CAMERA PENALE DI TRANI

COMUNICAZIONE
per
l’incontro di studio


LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE
Magistrati e Avvocati a confronto


di Leonardo Iannone



orientata ad auspicare l’approfondimento della tematica deontologica quale imprescindibile premessa per l’analisi della ratio della responsabilità disciplinare dei magistrati e degli avvocati.


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Deontologia” è un termine (dal greco dèon) che si dice coniato dal filosofo Jeremy Bentham “per designare la sua dottrina utilitaristica dei doveri” (in inglese: deontology), il cui impiego è “ passato poi a indicare lo studio (empirico) di determinati doveri in rapporto a particolari situazioni sociali”. (1)
Nell’uso comune indica quell’insieme di norme, regole o “canoni” utili ad orientare correttamente l’esercizio di una professione anche se connesso all’espletamento di una funzione di natura pubblica.
La genesi delle norme deontologiche è empirica.
Il metodo per conoscere e codificare la realtà deontologica è di stile hegeliano, quasi sempre modellato attraverso la “dialettica degli opposti”: per considerare ed apprezzare, ma soprattutto per individuare e codificare i valori deontologici positivi, laddove evidentemente se ne avverte la mancanza, siamo costretti a prendere le mosse dalla constatazione dei fenomeni negativi.
La realtà deontologica per il mondo del diritto e più in particolare per la relativa attività processuale non è dissimile in questo dalle altre situazioni.
E’ pur sempre un continuo divenire.
Paradossalmente l’esito del processo finisce quasi sempre per scontentare tutti: l’offeso, perché la condanna è mite o giunge troppo tardi; l’innocente perché la sofferta assoluzione non lo ripaga dal danno psichico, morale, economico, sociale ormai irreversibilmente provocato da un’accusa semplicemente infondata e talora infamante; la società per i tempi insopportabilmente dilatati al cospetto del risultato spesso deludente riguardo alle aspettative nutrite, sempre inadeguato agli sforzi impiegati ed ai costi sopportati.
Altrettanto paradossalmente la quotidiana constatazione dell’insuccesso funziona da forte antidoto.
Riesce a far prendere coscienza ai protagonisti principali, ed anche ai “comprimari”, dei limiti del processo, ma al contempo, alimenta l’aspirazione nel miglioramento del processo come mezzo attraverso il metodo, cioè le “regole” per “adoperarlo” nel modo più corretto.
Il processo è anzitutto “ordine”. L’ordine è reso dalle “regole”. Solo se queste si osservano con scrupolo e lealtà il risultato può essere il migliore dei possibili. Cioè, giusto.
Alle regole del rito, tutte codificate, si affiancano e talvolta persino si antepongono quelle “di condotta”, non sempre completamente scritte, che si ritrovano in norme processuali o ordinamentali, nelle norme deontologiche approvate ovvero si ricavano dall’insieme dei principi e canoni deontologici già espressi (2) ed anche da moduli di comportamento consigliati da organismi associativi accreditati o, comunque, ricavati dalla “distillazione” della prassi quotidiana.
Appare chiaro, a questo punto, come nei rapporti tra i principali protagonisti dell’agire processuale emergano spazi operativi non regolamentati dalla legge e perciò neppure presidiati da sanzione, nell’ambito dei quali appunto la lealtà e la correttezza costituiscono i fondamentali canoni-guida per propiziare comportamenti che scongiurino l’abuso.
Se per lealtà si intende quell’atteggiamento di onestà e dirittura morale, di attaccamento al proprio dovere ma con il rispetto dovuto alla propria e altrui dignità, nel mantenimento degli obblighi assunti nei rapporti con determinate persone(3), la correttezza ha come essenziale riferimento il “contegno” che una persona deve avere o almeno ripromettersi “nei rapporti con gli altri(4).
Sicché può definirsi abuso ogni comportamento che appaia formalmente non in contrasto con una regola scritta, ma sostanzialmente elusivo di principi condivisi o contrario ai canoni fondamentali deontologici o più in generale a quelli morali.
Un’autorevole dottrina, in un momento del passato non proprio democratico per il nostro Paese e per la disciplina del rito penale, ebbe acutamente ad auspicare: “l’esercizio delle attività processuali deve essere non solo formalmente corrispondente alle regole poste dalla legge processuale, ma anche sostanzialmente immune dal abusi”. (5)
Venne così elaborato il “principio di lealtà processuale” ed inserito tra gli altri principi sistematici già caratterizzanti il processo penale, trovando una autonoma, quanto singolare collocazione codicistica in seno all’art. 154 c.p.p. abr. (“obbligo d’osservanza delle norme processuali”) che chiudeva il capo del primo libro dedicato agli atti ed ai provvedimenti del giudice; collocazione riconfermata, pressoché testualmente, nel codice vigente mediante l’art. 124, ma con sistemazione più appropriata nel libro secondo concernente gli atti, proprio a chiusura delle relative disposizioni generali.
Si è così costantemente ritenuto di ricordare in primo luogo ai magistrati che se allora erano “obbligati”, oggi “sono tenuti a osservare le norme di questo codice anche quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale(6).
Per gli avvocati, tutti gli avvocati in quanto iscritti all’albo forense, il dovere di lealtà ha trovato invece esplicita codificazione deontologica ( che concorre a formare il contesto dell’ordinamento professionale) non soltanto con riferimento ai momenti concernenti qualsiasi orditura processuale, attraverso le previsioni espresse dal Codice Deontologico Forense vigente (7); soprattutto dagli articoli 6 (“Doveri di lealtà e correttezza”), 11 (“Doveri di difesa”), 14 (“Doveri di verità”), 53 (“Rapporti con i magistrati”), secondo cui “I rapporti con i magistrati devono essere improntati alla dignità e al rispetto quali si convengono alle reciproche funzioni”.
