente, mentre era considerato civilisticamente valido l’accordo che derogasse i massimi ma anch’esso poteva integrare un comportamento deontologicamente rilevante (Cass. Sez. Un. 103/1999 e Cass. 7051/1990), salvo “autorizzazione” del consiglio dell’Ordine nei casi previsti (vedi art. 4 tariffa forense).
Ciò non avveniva per le tariffe professionali di altre categorie (ad esempio gli architetti) per le quali gli accordi per compensi sotto i minimi erano validi, anche se disciplinarmente sanzionati.
A ciò si aggiungeva quanto dettato dall’art. 2233 C.C., 2° e 3° comma e cioè la necessaria adeguatezza del compenso all’importanza dell’opera ed al decoro della professione nonché il famoso divieto di patto di quota lite sul quale molto è stato scritto e che era considerato un caposaldo dell’onorabilità e della tradizione della professione forense, in quanto frutto di una precisa scelta di principi e di lunga tradizione.
Infine, sempre a livello di previsione codicistica, vi era anche l’art. 1261 C.C. che, tuttavia pur essendo considerato parzialmente non coincidente nei presupposti era però, in linea di massima, fatto rientrare nella più ampia previsione di cui al 2233 C.C. in quanto vietava solo le cessioni di crediti litigiosi, mentre il 2233 C.C. vietava ogni negozio relativo ai beni formanti oggetto di patrocinio legale anche non contenzioso (Cass. Civ. 27.2.1979 n. 1286).


b) LA SITUAZIONE AL 4.7.2006: L’ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO BERSANI
Il 4.7.2006 entra in vigore il famoso “Decreto Bersani” che relativamente ai compensi professionali (art. 2), nella formulazione originaria prevedeva:




  • – l’abrogazione integrale dei minimi tariffari;


  • – l’abrogazione integrale di ogni voce tariffaria fissa (quindi per gli avvocati i .c.d. “diritti”);

In conseguenza di questa formulazione, nel periodo di vigenza del decreto (4.7.2006 – 4.8.2006), i minimi tariffari e le voci fisse erano state materialmente espunte dalla tariffa e quindi per le situazioni giuridiche iniziate ed esauritesi in tale periodo, ad esempio un atto di precetto redatto il 10 luglio le voci, fisse, ad esempio, non dovrebbero neppure poter essere prese in considerazione, in quanto non più esistenti.
Come si legge, si tratta di una formulazione radicale che, a seguito delle proteste dell’avvocatura ad esempio a causa dell’assenza di ogni previsione in materia di liquidazione giudiziale delle spese, ha portato ad inserire al momento della conversione alcune modifiche che ne hanno modificato sostanzialmente il contenuto.


c) LA SITUAZIONE AL 4.8.2006: L’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE DI CONVERSIONE DEL DECRETO BERSANI.
La legge di conversione del Bersani relativamente alle tariffe fa sostanzialmente tre cose (art. 2):




  1. Abroga espressamente l’ultimo comma dell’art. 2233 Cod. Civ. e lo sostituisce con una previsione di forma scritta (v. art. 2233 C.C. nuovo testo);


  2. Abroga tutte le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali “l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime” e che prevedono il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”, imponendo contestualmente l’adeguamento delle norme deontologiche entro il 1.1.2007;


  3. Prevede che la liquidazione giudiziale avvenga comunque in forza della Tariffa professionale;

La Bersani, tuttavia non ne fa altre e cioè:




  1. lascia inalterato il secondo comma dell’art. 2233 Cod. Civ.


  2. lascia inalterato l’art. 1261 Cod. Civ.