Per i difensori nel processo penale, la specificità del ruolo e la particolare delicatezza della funzione inducono a considerare l’importanza dell’ulteriore sottosistema deontologico di stile operativo apprestato attraverso le Regole di comportamento del penalista nelle indagini difensive (8). Queste ultime, completando e per molteplici aspetti persino integrando la disciplina dettata dal codice di rito penale per le investigazioni difensive (9), impongono al difensore, tra gli altri, specifici “doveri negli accessi ai luoghi e nella ispezione delle cose” (art. 14), oltre che il “dovere di assicurare il contraddittorio negli accertamenti tecnici irripetibili” (art. 15), tutti convenientemente orientati a salvaguardare la correttezza e la lealtà in primo luogo verso il magistrato del pubblico ministero, naturale controparte del difensore dell’accusato (o comprimaria di quello del leso ovvero danneggiato dal reato) nel momento di ricerca e fissazione di elementi probatori rilevanti per il futuro processo.
Per i magistrati, al di là della prescrizione di obbligo espressa dalla appena ricordata disposizione normativa processuale, contraddistinta da innegabili antinomie testuali e persino da paradossi nei contenuti ma pur sempre negletta (10), esiste anche un <<codice etico>>, denominato Codice deontologico del Magistrato (11), che si vorrebbe adottato non senza incertezze sia di ordine costituzionale con riguardo alla norma impositiva sia di assetto prescrittivo, incertezze coagulate nella solenne affermazione iniziale orientata verso la inoperatività sul piano della efficacia giuridica delle regole ivi espresse (12).
Tuttavia tra esse appaiono codificati gli “Obblighi di correttezza del magistrato” (art. 10) comprendenti una generica (quanto, forse, pleonastica) prescrizione di comportamento educato e corretto ed una contestuale esortazione a mantenere “rapporti formali rispettosi della diversità del ruolo da ciascuno svolti”. In quel “ciascuno” dovrebbero essere ricompresi gli avvocati.
Ed allora se, come è stato acutamente osservato, “la deontologia è una morale che tende a diventare diritto” (Debray), e la morale è caratterizzata essenzialmente da imperativi, questi ultimi, allorché vengono sedimentati, coagulati, e poi condivisi dalla coscienza professionale di ogni singola categoria, caratterizzano un’etica più specifica e ricca di quella che rappresenta il bagaglio dell’uomo normale.
Un patrimonio sicuramente comune per gli avvocati, come per i giudici e per i magistrati del pubblico ministero è rappresentato dal corpo fondamentale dei valori etico – professionali radicati nella cultura liberale in quanto espressi dai principi di indipendenza e di autonomia comunque rinvenibili in ognuna delle rispettive autodiscipline codificate.
Con la consapevolezza di una base culturale siffatta, certamente idonea a costituire indispensabile patrimonio comune, sembra possibile oggi raggiungere un ulteriore livello di consolidamento del contesto deontologico reciproco condividendo anche nei contenuti gli imprescindibili canoni della correttezza e della lealtà specie nei rapporti professionali.
Quelli umani si assestano e si regolano autonomamente su basi diverse, spesso di matrice elettiva.
E’ possibile tornare al discorso iniziale per ribadire anzitutto che i codici deontologici o le regole di comportamento, per chi queste si è date, costituiscono verosimilmente il risultato, più o meno aggiornato, dei rimedi (antidoti) ricercati ed attuati per evitare o almeno fronteggiare le esperienze negative che ognuna delle categorie professionali ha così inteso scongiurare (o si è impegnata a farlo) per il futuro.
In questo la deontologia rappresenta la massima espressione del diritto vivente. Costituisce una disciplina complessa, attraverso la distillazione e la conseguente fissazione di principi regole metodi o criteri, insuscettibili di riduzione in norme precise o complete.
Dunque poco rileva se il corredo deontologico dell’avvocato sia più ricco, più radicato, più vasto rispetto al contesto etico che appare regolare la condotta del magistrato, specie nel campo assai delicato e complesso dei rapporti interpersonali in ambito professionale.
E’ importante invece che i principi ed i valori condivisi costituiscano una valida base per far partire la tanto auspicata formazione comune delle professioni legali, che finalmente si riveli utile a creare ab imis i presupposti per una educazione culturale comune prima che per una preparazione iniziale conforme.
Se oggi siamo qui ad interrogarci “reciprocamente” e a confrontarci sulla essenzialità deontologica di ognuno, è perché siamo sicuramente mossi dall’avvertita esigenza di individuare una possibile intesa comune almeno in termini di lealtà e correttezza reciproche per interagire al meglio fuori e nel processo.
Utilizzando il “metodo dialettico degli opposti” possiamo insieme, attraverso la constatazione delle rispettive condotte sleali, elusive, negative, viziate, indecorose, dare corpo ad una elaborazione di regole deontologiche comuni che consentano di educare noi tutti a rifuggire ogni possibile “abuso” nel ( o del ) processo in danno reciproco o, peggio, di chi ha diritto di attendersi un processo giusto anche nella correttezza insita nel puntuale rispetto delle regole etiche.
La consapevolezza di questi principi elementari, ma essenziali , oggi non diviene per noi tutti solo conoscenza di aspirazioni comuni .
Deve renderci coscienti dell’essere e voler reciprocamente divenire persone dotate di una coscienza professionale che nel nucleo fondante annoveri, insieme agli intangibili valori dell’indipendenza e dell’autonomia, l’imprescindibile rispetto delle regole in quanto tali, specie quelle non gradite e soprattutto quelle non presidiate da sanzioni, e,prima di ogni altro timore prudenziale, quello di non avere badato alla attenta comprensione delle ragioni degli altri.
Trani, 19 ottobre 2007