Prima di analizzare l’impatto pratico di tali previsioni ci si deve porre una domanda sul dato testuale della norma: cosa significa abrogazione della obbligatorietà? E quindi, cosa significa che una voce tariffaria, sia essa un “minimo” o una voce “fissa” non è più obbligatoria?
A mio avviso significa soltanto che è consentita la pattuizione scritta in deroga ai minimi tariffari che prima del decreto Bersani era invece nulla: in difetto tutto resta come prima.
E’ possibile però sostenere anche altra tesi di estrema pericolosità per l’Avvocato: la voce tariffaria minima esiste ancora ma non è più vincolante.
Secondo questa tesi le conseguenze appaiono di non facile gestione, poichè se da un lato rendere non più obbligatori i minimi significa che una prestazione dovrà essere valorizzata da zero ai massimi, rendere non più obbligatorie delle voci fisse potrebbe anche significare che tali voci non possono essere più richieste al cliente (salvo una precisa pattuizione in tal senso) poichè, per fare un esempio, se la tariffa mi dice che per la prestazione “consultazione con il cliente” è dovuto un diritto fisso di € 45, il cliente a cui chiedo il pagamento potrebbe benissimo rispondermi che tale importo non è obbligatorio e quindi non me lo paga, oppure me lo vuol pagare in misura ridotta.
E in questa ottica diviene necessario stipulare un contratto scritto con il cliente. Tale contratto previene in radice ogni contestazione di tale tipo in quanto fissa negozialmente la valorizzazione delle prestazioni dell’avvocato, ad esempio rendendo nuovamente vincolanti i minimi tariffari ed i diritti fissi.



In questo quadro normativo si può quindi osservare che:




  • – è errato quanto sostenuto da alcuni e cioè che la Tariffa sia stata abrogata, invero la Tariffa è tutt’ora vigente, semplicemente i minimi e le voci fisse non sono più vincolanti (e quindi può dirsi superato per abrogazione espressa l’art. 24 L.13.6.1942 n. 794 che, appunto, prevedeva la nullità civilistica dei patti in deroga ai minimi);


  • – la liquidazione giudiziale delle spese avviene in forza della tariffa: ma quale tariffa? Se si accede alla tesi da me sostenuta non è cambiato nulla: quella di cui al D.M. 8.4.2004 n. 127 con minimi e massimi perché nella liquidazione giudiziale il Decreto Bersani non ha innovato nulla. Seguendo invece l’altra tesi, sostenuta dai Colleghi di Bergamo, dovrebbe farsi riferimento ad una tariffa in cui minimi e le voci fisse non sono più obbligatorie, visto che la previsione è stata inserita nel medesimo articolo di legge che, appunto, prevede tale novità. Pertanto, mentre prima il Giudice doveva motivare in sentenza se liquidava gli onorari al di sotto del minimo, oggi, non essendoci più un minimo o un diritto fisso vincolante, non vi è neppure un obbligo di motivazione in tal senso;


  • – resta valido l’impianto generale del 2233 C.C. con una previsione in più e cioè che gli accordi con i clienti, nelle parti riguardanti i compensi, debbono rivestire la forma scritta ad substantiam ai sensi dell’art. 1350 n.13, come espressamente previsto dal nuovo art. 2233 c.c. Altre eventuali pattuizioni relative al contratto d’opera professionale possono anche essere orali anche se, nei fatti, è più pratico redigere un unico contratto scritto;


  • – non è tuttavia obbligatorio stipularli (nessuna norma lo impone) ma è estremamente opportuno poiché, in mancanza, seguendo la seconda tesi, il compenso potrebbe essere liquidato arbitrariamente in basso, in forza della Tariffa ma senza il limite inferiore (non più vincolante) alle voci che lo prevedevano e quindi in pratica, alcune prestazioni potrebbero essere liquidate, ad esempio in 2 euro piuttosto che in 50 euro;


  • – nulla viene detto per i massimi tariffari che di fatto, non vengono toccati. Infatti il tenore testuale della Bersani non dice che i massimi “non sono più obbligatori”, come invece fa per i minimi, ma dice che si può pattuire un compenso parametrato al raggiungimento dell’obiettivo perseguito: ne consegue che se questo inciso verrà interpretato in senso restrittivo, i massimi tariffari potranno essere derogati solo in relazione a tale patto ed in relazione all’esatto raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in caso contrario restano validi e vincolanti, come prima, quantomeno per il profilo deontologico;


  • – resta in vigore il secondo comma dell’art. 2233 Cod. Civ. e cioè “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione.” Arricchito anche da un ulteriore limite, pur se di rango inferiore, e cioè il nuovo art. 45 Cod. Deont. Forense vigente che richiede che i compensi “siano proporzionati all’attività svolta”.


  • – l’abrogazione del divieto del patto di quota lite (detto PQL) di cui all’ultimo comma del 2233 C.C. riapre sostanzialmente l’ambito operativo dell’altro divieto prima citato e cioè quello previsto all’art. 1261 C.C. che è tutt’ora vigente. Il Prof. Danovi, in un convegno a Bergamo, ebbe ad osservare che tale norma è situata in un altro libro del codice e non riguarda direttamente il contratto d’opera professionale. Indubbiamente è vero. Però tale norma c’è e, ad avviso dei Colleghi di Bergamo, non si può fare a meno di tenerne conto anche perché, per come viene interpretata dalla giurisprudenza, essa si riferisce al divieto di cessione di tutti i diritti litigiosi, non solo ai crediti ma anche ai diritti reali quindi e questo potrebbe comportare la nullità di un accordo con il cliente nel quale si prevede che come compenso pur se “parametrato all’obiettivo da raggiungere” vengano ad esempio ceduti dei diritti reali su cui è in atto la controversia;


  • – quello che era definito “palmario” e cioè quella somma di denaro corrisposta dal cliente al professionista a titolo di premio per il risultato raggiunto previsto dall’art. 45 del Codice Deontologico Forense, nella vecchia formulazione, viene sostanzialmente inglobato dalla possibilità di pattuire direttamente un compenso legato al risultato raggiunto. Va ricordato che “palmari” che nei fatti corrispondevano a misure attorno al 15-20% del valore della lite erano già considerati patti di quota lite vietati (v. Cons. Naz. For. 23.11.2000, n. 180 e 13.12.2000 n. 253).

d) LE POSSIBILI APPLICAZIONI PRATICHE: I CONTRATTI CON IL CLIENTE
In relazione al nuovo assetto normativo ed alle problematiche illustrate, sono stati elaborati quattro tipi di possibili accordi con il cliente che dovrebbero rappresentare le ipotesi base anche se nulla vieta di elaborarne altre: 1) richiamo alla tariffa forense; 2) compenso fisso forfettario 3) compenso parametrato ai risultati raggiunti, 4) tariffa oraria.
Tutte le predette ipotesi presentano, alcune di più altre di meno, alcuni rischi sia deontologici che civilistici, in relazione a quanto detto sopra. Vediamole singolarmente.


1) Contratto con richiamo della tariffa forense
Si tratta dell’ipotesi più semplice che ricalca quanto già avvenuto finora nella maggioranza dei casi e cioè che il lavoro dell’Avvocato viene remunerato applicando la tariffa forense vigente. La differenza sta nel fatto che in questo caso seguendo la tesi da me sostenuta è estremamente opportuno, seguendo l’altra tesi è assolutamente necessario, prevedere espressamente di far salvi i minimi tariffari ed i diritti fissi che, altrimenti, non essendo più “obbligatori” potrebbero essere considerati non più vincolanti e quindi pagabili dal cliente solo se spontaneamente riconosciuti.
Con tale contratto si pattuisce preventivamente e in forma scritta (art. 2233 3° comma) la quantificazione delle voci variabili in relazione al minimo ed al massimo.
Sottolineo che in caso di annullamento/risoluzione/rescissione ecc… e cioè in ogni caso in cui il contratto dovesse venire a mancare, ritornerebbe applicabile il 2233 C.C. e cioè che, in mancanza di accordo, si applicheranno le tariffe con il minimo “non obbligatorio”, o “non “vincolante”.
In tal caso seguendo la tesi da me sostenuta tutto resterebbe come prima e la liquidazione dovrebbe avvenire secondo le tariffe tra un minimo ed un massimo; seguendo l’altra tesi invece poiché, a seguito della “Bersani” il minimo non sarebbe più vincolante, in caso di contestazione, la liquidazione sia da parte dell’Consiglio dell’Ordine e da parte del Giudice, potrebbe essere notevolmente inferiore ai minimi tariffari.


2) Contratto con applicazione della tariffa fissa o forfettaria.
Si tratta di una ipotesi che, secondo la ratio legis della Bersani favorirebbe la concorrenza, poichè permetterebbe di personalizzare i costi in relazione al cliente, scendendo sostanzialmente sotto i minimi senza nullità civilistiche o sanzioni disciplinari. (es. ti faccio una separazione a 100 €).