Leonardo Iannone
avvocato


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Note



  1. Vocabolario Della Lingua Italiana, Ist. Encicl. Ital., 1987, II, 48.
    L’opera, apparsa postuma nel 1834, con cui il filosofo inglese intese creare una categoria autonoma tra le scienze sociali recava appunto come titolo “Deonthology or the science of morality”.

  2. Emblematica in tali sensi si rivela la “DISPOSIZIONE FINALE” dettata dall’art. 60 del vigente Codice Deontologico Forense che, quale “Norma di chiusura”, avverte gli avvocati che per l’agire professionale sono tenuti a considerare come “Le disposizioni specifiche di questo codice costituiscono esemplificazioni dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei principi generali espressi”. E’ un principio importante ed unico. Non è dato infatti rinvenire una norma simile neppure tra i “Principi di deontologia professionale dei Notai” nel testo risultante dalla codificazione di recente approvata per la categoria ( testo pubblicato in G.U. del 12 maggio 2004 Supplem Ordinario n°91 ).

  3. Vocabolario Della Lingua Italiana, cit., I, pag. 966.

  4. Vocabolario Della Lingua Italiana, cit., II, pag. 1076. .

  5. Massari, Il processo penale nella nuova legislazione italiana, Napoli, 1934, p. 127.

  6. Sembrerebbe infatti che l’art. 124 c.p.p. sia destinato ad essere abrogato. Almeno stando alle previsioni del progetto elaborato e – a quanto è dato oggi apprendere – in procinto di essere licenziato dalla Commissione ministeriale di studio per la riforma del codice di procedura penale presieduta da Andrea Antonio Dalia.

  7. Approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 17 aprile 1997 con le modifiche introdotte il 16 ottobre 1999 e il 26 ottobre 2002.

  8. Approvate dall’Unione Camere Penali Italiane il 30 agosto 2001.

  9. Art. 327 – bis e intero titolo VI – BIS del libro V, come aggiunti nel testo del codice di procedura penale ad opera degli artt. 7 e 11 legge 7 dicembre 2000 n. 397.

  10. Nonostante l’avvertimento in essa chiaramente espresso ai destinatari subito dopo il richiamo loro rivolto ad osservare ogni norma processuale specie quelle non presidiate da sanzioni, circa le possibili conseguenze sul piano della responsabilità disciplinare, potendo l’inosservanza concretizzare per il magistrato una mancanza ai propri doveri secondo quanto previsto dall’art. 18 R.D.lgs. 31 maggio 1946 n. 511, la prescrizione è risultata costantemente ignorata.

  11. Oggetto della Deliberazione del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati del 7 maggio 1994.

  12. Emblematica è la Premessa. Specie nel brano in cui viene espressa una riserva tecnica da parte dell’A.N.M. che , pur dicendosi non legalmente tenuta all’adozione di un codice etico, tuttavia chiarisce che “ha ritenuto di darvi attuazione considerando comunque opportuna l’individuazione di regole etiche cui, secondo il comune sentire dei magistrati, deve ispirarsi il loro comportamento. Si tratta, peraltro, di indicazioni di principio prive di efficacia giuridica, che si collocano su un piano diverso rispetto alla regolamentazione giuridica degli illeciti disciplinari”.