Vi sono, tuttavia alcuni interrogativi che debbono essere tenuti presenti:




  • a) cosa succede se il compenso forfettario è troppo elevato? In tale caso, per i Colleghi di Bergamo, ritengo vi siano due strade: o si include nel contratto una expressio causae estremamente chiara (es. “Accetto di pagare € 20.000 all’avvocato perchè per me vincere questa causa è di fondamentale importanza per questi motivi….) e allora il corrispettivo esorbitante potrebbe essere fatto salvo, oppure si rischia una differente qualificazione del contratto e cioè che da contratto d’opera diventi una sorta di liberalità, visto che, nei fatti, sto regalando un sacco di denaro al professionista a fronte di prestazioni che certamente non valgono tale cifra. Inoltre, sempre nel caso di compenso forfettario troppo elevato vi è il rischio di violazione del secondo comma dell’art. 2233 C.C. che, secondo una parte molto minoritaria della giurisprudenza, consente al giudice un controllo di merito non solo in relazione ai minimi o ai massimi tariffari ma in relazione all’importo tout court ed infine, un corrispettivo forfettario troppo elevato rischia di essere sanzionato, per altro verso, ai sensi dell’art. 45 Cod. Deont. Forense vigente che richiede che i compensi “siano proporzionati all’attività svolta”.


  • b) cosa succede se il corrispettivo è troppo basso?

Posto che i minimi tariffari non sono più vincolanti e quindi la loro violazione non è più sanzionata con la nullità del patto, vi possono essere sanzioni disciplinari a chi, ad esempio, assiste le parti in cause molto lunghe per un compenso modesto?
Anche in questo caso, pur essendo il patto civilisticamente valido, potrebbe esservi una sanzione ex art. 45 Cod. Deont. For. in senso inverso rispetto al caso precedente e cioè si pensi il professionista che per una certa causa lavora per tre anni, produce molte memorie, lettere, attività stragiudiziale, non potrebbe farsi pagare poco, perchè tale (basso) compenso non sarebbe proporzionato all’attività svolta.
Qui vi è un contrasto con l’art. 45 che però è norma di rango inferiore ad una legge che rende non vincolanti i minimi tariffari e che pertanto libera il professionista da ogni valutazione in merito.


3) Contratto con compenso “parametrato agli obiettivi raggiunti”, o altrimenti detto “patto di quota lite”.
Preliminarmente va detto che le due nozioni, a mio avviso, non coincidono.
E’ possibile pattuire un compenso minimo da corrispondersi in ogni caso, magari anticipatamente, e poi un compenso ulteriore “parametrato agli obiettivi raggiunti” o al “risultato conseguito”.
Un tale contratto mi sembra non solo possibile e lecito, ma forse auspicabile.


Questione del tutto diversa è il patto di quota lite, estraneo alla nostra tradizione giuridica, che ribalta una nostra consolidata scelta di politica legislativa in senso contrario, dove l’Avvocato perde il necessario distacco rispetto all’esito della lite, che è indispensabile per lavorare meglio nell’interesse del Cliente e della Giustizia, e il Cliente è costretto a rinunziare ad una parte più o meno ampia del proprio diritto per ottenerne la tutela giudiziale.
Si tratta dell’ipotesi più difficoltosa e rischiosa, non tanto da un punto di vista della legislazione speciale, quanto per la presenza dell’art. 1261 Cod. civ. e della normativa deontologica visto che la Bersani esplicitamente ammette che i compensi siano “parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”.
Tale inciso può essere interpretato come l’ammissibilità del vero e proprio patto di quota lite (il famoso 25% tanto per intenderci) oppure che si può chiedere più denaro in relazione all’obiettivo raggiunto ma restando all’interno dei massimi tariffari vigenti.
Spinge nel senso della prima soluzione l’abrogazione espressa del terzo comma del 2233 Cod. Civ. che stabiliva il divieto del PQL.
Pertanto, abolito il divieto e stabilita la possibile parametrazione dei compensi al risultato, sembra possibile concordare un pagamento in proporzione a quanto si “porta a casa per il cliente” (o a quanto gli si fa risparmiare o a quello che può essere concordato come “obiettivo”).


Tuttavia sia la normativa civilistica sia quella deontologica pongono due ulteriori limiti.


Il primo limite è rappresentato dal già citato art. 1261 Cod. Civ., rimasto immutato, che dispone: “ gli avvocati [..] non possono, neppure per interposta persona, rendersi cessionari di diritti sui quali è sorta contestazione davanti l’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni, sotto pena di nullità e dei danni.”.
Pertanto, se tale norma viene interpretata in senso restrittivo, potremmo avere che una clausola contrattuale in cui si stabilisce che l’avvocato incasserà il 20% del credito che recupererà per il cliente (oppure, sempre facendo un esempio, uno dei tre beni immobili ereditari del mio cliente ed oggetto di lite giudiziaria ) venga interpretata come una sorta di cessione di un diritto litigioso, con conseguente nullità (e danni!).
Al contrario, se tale norma viene interpretata in senso ordinario, e cioè tenendola ben distinta dall’abrogato divieto di patto di quota lite (in tal senso si veda la voce “patto di quota lite” Enc. Diritto Giuffrè, a firma Giuseppe De Stefano), sarà possibile stabilire un compenso parametrato, purché la clausola contrattuale venga formulata in maniera adeguata e rigorosa.
Si pensi a questo semplice caso (peraltro molto verosimile).
Si presenta da voi Tizio che vi comunica che con tutti i suoi risparmi ha comprato dall’imprenditore Caio due appartamenti, uno piccolo per sé e sua moglie ed uno più grande per la famiglia di suo figlio. Caio l’ha citato in giudizio per veder accertata la nullità di tale compravendita (oppure l’annullamento, la risoluzione, scegliete voi..). Tizio vi dice “Avvocato, io non ho più un soldo…se lei vince la causa e riesce a far salvi i due appartamenti, io le cedo fin da ora il mio, purché almeno mio figlio abbia un tetto sopra la testa…
Si tratta di un compenso parametrato ad un obiettivo da raggiungere? Direi di si. Si tratta di un patto che viola il disposto del secondo comma dell’art. 2233 Cod Civ.? Direi di no. Si tratta di un patto che viola l’art. 45 cod. Deont. For.? Direi di no, anzi. Si tratta patto che viola l’art. 1261 Cod. Civ. ? Forse, ed in tal caso si avrebbe nullità assoluta ed insanabile, con il risultato che se vincete la causa e poi Tizio non vuole più darvi l’appartamento…probabilmente il giudice gli darà ragione.
Tenete anche conto che, a dispetto del tenore letterale dell’articolo, la limitazione viene intesa da una parte della giurisprudenza, pur se datata (App. Firenze 18.4.1962) che si applichi a tutto il territorio nazionale, visto che non esistono le limitazioni territoriali allo svolgimento della professione previste per le altre categorie.
E’ pur vero che l’ultimo comma del 1261 c.c. consente le cessioni fatte in pagamento di debiti e quindi sarebbe consentito all’Avvocato di rendersi cessionario di diritti litigiosi nei casi come quello precedente, senza rischi di nullità, tuttavia, il richiamo che il nuovo art. 45 Cod. Deont. For. opera a tale norma lascia qualche dubbio.
Va tenuto presente che la giurisprudenza relativa a tale articolo è piuttosto esigua e datata.


Il secondo limite è quello per cui un corrispettivo percentuale troppo elevato rischia di essere sanzionato, per altro verso, ai sensi dell’art. 45 Cod. Deont. Forense vigente.
Ad esempio, se in un caso di risarcimento danni l’importo complessivo ammonta ad € 800.000 e l’Avvocato riesce a recuperare tale somma con una brevissima attività stragiudiziale, potrebbe stabilire con il cliente un compenso pari al 30 % di tale somma portandosi a casa 240.000 € o tale accordo sarebbe sanzionato disciplinarmente poiché il guadagno non sarebbe proporzionato alla (poca) attività svolta.
Anche in questo caso si potrebbe aprire un lungo dibattito, poichè non si capisce come una norma deontologica di rango regolamentare (inferiore) possa limitare una facoltà riconosciuta dalla legge (di rango superiore): nel dettaglio dalla legge Bersani che consente un compenso parametrato all’obiettivo raggiunto, a prescindere dall’attività svolta.


In ogni caso, finché non si avranno precedenti giurisprudenziali certi, il rischio di nullità o di interpretazioni restrittive permane.
In via prudenziale è preferibile formulare la clausola relativa al compenso in modo da escludere ogni collegamento con quella che potrebbe essere una cessione del credito litigioso e, quanto alla misura, in modo presumibilmente corrispondente all’attività che si andrà a svolgere, anche se una tale valutazione potrebbe essere molto difficile.
In merito, si consiglia assolutamente di approfondire l’art. 1261 Cod. Civ. (anche se la giurisprudenza non è molto abbondante) oltre ai numerosi commenti in corso di pubblicazione sulle riviste di settore ed alla giurisprudenza correlata.
Segnalo, ad esempio che i primi commenti apparsi sulla stampa specializzata racchiudono un po’ tutte le posizioni, si pensi ad esempio a quanto scritto sul Corriere Giuridico n. 4/2007 a firma di Schlesinger secondo cui in verità poco sarebbe cambiato poichè il secondo comma dell’art. 2233 c.c. ed il nuovo art. 45 Cod. Deont. limiterebbero notevolmente la libertà negoziale degli avvocati e, sempre secondo il predetto autore, non sarebbe possibile stabilire un contratto di tipo americano dove se si vince la causa l’Avvocato incassa una bella percentuale ma se perde non incassa nulla, perchè a dire dell’autore, il contratto diverrebbe aleatorio e non più a prestazioni corrispettive. Personalmente condivido l’opinione del Prof. Schlesinger: compenso “parametrato all’obiettivo raggiunto” non significa stabilire che il diritto al pagamento dipende soltanto dall’obiettivo raggiunto: in tal caso non mi pare si possa discutere che la natura del contratto d’opera professionale muta da contratto commutativo a contratto aleatorio.
E’ vero che nessuna norma vieta di stipulare un contratto d’opera professionale aleatorio ma, bisogna tener presente che nella prestazione giudiziale dell’Avvocato, a differenza di quella di altri professionisti (ingegnere, architetto ecc.) l’esito della lite non dipende soltanto dall’opera professionale dell’Avvocato ma anche da eventi esterni. E non penso solo alla valutazione del Giudice, e sarebbe già abbastanza, ma anche ad altri eventi esterni (es: all’esito dell’esame di alcuni testimoni, alla sopravvenuta morte o incapacità di un teste decisivo ecc.); va considerato inoltre che l’esito della causa può dipendere anche da comportamenti della parte assistita (che per esempio non comunica il nome dei testi nei termini perentori stabiliti dalla legge, o si avvale di un CTP inidoneo ecc).


Ritengo quindi che un modello contrattuale “aleatorio” potrebbe comportare più problemi di quelli che cerca di risolvere.
Nel modello predisposto dai Colleghi di Bergamo il compenso per l’Avvocato viene si parametrato al risultato raggiunto, ma viene anche previsto che in caso di esito sfavorevole l’Avvocato venga comunque pagato secondo la tariffa. Ma questa possibilità e cioè di prevedere entrambe le forme di retribuzione, ad avviso dei Colleghi di Bergamo, non deve essere ritenuta pacifica, infatti in tal caso si sfugge alla logica del “più rischio, più guadagno, più concorrenza” che la Bersani ha voluto introdurre e si crea un contratto rischioso ma solo per il cliente mentre non vi sono rischi per l’Avvocato che viene comunque remunerato.
Inoltre una formula come quella descritta non può certo rientrare nel concetto di “compenso proporzionale” poichè la proporzionalità viene superata dalla previsione di una quota fissa comunque destinata all’Avvocato.
Si può obiettare che un simile risultato, e cioè di essere pagato a prescindere dal risultato della causa, avveniva già (e tuttora avviene) con l’applicazione delle tariffe: tuttavia il presupposto è totalmente diverso poichè l’applicazione delle tariffe è un effetto di legge e non della volontà dei privati e la legge può consentire anche risultati aberranti, l’autonomia dei privati non può invece spingersi a tanto, pena la nullità del contratto ex art. 1418 c.c. o una sua differente qualificazione.
Vi sono anche altri commenti, tra cui quello pubblicato sul Corriere del Merito n. 4/2007 a firma dell’Avv. Pierluigi Tirale, piuttosto moderato oppure quello sempre sul Corriere del Merito n. 1/2007 a firma del Prof. Guido Alpa, secondo il quale, addirittura il ruolo di controllo deontologico sulla libertà negoziale degli avvocati (cioè sul quantum di tale libertà), sempre in base al nuovo art. 45 cod. deont., diviene praticamente imprescindibile.


Come si vede, le posizioni sono molto variegate e talune sono anche più refrattarie al nuovo sistema.
Resta estremamente problematica l’ipotesi della transazione della lite: cosa accade se il Cliente vuole transigere per 1.000 Euro una controversia di 100.000,00 Euro? Può farlo o diventa vincolante il parere negativo dell’Avvocato? E il compenso in questa ipotesi come andrà calcolato? E se l’Avvocato vuole transigere una controversia messa male e il Cliente rifiuta? Non so dare delle risposte, se non che, anche per esperienza, il coinvolgimento diretto dell’Avvocato nella lite è sempre inopportuno onde la scelta strategica di lunga tradizione che voleva un avvocato distaccato dall’esito della controversia resta a mio avviso valida e da salvaguardare.
Non va dimenticato comunque che, nelle esperienze straniere, come ci riferiva l’Avv. Bassu, il patto di quota lite è applicato con percentuali che si aggirano intorno al 40%.


4) Contratto con applicazione della tariffa oraria.
Ritengo che sia una forma contrattuale particolarmente adattata alle prestazioni di consulenza, a quelle stragiudiziali, come già previsto dalla vigente tariffa professionale, ed in particolari a quelle comportanti sessioni con altri colleghi alla presenza del cliente.
Ho forti dubbi invece che tale forma contrattuale possa essere utilizzata per le prestazioni giudiziali o in tutti i casi in cui il tempo utilizzato dipende in modo meramente potestativo dall’Avvocato, senza essere ancorato ad un criterio oggettivo, che la legge stabilisce parametrandolo al tempo normalmente necessario per compiere una prestazione (cfr. art. 2225 c.c. in tema di disposizioni generali per il contratto d’opera) e non al tempo effettivamente impiegato.
Anche in questo caso l’utilizzo improprio di tale forma contrattuale può creare più problemi di quelli che può potenzialmente risolvere.
Si tratta di una ipotesi che non è stata introdotta dal decreto Bersani essendo già prevista dalla vigente tariffa forense per lo stragiudiziale. La novità sta nel fatto che è ora necessario prevederla in forma scritta (art. 2233 comma 3° come novellato dalla Bersani). Tenuto conto che i massimi tariffari sono tutt’ora vigenti e vincolanti (salvo accordo “parametrato” ai sensi della Bersani e sempre che tale legge venga interpretata in senso estensivo), resta però il problema di una tariffa oraria che porti ad un compenso sproporzionato, come già esposto per i casi di tariffa forfettaria e di PQL. Basti pensare ad una tariffa di 200 € l’ora, con qualche giorno di lavoro esclusivo e con un pò di udienze produrrebbe piuttosto velocemente un importo molto elevato.
Infine, in merito ad un compenso orario troppo basso, si è fatto l’esempio della concorrenza sleale in senso commerciale.
Tuttavia ritengo molto difficile che un professionista, magari giovane, (che lavora in casa senza segreterie e senza struttura particolare), possa essere accusato di concorrenza sleale se applica tariffe anche molto basse, perchè l’abrogazione della vincolatività dei minimi ha chiaramente mostrato che tale parametro non è più considerato un valido riferimento da parte del legislatore.
Altro discorso è se il grande studio con 100 avvocati, inizia a pubblicizzare che, ad esempio, le separazioni le fa pagare 200 €. Si deve valutare caso per caso tenendo conto che, a differenza delle imprese commerciali dove ci sono dei prezzi medi di mercato (ma non sempre) e dove ci sono dei costi (sempre), per i professionisti una simile soglia non esiste. O meglio, era rappresentata dall’inderogabilità dei minimi che, però, come noto, non esiste più. Inoltre, anche le imprese commerciali se sono in grado di vendere i propri servizi a prezzi più bassi e se non attuano forme scorrette di vendita sottocosto, non incorrono in alcuna sanzione.


5) Possibili Forme Miste
E’ un’ipotesi che non è stata presa in considerazione tra i modelli da fornire in quanto le possibili varianti date dalla combinazione dei modelli esposti (ed anche di altri) sono praticamente illimitate. Restano anche in questo caso alcuni dubbi: è ad esempio possibile stabilire che il compenso viene stabilito applicando la Tariffa oltre ad un compenso orario fisso ed un forfait fisso?
Non vedo particolari difficoltà però anche qui valgono le osservazioni sopra formulate circa l’art. 45 Cd. Deont. For. e la ratio della Bersani che è quella di creare più rischio e concorrenza tra i professionisti e minori costi per i clienti.


e) CONCLUSIONI
Ad avviso dell’ANF e di chi scrive, ferme restando le critiche alla Bersani, riassunte nel manifesto ANF redatto dalla scrivente in occasione dello sciopero degli Avvocati e fatti propri dall’ANF nazionale, gli Avvocati non dovrebbero mostrare una chiusura preconcetta ai principi della Bersani, ma, senza snaturare l’essenza della nostra professione, cercare di comprendere le esigenze del Cliente che ha diritto di conoscere preventivamente i costi, quantomeno orientativi, di una prestazione professionale onde decidere l’AN, prima che il QUANTUM della medesima.


In questa ottica un contratto di mandato in forma scritta, con diritti ed obblighi, è indice di trasparenza che la categoria potrebbe e dovrebbe offrire al cittadino. Ho solo il dubbio che la nostra realtà economica e sociale non sia oggi pronta a tanto; certamente bisogna lavorare in questa direzione.
Se la nuova normativa verrà applicata senza snaturarne gli scopi e, almeno nei primi tempi, con prudenza e moderazione da parte degli operatori, gli effetti non potranno che essere positivi.


Nella redazione dei contratti, per tutti i motivi ed i dubbi esposti, la massima attenzione deve essere posta al tenore letterale della clausola con la quale viene scelto e determinato il modo di pagamento: piccole differenze possono portare anche a qualificazioni differenti ed a gravi conseguenze, in primis la nullità di cui all’art. 1261 C.C.
Va, inoltre, tenuto conto che nel caso in cui si vogliano inserire previsioni particolari, sarà necessario verificare caso per caso se il cliente non rientri nella nozione di consumatore, poichè, in tale evenienza si dovrà tenere conto delle limitazioni imposte dal codice del consumo (d.lgs. 206/2005), degli obblighi informativi e delle nullità di protezione ivi previste.
Oggi tuttavia il maggiore ostacolo non è la predetta norma ma il coordinamento con la previsione di cui all’art. 45 Cod. Deont. For. che, per come è formulata, consente ogni tipo di interpretazione, sia restrittiva che estensiva. Sarà compito degli organi disciplinari (consigli territoriali e CNF) applicarla cum grano salis in modo da renderla compatibile con lo spirito della legge e con le pressanti esigenze di modernizzazione e concorrenza orami imprescindibili.


Un ultimo suggerimento ai Giovani Avvocati: non curate la concorrenza sui prezzi ma quella sulla qualità della prestazione. La concorrenza sui prezzi consente forse di captare qualche Cliente in più o di guadagnare pochi euro in più oggi ma con tali metodi, estremamente miopi, nella professione non si va da nessuna parte. Al contrario solo curando di accrescere ogni giorno la professionalità e la qualità delle prestazioni offerte ai Clienti –come richiesto dal regolamento CNF sulla formazione permanente- diventerete Avvocati veri: i corrispettivi arriveranno.


Sperando di aver fornito qualche risposta resto in attesa di osservazioni sulla presente e a disposizione per qualsiasi chiarimenti in merito.


Avv. Sabino PALMIERI
Presidente ATA Trani e Consigliere Nazionale ANF